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Dov’è la vera sapienza?

di Alessia Vignali - 25/07/2024

Dov’è la vera sapienza?

Fonte: Come Don Chisciotte

Cos’è davvero la sapienza?

Urge chiederselo a più di 2.500 anni dalla nascita della filosofia, quando il pensiero occidentale che da essa scaturisce sembra aver dimostrato di non essere del tutto vincente. Ne è prova l’attuale “crisi di specie” che non solo porta devastazione, guerre, ineguaglianza, ma il pericolo per la sopravvivenza stessa dell’umanità.

A tal proposito fa discutere il provocatorio saggio “L’intuizione consapevole”, (Foschi Editore) del filosofo e giornalista Edoardo Gagliardi, volto noto del canale televisivo Byoblu. Si potrà essere o meno d’accordo con le tesi sostenute nel saggio, ma le argomentazioni in esso contenute meritano di essere conosciute, in quanto interpreti di un sentire diffuso, tutto contemporaneo.

Con sincerità, Gagliardi si mette a nudo raccontando il percorso che da liceale, fervido appassionato di filosofia, l’ha condotto alla laurea e poi al dottorato. Il giovane Gagliardi sapeva di dover trovare risposte alle tante domande che si ammassavano dentro di lui e pensava che la filosofia occidentale fosse la chiave per trovarle. “Non c’è campo – mi convincevo – che non possa essere affrontato dalla filosofia e con i suoi strumenti. Non vi è forse disciplina che abbia un così grande numero di ramificazioni e tutte erano lì di fronte a me: la storia della filosofia, la filosofia del linguaggio, la metafisica, la filosofia della mente, l’epistemologia, l’estetica e numerose altre. Sapevo benissimo che sarebbe stato impossibile toccarle tutte e approfondirle come avrei voluto, ma la mia idea era appunto sperimentare quelle che mi erano più affini”.

Man mano che procede nell’approfondimento della disciplina, l’Autore comincia ad accorgersi che non gli bastava pensare, voleva cambiare le cose: rimaneva però persuaso che il vero mutamento potesse essere quello della realtà esterna, non solo, che la vita stessa si sarebbe dovuta vivere solo all’esterno: “Non che l’interiorità fosse qualcosa di meno importante, infatti lo era, viste le numerose domande che mi ponevo e la sensibilità umanistica che mi contraddistingueva. Tuttavia, mi disabituavo lentamente a guardarmi dentro, a capire il mio mondo interiore e, soprattutto, a capire cosa la mia interiorità mi potesse comunicare. D’altronde se si è impegnati a dare ascolto all’esterno si ha anche poco tempo per ascoltarsi dentro”.

Si può davvero cambiare il mondo esterno, non avvertendo i segnali che provengono da dentro di sé? Si può portare avanti un progetto di civiltà, non avendo accesso alle istanze più umane e vere, quelle che provengono dal profondo di ognuno di noi?

La razionalità pura che la filosofia patrocinava, se portata alle estreme conseguenze che la trasformano in razionalismo, conduceva a perdersi in un dedalo di teorie intellettualistiche che tengono lontani da un interrogarsi su ciò che si ha dentro, in quel profondo di sé stessi dove giacciono sentimenti, emozioni, sogni, fantasie.

In Gagliardi si fece pian piano strada l’idea che, anziché dare risposte, la filosofia non facesse che alimentare domande. Era come abbeverare un assetato con l’acqua del mare. Dunque doveva esserci qualcosa di sbagliato o quantomeno limitante nel metodo, nella prospettiva da cui il pensiero occidentale, radicato nella filosofia, guarda alle cose. Il pensiero occidentale è la storia del trionfo della razionalità, del processo logico-causale, della consequenzialità. Esso ha però prodotto forme d’astrazione sempre più marcate, sempre più lontane dal rappresentare fedelmente l’umano. Dunque sempre più capaci, a detta dell’Autore, di allontanarlo da sé stesso. Un certo pensiero occidentale non aiuta l’uomo a sondare l’infinito mistero di sé stesso, non lo assiste nel farsene qualcosa, di questa eventuale conoscenza che forse costituirebbe la fonte della vera sapienza. La scoperta dell’Autore fu, dunque, comprendere che una parte della filosofia occidentale “non è sapienza e non può esserlo”. Al massimo essa, è come da etimologia, “amore della sapienza”. Ma non può essere sapienza.

Infatti “è la massima espressione di un pensiero meccanico, duale, separativo, e, per certi versi, profondamente materiale. Le astrazioni, quando esistono, appaiono, agli occhi rischiarati dalla consapevolezza, come puri esercizi di stile. Il pensiero filosofico non serve a elevare ma a incatenare maggiormente il vero Sé“. La filosofia gli risultò dunque una disciplina senza vita, che non era in grado di connettere alla pienezza dell’Essere. Peggio: da metodo di pensiero errato che conduce gli uomini a costruire un sistema di teorie lontane dalla verità si fa dispositivo di un mondo anch’esso fondato non sulla verità, ma su una sua parodia.

