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Dov’è Dio negli otto mondi di Wittgenstein?

di Francesco Lamendola - 19/03/2019

Dov’è Dio negli otto mondi di Wittgenstein?

Fonte: Accademia nuova Italia

Il modello di realtà delineato da Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosopicus, (del 1922) la sua ontologia, fa perno su quattro concetti fondamentali: oggetto, stato di cose, fatto e mondo. Un oggetto è, per il filosofo ebreo tedesco, una “cosa”, ossia una entità semplice che, combinandosi con altre entità, forma uno stato di cose. Quest’ultimo è, pertanto, una certa combinazione di alcuni oggetti. Da notare che alcuni stati di cose sono soltanto possibili, cioè dotati di una loro coerenza logica; altri sono reali, e in questo caso si tratta di fatti. Il fatto è, quindi, nell’ontologia di Wittgenstein, uno stato di cose che si realizza nello spazio materiale; mentre la totalità dei fatti costituisce ciò che egli chiama mondo, sempre con riferimento a ciò che trova riscontro nello spazio materiale, e non una mera possibilità logica.

Notiamo che già da questa impostazione emerge, come nel caso dell’Ethica more geometrico demonstrata di Spinoza, una incapacità, o un rifiuto, da parte del pensatore, di ammettere la realtà piena di ciò che non si realizza nello spazio materiale. Se ammettere che alcuni oggetti esistono, pur essendo di natura virtuale, cioè solamente “possibili”, però non fanno parte del mondo reale, è arbitrario, riconoscere che gli oggetti sono sia possibili, sia reali, e poi negare lo statuto di reale ai primi, è contraddittorio. Chi lo dice che la realtà è definita solo da uno spazio reale? E poi che significa “reale”? Non è in alcun modo un sinonimo di “concreto”, ma semmai di “effettivo”. I sogni esistono, fino a prova contraria, ma non nella dimensione concreta; pure, appartengono alla realtà, tanto è vero che possono influenzarla anche concretamente. Se una persona sogna i numeri vincenti del lotto e poi, da sveglia, li ricorda e decide di giocarli, il suo sogno si prolunga e si riflette in un’azione concreta, che modifica la realtà (ovviamente a prescindere dal fatto se vince davvero, oppure no). In ogni caso, le realtà immateriali esistono e sono reali tanto quanto le realtà materiali; quel che è lecito dire, a rigor di logica, è che giacciono su di un altro piano di realtà rispetto a quelle. Cos’ì, pure, lo spazio della geometria è uno spazio reale, anche se non è uno spazio materiale; tuttavia, non abbiamo alcun diritto di affermare che solo lo spazio materiale è reale: forse che il teorema di Pitagora è una cosa irreale? Niente affatto: è una cosa estremamente reale; tuttavia non è di natura materiale.

Questo è un punto fondamentale, che fa dell’ontologia di Wittgenstein, come quella di Spinoza, una ontologia materialista e radicalmente immanentista, e, in ultima analisi, una derivazione di quella cartesiana, ma con una connotazione ancor più rigidamente materialista di essa. Come per Cartesio tutta la realtà si costituisce in due sole categorie, la res cogitans, cioè il pensiero, e la res extensa, lo spazio materiale, per Wittgenstein gli oggetti sono, sì, di due tipi, materiali e mentali, ma solo i primi costituiscono il mondo “reale”. Evidentemente, per lui la realtà deve cadere per forza sotto i nostri sensi, deve avere un’estensione, e perciò egli supera, in rigidità matematica, perfino Cartesio, il quale non solo non nega allo spirito la qualifica di esistenza, ma ne fa, anzi, il perno del suo intero sistema: cogito, ergo sum; penso, dunque esisto. Il fatto di considerare come “mondo” solo l’insieme dei fatti che si realizzano nello spazio materiale, significa che, per lui, i fatti di natura non materiale, né spaziale, non meritano di esser considerati parte costitutiva del mondo. Si tratta di un immanentismo radicale e di un panteismo ancor più connotato in senso quantitativo di quello di Spinoza; un immanentismo che fa quasi rimpiangere il pur deprecabile dualismo cartesiano, perché Cartesio, almeno, non esclude dal “mondo” la res cogitans, tutt’altro; semmai, gli si può rimproverare di aver totalmente de-spirtualizzato le realtà materiali, tracciando una rigida linea di separazione fra le due dimensioni, che, nella realtà, non trova riscontro. Chi può dire dove finisce la dimensione fisica e dove comincia la dimensione immateriale della natura umana? Quale medico, ad esempio, potrebbe affermare con assoluta sicurezza che un certo disturbo, una certa disfunzione, una certa malattia, sono esclusivamente di natura materiale, e che in esse non entrano per nulla dei fattori di tipo psichico, emozionale, spirituale? Se la condizione umana, nella sua realtà terrena, è costituita da un elemento fisico, il corpo, e da un elemento spirituale, l’anima, chi potrebbe dividerli in maniera netta e categorica?

