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È Pasqua: Dio stramaledica l’America

di Alessio Mannino - 19/04/2025

È Pasqua: Dio stramaledica l’America

Fonte: La Fionda

Trump, Trump, Trump. I dazi americani, il debito americano, la strategia americana. Il declino dell’impero Usa, la de-dollarizzazione del mondo, le Big Three finanziarie, il woke, il Maga, le Big Tech, il tecno-ottimismo. Politicamente e culturalmente, siamo ancora e sempre inchiodati lì: sudditi degli Stati Uniti. Non se ne può più. Ecco, quando l’intossicazione americanista ci prende alla gola riascoltiamo Giorgio Gaber. “Non c’è popolo più stupido degli americani”, diceva. Aveva ragione. Di quali doni all’umanità possiamo ringraziare gli yankee? Una manciata: la filosofia vitalista di Ralph Waldo Emerson, la lampadina elettrica, il rock’n roll, Jack Nicholson e un paio di immortali serie televisive. Già sull’invenzione dei fratelli Wright, l’aeroplano, ci viene qualche dubbio. Ed è solo per carità pasquale che tralasciamo la lunga lista di orrori con cui ci hanno rovinato la vita, dalla bomba atomica all’idrovora del consumismo. È vero: nelle accademie d’oltreoceano non mancano i cervelli pensanti, non di rado femminili. Basti citare, per fare giusto due nomi, Shoshana Zuboff, arcicritica dello strapotere tecnologico (“Il capitalismo della sorveglianza”), o l’anti-postmoderna Camille Paglia (“Sexual Personae”). Ma l’America, intesa come America interiore, resta quella cosa ignobile che abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene: l’idea, paranoica e al tempo stesso infantile, di incarnare il Bene e di identificarlo nella quantità di denaro dal quale produrre altro denaro, e così all’infinito. Stelle e strisce: la bandiera del gran porco liberale.
“Ed eccoci qui anche noi, liberi, liberali, liberisti, siamo per la rivoluzione liberale, ma con la solidarietà, siamo liberistici e per il liberalismo, siamo liberaloidi, libertari, libertini, libertinotti. Liberi tutti! No, a me l’America non mi fa per niente bene. Troppa libertà, non c’è niente che appiattisca l’individuo come quella libertà lì. Nemmeno una malattia ti mangia così bene dal di dentro. Come sono geniali gli americani, te la mettono lì, la libertà è alla portata di tutti, come la chitarra. Ognuno suona come vuole, e tutti suonano come vuole, e tutti suonano come vuole la libertà”. Così cantava Giorgio Gaber nel brano L’America, tratta dall’album intitolato non a caso “Libertà obbligatoria” (1976). Gaber, un uomo troppo libero per essere rinchiuso in qualsivoglia etichetta. Dunque, necessariamente anti-liberale: “L’America non mi fa per niente bene, troppa libertà. Non c’è niente che appiattisca l’individuo come quella libertà lì, nemmeno una malattia ti mangia così bene dal di dentro”. Et voilà la libertà cara ai liberali: la libertà negativa, la libertà-da (che non sa essere libertà-di). La libertà come assenza – di fini, di valori, di ideali. Libertà vuota. Libertà-involucro. Libertà-alibi. Libertà vittimistica, mentalmente da schiavi. Libertà più facile in quanto intrinsecamente individualistica, e cioè fondata sulle passioni più basse: l’avidità, la pigrizia, il senso narcisistico di onnipotenza. Una libertà egoriferita, anti-sociale, spoliticizzante. Problema: come si fa a combattere il vuoto, accusare chi fa la vittima, sconfiggere l’astrattezza dell’“individuo”, contrastare la scorciatoia dell’egoismo? Questo è il colpo di genio del liberalismo (o, se si vuole, del capitalismo): fare leva sugli istinti più degradanti della psiche umana. E come ci è riuscito? Grazie all’americanismo cheha fornito l’immaginario, offrendo la fantastica commistione fra una ripugnante ideologia da “lieto fine” hollywoodiano e la cinica apologia di quell’associazione a delinquere nota come Wall Street. Il virus liberale ha infettato il senso comune, guastando l’inconscio collettivo attraverso la way of life atlantica tutta cibo zuccherato, analgesici e ipocrisia puritana. Tutta e interamente, ossessivamente, arrogantemente, e alla fin fine, irrazionalmente incentrata sulla monetizzazione del grasso e violento benessere. “Spendere è molto più americano di pensare” (Andy Warhol).
“Libertà è partecipazione”, recita invece il famoso verso gaberiano. Il Signor G intendeva dire che libertà significa anzitutto responsabilità verso gli altri, verso la collettività. Vuol dire agire non per soddisfare esclusivamente le proprie, per altro legittime, aspirazioni individuali, ma per incidere nella realtà come spazio comune. Essere liberi implica l’auto-contenimento, la necessità del limite, l’inevitabile resa dei conti con la società. Un uomo non può essere veramente vitale se non si sente parte di qualcosa: esattamente ciò contro cui ha disseminato le sue spore velenose la mistica dei diritti senza doveri che ci ha portato dove siamo. Vale a dire a quel pessimismo della volontà, a quella rassegnazione e stagnazione, a quell’umiliante sottofondo di impotenza che rende difficile, a noi come popolo – o almeno a quella parte di popolo un minimo rinsavita – tornare a frequentare il futuro con gioia. “Il liberalismo”, ha scritto la giornalista americana Christine Emba “è solitudine” (“Liberalism is loneliness”, The Washington Post, 6 aprile 2018). Di sicuro, è la dottrina della solitudine. Demolito il valore della comunità, “alla fine ci siamo ritrovati tutti terribilmente soli”. I liberali di qualunque foggia, scambiando l’autonomia del singolo per la tabula rasa del senso di comunità, sono nichilisti, seguaci del Nulla. Ora: si può essere liberali e onesti, ma in tal caso non si è intelligenti. Si può essere liberali e intelligenti, ma in tal caso non si è onesti. Si può essere intelligenti e onesti, ma in questo raro caso non si è liberali. Il liberale antropologico, questo ex uomo che suda mentre contabilizza e artificializza tutto, prima che un regredito politico è un deficiente umanamente tarato.
No, amici, non è con uno ma con due esseri umani che cominciano onestà, fiducia e la stessa vita. Guai a chi è solo come sole, isolate e con la sindrome dell’accerchiamento (“fuori dalla mia proprietà!”) erano le famigliole con fucile che rubavano la terra e sterminavano le tribù native d’America. E quindi preghiamo che Dio, che se ne sta nascosto da qualche parte, stramaledica l’America.