Anche grazie alla lettura del filosofo Giorgio Colli, l’Autore si convince definitivamente che la filosofia, lungi dal costituire l’inizio di un percorso storico verso la sapienza, ne costituisca il declino rispetto ai tempi che la precedettero o ai suoi primi pensatori: Eraclito, Parmenide, Empedocle. A indicare questa lettura fu addirittura Platone, che pure è una delle voci inaugurali dalla filosofia assieme ad Aristotele, divulgatore del pensiero di Socrate e autore di dialoghi che traspongano il pensiero dei “sapienti” in forma scritta. Nonostante questa sua posizione, egli afferma che nessuna persona seria affiderebbe il suo pensiero alla forma scritta. “Nessun uomo di senno oserà affidare i suoi pensieri filosofici ai discorsi e perdipiù ai discorsi immobili, com’è il caso di quelli scritti con le lettere”. Sa che la forma scritta non può sostituire il metodo di trasferimento della sapienza “bocca-orecchio” degli antichi. Tale sistema rispettava la necessità del confronto, della relazione: è solo nel guardare l’altro mentre gli si parla che si può comprendere cosa davvero egli comprenda, cosa del nostro messaggio possa prendere dentro di sé per esserne trasformato… compatibilmente con le sue possibilità del momento. Lo scrivere è un’altra modalità di trasferimento della conoscenza, della cultura e consente un uso del tutto nuovo della mente dello scrivente. Ma non serve a trasmettere la “vera sapienza”.

La sapienza che riguarda le cose importanti nella vita, quelle esistenzialmente significative che parlano all’uomo dell’uomo, cioè della sua interiorità, si costituisce dentro la relazione. Di più: in quanto “iniziato” alla sapienza degli oracoli, Platone sa che c’è un metodo diverso dalla lettura di un testo filosofico per accedere alla verità. L’oracolo di Apollo reca al suo ingresso la scritta “conosci te stesso”. La sua guida a questa conoscenza consiste nel porre agli uomini enigmi provenienti direttamente dalla divinità. La sapienza è dunque qualcosa che non può essere dato, ma solo raggiunto dal soggetto attraverso l’esperienza, che egli può con maggiore efficacia scandagliare alla luce dell’enigma.

L’”epopteia”, l’esperienza mistica che illuminava il soggetto rendendolo consapevole del fatto che egli era tutt’uno con il cosmo e che il cosmo veniva espresso nella sua persona, è propedeutica alla conquista personale della verità su di sé e sulla realtà.

Analogamente, per l’Autore nessuna verità può esserci consegnata. Nessun ragionamento può costituire un “ipse dixit” valido per tutti, come invece pretende di fare un certo sapere occidentale. Per la verità, la complessità della civiltà occidentale è tale che nessuno di noi può avere accesso immediato anche solo al funzionamento di un piccolo frammento della nostra esperienza. Il telefonino lo usiamo tutti, pochi però sanno come funziona. Dobbiamo affidarci al sapere di altri, un sapere sulle spalle dei quali saliamo, “come su spalle di giganti”. Ma, a furia di affidarci al sapere trasmesso, abbiamo perso la capacità di contattarle noi, le cose, di valutarle noi e deciderne noi in prima persona la validità. Il razionalismo denunciato da Gagliardi ha poi svalutato il nostro “sensore” naturale, il sentire. In natura i sensi ci informano degli oggetti e degli eventi del mondo e l’emozione li valuta, nell’obiettivo finale di gerarchizzarli come più o meno buoni per noi. Se si perde contatto con il sentire, sono guai. Se, poi, ci si deve affidare al “sapere dato” per muoversi nel mondo, la perdita di sovranità su sé stessi è quasi totale. Prima della nascita della filosofia, i culti misterici eleusini o orfici ponevano rimedio alla perdita di orientamento propria dell’uomo di allora: è tipico dell’uomo perdere contatto con le sue forze più nascoste, siano esse istinti o pulsioni, che innervano il sentire.

Sappiamo che accadeva e accade qualcosa di analogo all’esperienza dell’oracolo anche ai novizi giapponesi con il maestro Zen: il maestro pone all’allievo il “koan”, una domanda enigmatica e paradossale, e non gli fornisce alcun aiuto nella soluzione. Dopo parecchio tempo, l’allievo torna da lui e sorride: era così semplice la risposta, una volta trovata, da indurre al sorriso! Così sono le verità interiori. Così sono le profondità della vita: semplici ma invisibili, se non dopo lungo cercare e un lungo patire. Tra parentesi, accettare di “patire” è essenziale per evolvere, per assistere a trasformazioni radicali. “To suffer pain, instead of enduring it”, era un monito del grande psicoanalista Wilfred Bion. Soffrire il dolore, non semplicemente sopportarlo. Perché nella sopportazione c’è la negazione della sofferenza… mentre essa va esperita, compresa e superata grazie a strumenti che non provengano dal diniego.

Mi viene in mente anche, a proposito di “sentire” e di quel “pensare pieno” che scaturisce da esso, la famosa citazione del filosofo Karl Jaspers, autore di una psicopatologia psichiatrica che considerava la sofferenza psichica non d’origine organica, ma dotata di un suo significato da comprendere: “E’ possibile spiegare (erklaeren) qualcosa senza comprenderlo (verstehen)”. Un filosofo che in questo caso dice il vero, denunciando la parcellizzazione dell’uomo e il riduzionismo di una scienza che vuol risolvere la mente dell’uomo mediante le formule semplicistiche, mutuate dalle scienze biologiche.