E adesso vediamo il modello logico degli otto mondi di Wittgenstein. Per lui, tre soli oggetti sono sufficienti a definire uno spazio in miniatura, cioè un mondo intero; è ovvio che nel mondo reale gli oggetti sono moltissimi, ma lo schema dei tre oggetti è sufficiente a definire tutte le possibili combinazioni che si creano fra gli oggetti, e così a definire un certo tipo di mondo. Prendiamo il caso, dunque, di tre oggetti: A, B e C.  Le relazioni fra tre oggetti possono dar luogo a otto configurazioni possibili (ci permettiamo di rimandare il lettore, per la sua chiarezza didattica, al testo di Maurizio  Ferraris Il gusto di pensare, Torino, Paravia, 2019, vol. 3, pp. 626-629):

1) gli stati di cose AB, AC e BC sono fatti;

2) AB e AC si danno come fatti, ma non compare BC;

3) AB e BC si danno come fatti, ma non compare AC;

4) AC e BC si danno come fatti, ma non compare AB;

5) AB si dà come fatto, ma non compaiono né AC, né BC:

6) AC si dà come fatto, ma non compaiono AB, né BC;

7) BC si dà come fatto, ma non  compaiono né AB, né AC;

8) non si dà alcuno degli stati di cose definiti da AB, da AC e da BC.

Mentre le prime sette possibilità sono di ordine puramente combinatorio, l’ottava e ultima si configura in maniera anomala, perché essa è determinata dall’assenza di fatti. Wittgenstein chiama una tale configurazione “spazio vuoto”, per l’assenza di qualsiasi fatto. Ma ne ha il diritto? Dopo aver definito il “mondo” come la totalità dei fatti, ossia l’insieme degli stati di cose che si realizza in uno spazio materiale, a rigore egli non avrebbe il diritto di definire la situazione 8 come “spazio vuoto”, ma dovrebbe definirla piuttosto come “nulla”, come non essere. La differenza fra le due definizioni non è sottile e non è da poco. Uno spazio vuoto” esiste come realtà, sia pure come realtà virtuale, cioè come una pagina bianca, sulla quale si possono inscrivere dei fatti; mentre il nulla equivale a una radicale impossibilità di esistenza. Wittgenstein, giustamente, distingue fra esistenza e possibilità; tuttavia non chiarisce per quale ragione ciò che non possiede una esistenza spaziale, e quindi fisica, non merita di essere considerato un “fatto”, ma soltanto uno “stato di cose”. Da un lato, cioè, egli ammette che i possibili sono “oggetti”, sono “cose”; dall’altro rifiuta di considerare come “fatti” le cose di natura non spaziale; e, per finire, ammette che un mondo può essere tale anche in assenza di stati di cose, cioè di combinazioni di fatti, e sia pure allo stato di spazio vuoto. Ma se non si dà alcuna combinazione di fatti, secondo Wittgenstein, non si danno neppure degli oggetti, perché gli oggetti, nella sua ontologia, sussistono nel mondo solo come costituenti dei fatti. E allora che senso ha definire la situazione numero otto come uno spazio vuoto? Sarebbe più giusto definirla come un mondo che non può esistere, un modo impossibile, cioè un non-mondo, vale a dire un non-essere.  Come osserva Maurizio Ferraris (op. cit., p. 628):

 

Tra i mondi logicamente possibili non è dunque contemplato un mondo di un unico oggetto, ad esempio di un unico tavolo [gli oggetti A, B e C erano stati paragonati, a titolo esemplificativo, rispettivamente a un tavolo, a una tovaglia e ad un piatto]: il tavolo può entrare nel mondo soltanto se si combina con un altro oggetto, formando un fatto. Nel mondo, insomma, ci possono essere zero oggetti (come nel caso dello spazio vuoto) oppure due o più oggetti, ma mai un unico oggetto, perché quest’ultimo esisterebbe in assenza di fatti, il che per Wittgenstein è inconcepibile.

 

Ma il punto è proprio questo: che un unico oggetto non può definire un mondo, solamente perché per Wittgenstein ciò è inconcepibile. Ma chi lo dice che ciò è davvero inconcepibile? Abbiamo visto che per Wittgenstein è “impossibile” un mondo costituito da un unico oggetto, perché ciò presupporrebbe un mondo dove non esiste alcun fatto; però, nello stesso tempo, egli ammette che possa esistere un mondo senza fatti, cioè uno spazio vuoto. Ma uno spazio vuoto è un’astrazione, non è una cosa reale”; mentre per Wittgenstein il mondo è tale solo in presenza di fatti realizzati nel mondo materiale, cioè “reali”. Uno spazio vuoto, a ben guardare, è un’espressione verbale priva di sostanza concreta, una specie di gioco di parole: qualunque spazio, per il fatto di esistere, è “pieno”, anche se non contiene alcun oggetto; è pieno di se stesso, cioè di spazio. Lo spazio non è il vuoto e il vuoto non è affatto uno spazio, ma assenza di spazio. Questa è logica. Se esiste uno spazio, esiste qualcosa; se non c’è spazio, c’è il nulla, e il nulla non è uno spazio vuoto, ma l’impossibilità che esista alcunché. Suvvia, non giochiamo con le parole. O c’è lo spazio, o non c’è nulla. Se non c’è nulla, non possiamo dire nulla; e, per parafrasare appunto Wittgenstein, bisogna tacere quello che non si può dire. Se, invece, c’è uno spazio, allora non c’è il nulla, ma c’è qualcosa: c’è uno spazio, con o senza oggetti. E se c’è un unico oggetto, ebbene neanche in quel caso c’è il nulla: c’è invece qualcosa che non può assolutamente essere ignorato, perché riempie di sé tutto lo spazio.

