È incredibile come quanto più siamo asserviti, tanto più presumiamo di essere liberi
di Massimo Cacciari - 19/09/2021
Fonte: La Stampa
Da Platone all'”eretico” Dante, il percorso dell’uomo per affrancarsi da tutte le schiavitù
«Lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la sua bontate/ più conformato, e quel ch’ è più apprezza,/fu de la volontà la libertate» ( Paradiso, V,16-22). Dunque, nasciamo liberi?
Dunque, immediate da Dio siamo dotati, noi creature intelligenti,«tutte e sole», di «libero voler», capace di vincere la malizia di cui il mondo è «gravido e coverto» (Purgatorio, XVI,60)? Tra le «croci» che il pensiero è destinato a portare, questa, il problema della libertà, è forse la più tormentosa. Tutto ciò che esiste in qualche modo vuole. Non volere è impossibile. Ma noi soltanto tra tutti gli enti che riusciamo a conoscere saremmo capaci di orientare ad libitum la nostra volontà? E questo per la costituzione stessa della nostra natura?
Tutto ciò che vediamo in natura è determinato e condizionato, obbedisce a leggi che non si è certo dato e nella natura noi soli saremmo quegli enti straordinari che possono ciò che vogliono? Quale davvero stra-ordinaria presunzione, che l’esperienza quotidiana falsifica in tutti i modi! Non nasciamo liberi! Forse possiamo soltanto affermare che nella nostra natura è presente la possibilità di diventarlo.
Ed è appunto questo che l’esperienza epicamente e profeticamente rappresentata nella Divina Commedia vuole insegnare. Possiamo «trarci fuori» da servitù a libertà. Ma incatenati nasciamo, come quegli abitanti della caverna del mito di Platone, che ben protetti nella loro dimora passano la vita a vedere ombre, e magari goderne, evitando di fare i conti con la dura realtà. Libertà significa liberarsi: un itinerario drammatico, che comporta venire ai ferri corti con l’inferno della vita, risalire l’aspro monte della confessione delle proprie colpe, del pentimento sui propri errori, della radicale conversione al Bene – così nel Poeta per antonomasia.
Ma poi il dubbio resiste: è per le mie forze che questo itinerario potrebbe compiersi? E’ la mia libertà a determinarne i passi? O lo affermo soltanto perché ignoro quali siano le cause per cui procedo? Dante non avrebbe potuto liberarsi se altri, e altri lassù, non l’avessero, per amore assolutamente gratuito, voluto. Al più, possiamo dire che Dante ne ha assecondato l’amore. È incredibile come quanto più siamo asserviti a potenze e leggi di cui ignoriamo ragioni e fini, tanto più presumiamo di essere liberi.
Essere liberi è una mèta assolutamente problematica. Dimostrare di esserlo è impossibile. Soltanto qualche segno possiamo darne. E di questi segni, potenti, son fatte le opere come la Commedia. Saper resistere solitari, se la tua ragione ritiene che il mondo sia «diserto/ d’ogne vertute». Solitario, non ritirato nella Torre. Solitario in lotta con la «bestia» che impedisce la via alla libertà. Esser pronti a dare la vita per cercare di percorrerla – «libertà va cercando», infatti: chi potrebbe presumere di affermarsi perfettamente libero?
Significherebbe essere del tutto incondizionati. La libertà possiamo soltanto cercarla, quotidianamente, in lotta contro la «maledetta lupa», «che mai non empie la bramosa voglia,/ e dopo il pasto ha più fame che pria» (Inferno, I,97-99). È la bestia del volere per sé sempre di più, dell’insaziabile avarizia, che si «ammoglia» a invidia, a usura, a frode. Ma è anzitutto la bestia della nostra naturale servitù, del nostro istinto ad asservirci al possesso di beni finiti e a esigere che essi ci siano assicurati. Per Dante la libertà ha un solo, vero segno: capacità di donare e perdonare. Ciò che significa anche liberare. Non si è liberi se non si cerca di liberare chi è costretto nel bisogno, nella pena. Di più, non puoi dirti libero fino a quando un tuo simile è servo.
Essere liberi vorrebbe, allora, dire, cercare questo Impossibile? In qualche modo penso di sì. E di nuovo è così in Dante. Poiché tende, mente e corpo, all’Impossibile di «ficcar lo sguardo» negli arcana Dei, egli può vedere con disincanto e realismo questa «aiuola che ci fa tanto feroci», inveire contro i lupi che la dominano, invocare le forze che li possano eliminare. La nostra triste, costante consacrazione della finitezza è consacrazione del nostro dipendere da beni finiti, mète a portata di mano, da tutto ciò che abbiamo o crediamo di avere «a disposizione».
Nessun disprezzo per quei «possibili» che siamo costretti a perseguire per continuare a esistere, ma forse è vero che non di solo pane vive l’uomo, e che anche il necessario, quotidiano pane diventa difficile assicurare per tutti, quando ciascuno ha di mira esclusivamente la propria securitas, e di altro non vuole sentir parlare che di garanzie per sé e per ciò che possiede.
Il solitario Dante incalza il suo tempo, eretico contro tanti suoi dogmi, tante sue potenze, tanto cattivo senso comune. Nessun fatto ha per lui ragione in quanto fatto. Nessuna Giustizia abita il campo del vincitore perché vincitore. In questo soltanto può per lui mostrarsi un’immagine di libertà e forse di indistruttibilità della nostra anima.