Il mio commento e la mia citazione scaturiscono dall’esperienza di psicoanalista: seguendo l’indicazione di Gagliardi, nella nostra disciplina abbiamo scoperto che non c’è accesso alla verità delle cose e di sé stessi se non attraverso il sentire, quel “pathos” talora fallace che è dolore, sì, ma è anche passione, imprescindibile di ogni percorso di conoscenza. La ricerca è eminentemente personale, unica come lo è ciascuno di noi. Spesso è volta a emancipare il soggetto dalle catene di un “fato” malvagio, quello della “coazione a ripetere” legata a un copione non scritto, di cui non è a conoscenza, ma che è comunque tenuto a recitare. Una volta libero dal determinismo di un passato traumatico che lo incatena, può poi vivere il “destino” di sviluppo e crescita naturali del suo Sé, nella libertà di pensare e agire creativamente. C’è un “telos” che lo attende, un’imprescindibile finalità che lo guida verso il suo massimo sviluppo, la massima espansione del suo potenziale messaggio per il mondo.

Nel suo saggio Gagliardi ci invita a riappropriarci del sapere dimenticato di un “sentire la vita” dal profondo. Non indica al lettore un metodo preciso, anzi, ne lascia la domanda di conoscenza insatura, come abbiamo visto fare agli antichi maestri. Segnala una via: ripercorrere a ritroso la storia della filosofia, risalire ai tempi antecedenti la sua nascita ufficiale. Tornare a Eraclito, a Parmenide, a Empedocle… e ancora prima, ai culti misterici. Recuperare un modo di conoscere diverso, ma infinitamente più ricco di quello accessibile alla sola ragione. L’”intuizione consapevole” è attingere, nell’atemporalità dell’attimo assoluto sganciato dalle leggi di causalità, alle verità eterne su noi stessi che ancora ci guidano.

Da psicoanalista, non posso che dirmi d’accordo circa il valore per la trasformazione psichica individuale dell’impiego di un “raggio d’intensa oscurità” per portare alla luce le verità nascoste sul nostro Essere. La portata di quest’operazione non è soltanto ermeneutica, ma “ontologica”. Si tratta di costruire attivamente “stoffa nuova” dell’Essere, oltre che di scoprire ciò che già si è. Con tutta la meraviglia e la gioia che questo, nonostante le difficoltà, comporta.

Il mio monito di studiosa della psiche, certamente non antitetico a quanto asserisce l’Autore, è però ricordarsi non “buttare il bambino (del logos occidentale) con la sua acqua sporca. Sposare questo sapere più antico riproposto da Gagliardi con il meglio del nostro.

In ambito psicologico abbiamo saperi monumentali nati in occidente d’indubbio valore: come la psicoanalisi, in continua evoluzione -tanto da risultare quasi irriconoscibile rispetto ai tempi della sua nascita-, e la fenomenologia. A rappresentare la deriva dell’impostazione denunciata da Gagliardi abbiamo invece altri filoni di ricerca che mirano a semplificare, immiserire, “ridurre all’ordine” la complessità della mente umana. Il risultato è quello di “adattare” l’uomo facendolo “funzionare”… in una società ingiusta che lo rende infelice.

Se il pensiero occidentale, scaturito dalla filosofia, è verbale, individualistico, causale, diacronico, metonimico e quello antico e orientale è preverbale, collettivo, correlativo, sincronico, metaforico, solo unendo le due modalità, o meglio mettendo in comunicazione le due aree della mente, si può ottenere qualcosa di dirompente sul piano evolutivo.

Il sapere devoto all’Essere suggerito da Gagliardi potrebbe tranquillamente sposare la capacità di scelta, discriminazione, gerarchizzazione, causalità e traduzione in linguaggio tipica della mente occidentale. Il sapere antico ci consente di prendere contatto con le emozioni rimosse, denegate, inaudite, tralasciate del mondo interno. La trasformazione è consentita dalla presa di contatto con questa ricchezza interiore. Tuttavia, ancora più evolutivo è il mandare a coscienza, il “mettere in parola” ciò che si è già visto grazie al questa apertura all’ignoto.

E’ quanto intende ottenere la “terapia della parola” di matrice psicodinamica.

Per quanto riguarda la storia della filosofia, non ho le competenze per poter sposare o meno il “j’accuse” dell’Autore a certa filosofia. Se è vero, come afferma Gagliardi, che la filosofia ha tra le sue responsabilità quella di aver indotto nell’uomo occidentale un vuoto razionalismo, essa annovera però tra le sue fila personalità che hanno remato in direzione “ostinata e contraria” a tutto questo, tra cui, per esempio, quel Nietzsche amato dallo stesso Gagliardi. Che, assieme a Schopenhauer, ispirò Sigmund Freud nell’inaugurare il filone di ricerca sull’interiorità denominato psicoanalisi.