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Due velocità per una stessa schiavitù

di Michele Rallo - 17/02/2017

Fonte: Michele Rallo


Povera Angelona... Deve essere proprio in difficoltà se adesso ricorre perfino ai giochetti di parole per fronteggiare le prossime scadenze elettorali. Prendete la sua ultima uscita – per esempio – quella di una “Europa a due velocità”.
Già, perché l’Europa a due velocità di cui, da tempo, discutono gli studiosi di cose europee è tutta un’altra cosa. Le due velocità o, meglio, le più velocità di tante analisi politiche non erano altro che una presa d’atto delle profonde differenze di carattere soprattutto economico fra i vari membri dell’Unione; differenze che avrebbero dovuto condurre a due (o più) distinte politiche di sviluppo. Ciò che propone la furbastra, invece, è l’adozione di due diversi gradi di integrazione. Stessa politica economico-monetaria (insostenibile per i paesi meno prosperi), ma due diverse intensità di adesione alle strutture burocratiche e legislative della UE: si va dalla disponibilità a prendersi battaglioni di profughi, fino alle minuzie, come quella di una tassa aggiuntiva sui carburanti (anche quella per finanziare la “accoglienza”).
È il vecchio pallino dei nipotini (degeneri) di Federico il Grande e del cancelliere Bismarck: un nucleo imperiale centrale formato dalla Grande Germania e da alcuni staterelli vassalli, e a fargli corona una piccola corte di popoli soggiogati, le cui economie siano subordinate ai superiori interessi del paese-guida. Concetto in verità piuttosto retrogrado, ottocentesco, che Adolf Hitler tradusse con la definizione di Herrenvolk (Popolo di Signori) e che i contemporanei della Cancelliera hanno mimetizzato dietro la definizione più rassicurante di Kerneuropa (Nocciolo dell’Europa).
Dunque – a parte gli slogan da campagna elettorale – non una Europa a due velocità, ma una Europa ad una sola velocità, quella tedesca. Perché, allora, questa bislacca sparata dell’attempata donzella? Semplice: perché a lei è stato passato lo scettro della cordata mondialista della politica internazionale, quello scettro che – fino alla recente vittoria di Trump negli Stati Uniti – era stato sempre saldamente nelle mani del Presidente americano. Adesso che l’uomo di Washington è invece passato a guidare il fronte avverso, quello degli Stati nazionali che respingono globalizzazione e multiculturalismo, i poteri forti della finanza scommettono tutto sulla sopravvivenza dell’Unione Europea, puntando le loro carte sui padroni dell’Europa, cioè sui tedeschi.
La Cancelliera ha dunque ereditato la patata bollente (battutacce a parte) di una Unione che sembra essere entrata nella fase terminale della sua agonia. Agonia che ancora non riguarda i tedeschi (è solo questione di tempo) ma che investe in pieno i popoli dell’Europa meridionale, non più in grado di sopportare una politica – voluta e programmata – di totale dipendenza dal debito pubblico; una politica che sta definitivamente consegnando gli Stati nazionali agli aguzzini della speculazione finanziaria apolide.
Se non che, qualcosa si è inceppato nel meccanismo di distruzione dei popoli, che hanno cominciato a reagire con l’unica arma che hanno a disposizione, quella del voto: la Brexit, che probabilmente ha consentito all’Inghilterra di sciogliere il cappio destinato a strangolarla; poi la vittoria di Trump in quell’America ricattata da un debito pubblico che, durante la gestione Obama, ha superato i 19.000 miliardi di dollari (il 105% del suo PIL); e prossimamente, con ogni probabilità, l’elezione di Marine Le Pen in Francia, malgrado i sondaggisti parigini (colleghi degli spernacchiati supporter della Clinton) si affannino a prevedere che soccomberà al secondo turno.
Ma, a parte i risultati elettorali, c’è anche qualche altro piccolo particolare che minaccia di impedire che i popoli vengano portati al macello in tutta tranquillità, senza fastidiosi schiamazzi. E, ancòra una volta, il granellino di polvere che potrebbe intrufolarsi fra gli ingranaggi della macchina europea giunge dalla Grecia.
Il popolo ellenico si era già ribellato una prima volta al massacro sociale “che l’Europa ci chiede”. Ricordate il referendum del 2015, promosso da Tsipras e stravinto dagli anti-europeisti con un rapporto di 61 a 39? Anche lì – sia detto per inciso – i sondaggisti avevano previsto la sconfitta dei populisti, ed anche lì erano stati poi clamorosamente smentiti dai risultati.
Poi Tsipras aveva misteriosamente cambiato opinione, e si era trasformato nel più docile strumento della subordinazione ai diktat dell’Europa. In nome della prudenza, naturalmente, della ragionevolezza, del no al salto nel buio che – ne era certo il pentito – avrebbe rappresentato l’uscita dall’€uro e dalla UE. Il sottoscritto, al tempo, si prese il lusso di una facile previsione: «pagare gli interessi agli strozzini non estingue il debito, serve soltanto a rimandare il momento in cui al debitore saranno spezzate le gambe» (“Grecia 1, Figli di Troika 0” su Social del 10 luglio 2015).
Ebbene, sembra che il momento in cui alla Grecia saranno spezzate le gambe sia quasi arrivato. La montagna del debito pubblico è ancòra tutta lì, e due anni di “ragionevolezza” sono serviti soltanto a rastrellare gli ultimi spiccioli dalle tasche dei greci per pagare qualche rata di interessi alla finanza usuraia. Dopo di che, a breve, Atene sarà probabilmente costretta ad abbandonare l’€uro: alcuni  esperti ipotizzano che ciò possa avvenire già fra una manciata di mesi, all’inizio dell’estate. Dopo la Brexit, dunque, ci sarebbe la Grexit; ammesso (e non concesso) che un paio di mesi prima le elezioni francesi non abbiano già posto le premesse per la Frexit.
Ecco perché l’arcigna signora cambia improvvisamente registro: perché spera che diversi livelli di “integrazione” (cioè di sottomissione) possano servire a conservare l’UE ancòra per qualche tempo. La Grecia, così, potrebbe abbandonare l’€uro senza necessariamente uscire dall’Unione Europea. E questo – anche se nessuno ancòra lo dice – potrebbe essere l’itinerario ipotizzato anche per l’Italia, alla cui economia la disastrosa gestione renziana ha dato quasi un colpo di grazia.
Naturalmente, i cavalier-serventi italiani si sono prontamente allineati ai voleri della Kanzlerin. Gentiloni, folgorato dalla proposta merkelliana mentre si trovava in visita a Londra, non ha aspettato nemmeno di rientrare a Roma, ed ha sùbito esternato la sua compiacente adesione: «penso sia molto ragionevole che nell'ambito dell’UE ci possano essere diversi livelli di integrazione».
Immediatamente dopo – per la serie “A volte ritornano” – si è rifatto vivo il grande alienatore dell’industria pubblica italiana, Romano Prodi: «Dico solo una cosa: era ora!».
Nessuno, naturalmente, che si spinga a dire una cosa assai semplice, evidente, banale. E cioè che l’unica Europa a due velocità che si possa concepire, è una Europa divisa in due parti: una parte i cui interessi coincidano con quelli della Germania, ed una parte (o più parti) i cui interessi siano opposti a quelli della Germania. La qualcosa, naturalmente, implicherebbe la fine dell’€uro, dell’Unione Europea, e dell’ipoteca mondialista sui destini dei popoli europei.