Ora, il punto cruciale è proprio questo. Wittgenstein non ammette la possibilità di un mondo formato da un unico fatto, perché lo ritiene inconcepibile. Ma qui egli opera una indebita confusione fra il piano ontologico, dell’essere, e il piano gnoseologico, della conoscenza. Che una cosa sia “inconcepibile” è una questione che riguarda il conoscere, non l’essere. L’essere non si turba minimamente per la difficoltà della mente di comprenderlo; a meno di identificare, come fa Spinoza, panteisticamente, l’essere con l’esistente. In realtà, a noi sembra che il nocciolo della difficoltà risieda in un problema di ordine linguistico, più che conoscitivo, e meno ancora ontologico: e cioè nella definizione di “fatto”. Wittgenstein parte dal postulato che fatti siano solo gli stati di cose che si realizzano nella realtà materiale: ma chi lo dice? È un suo postulato, non è un postulato oggettivo, universalmente evidente. E una volta che egli ha definito il fatto in questo modo, è evidente che non arriva a concepire un mondo in cui vi sia un unico fatto, mentre arriva a concepire – così egli dice, ma abbiamo visto che non ne fornisce la prova – un mondo privo non solo di fatti, ma anche di relazioni e perfino oggetti. Ci permettiamo di ipotizzare che la vicinanza di Bertrand Russell e lo studio di David Hume, e in genere l’ambiente di Cambridge, abbiano agito sui di lui nel senso di identificare il mondo con il mondo materiale, cioè in senso radicalmente antimetafisico. Ma si può costruire una ontologia antimetafisica? Si può costruire una ontologia che prende in considerazione unicamente cose che esistono nello spazio reale, le quali determinano delle relazioni reciproche? Infatti è evidente che un unico oggetto non determina relazioni, considerato in se stesso: ma se questo oggetto fosse l’essere in quanto tale? Ecco che, in tal caso, quell’oggetto non determinerebbe relazioni evidenti tra fatti materiali, e nondimeno sarebbe la causa prima, nonché la condizione per l’esistenza di tutte le cose, di tutti gli oggetti, di tutte le relazioni, di tutti gli stati di cose, di tutti i fatti e di tutto il mondo, o di tutti i mondi. Possibile che al geniale Wittgenstein non si sia mai affacciato questo pensiero? Possibile che non lo abbia mai sfiorato la mente l’idea che, se un tale oggetto sussiste, cioè se esiste in se stesso, allora tutti gli altri oggetti e tutta intera la realtà, altro non sono che funzioni di esso, espressioni di esso, manifestazioni di esso? Questo è un pensiero abissale, come direbbe Nietzsche: certo; ma il pensiero dell’essere è un pensiero abissale. Lo schema degli otto mondi possibili di Wittgenstein non è che un’esercitazione di logica formale che ha qualcosa di scolastico, di artificioso, se paragonato all’abissale profondità del pensiero dell’essere. In realtà, Wittgenstein non prova nemmeno a pensare l’essere: si limita a stabilire che l’essere è l’essere per lui concepibile, e, per maggiore sicurezza, si premura di stabilire a priori  che i fatti sono solo quelli che si realizzano nello spazio reale. Ma posta così la questione, è evidente che non si sta più ragionando dell’essere, ma di una modello matematico che possa rappresentare la realtà visibile e razionalmente quantificabile. E allora questa non è più ontologia, appunto perché manca la metafisica. Niente metafisica, niente ontologia. L’ontologia è lo studio dell’essere in quanto essere; la metafisica è quel ramo della filosofia che si occupa della totalità del reale, di ciò che è visibile e di ciò che è invisibile. Ma come si fa a costruire una ontologia senza la metafisica? Se già Kant aveva mutilato la filosofia, negando la possibilità di conoscere la cosa in sé, Wittgenstein la mutila ulteriormente, riducendola a un processo di ordine logico e linguistico. Ma l’essere È, sia che lo riteniamo pensabile secondo le nostre categorie, sia che ci paia inconcepibile. L’essere, certo, è più grande del nostro pensiero; il che non vuol dire che pensarlo sia irrazionale, ma soltanto che, per pensarlo, bisogna avere l’umiltà di lasciarsi pensare, cioè illuminare,  da esso...