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Elémire Zolla o gli incontri da mancare

di Andrea Sciffo - 29/07/2021

Elémire Zolla o gli incontri da mancare

Fonte: Andrea Sciffo

Quando, nel settembre del 1993, ero per ultimare la tesi di laurea in Educazione degli Adulti (a cui il relatore Duccio Demetrio aveva assegnato il titolo “Alchimia e cambiamento in età adulta: pedagogie di trasformazione”), scrissi una lettera a colui che sembrava essere l’unico intellettuale in una città di provincia: Mario Marcolla. Era un operaio tessile, noto per  essersi affermato come filosofo autodidatta giungendo a firmare interventi di teologia anche su testate nazionali ed estere; mi rispose. Per telefono ci demmo appuntamento in un bar dove parlò a lungo di Rodolfo Quadrelli e di Augusto Del Noce e di Russell Kirk, dei quali era stato amico. Un mese dopo, invitato a casa dei miei a prendere un caffè, arrivò portando un sacchetto di carta contenente alcuni libri: destinati a me. D’accordo, erano in prestito, perché rari, ma lo erano alla maniera di un passaggio del testimone. Tra di essi, ricordo Noventa, Voegelin, Samek Lodovici, e il grosso volume rusconiano di Florenskij, con la copertina cartonata di color ocra, che emanò subito un sentore di tabacco dalle pagine intrise delle centinaia di sigarette che dovevano averne accompagnato la lettura; in apertura del testo era un’introduzione firmata da Elémire Zolla.
“Per ora, è meglio non incontrare Zolla” mi disse, in seguito. Nel frattempo, però, Marcolla raccontò diverse volte di come Alfredo Cattabiani fosse passato a casa da lui, a fine 1969, prima di dare inizio all’avventura editoriale della collana di Rusconi Editore, quasi per un’ultima riconferma; e di come in quell’occasione gli avesse mostrato in anteprima le corpose bozze di stampa de Il Signore degli Anelli con premessa una densa prefazione: di Elémire Zolla.
Tempo dopo, mentre si tornava in treno dentro il paesaggio post-industriale delle periferie che congiungono o separano Sesto San Giovanni da Monza, Marcolla mi disse con paterna confidenza: “Sai che Zolla era passato di qui con Cattabiani, e guardando dal finestrino gli aveva confidato: adesso capisco perché Marcolla scrive così…”.
Questi sono i miei tre (due, in realtà) gradi di separazione dall’incontro mancato, possibile ma mai avvenuto, con Elémire Zolla di persona. L’influsso dei suoi scritti sulla mia ricerca è però divenuto via via tanto vivido da impormi di fermare qui, sulla carta, con questa aneddotica divagazione, la ricorrenza dei trent’anni esatti da che iniziai a percepire l’influsso dei due libri zolliani nel mio caso decisivi. Il primo occhieggiava verso me studente imberbe, dai banchi della libreria universitaria alla Statale di Milano sottoforma di una copia intonsa de Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia (Marsilio Editori, 1991): acquistandola con un po’ di senso di colpa (ma delicatamente incitato da un’amica lì presente, dal nome emblematico), diedi allora inizio al procedimento che non può mai dirsi terminato. Il secondo era il massiccio tomo de I mistici (Garzanti, 1963): stava là, immobile sullo scaffale, rilegato dentro il cofanetto rigido tutto istoriato di incisioni alchemiche tardo-barocche, nella libreria dello studio dell’allora arciprete della Basilica monzese (forse un dono, di quando Zolla aveva tra i cattolici anche dei fautori, non solo dei detrattori); e un giorno trovai il coraggio di chiederlo… in regalo.
Col titolo Dal tamburo mangiai, dal cembalo bevvi… (Marsilio Editori, 2021; pp.142 €14) rivedono ora le stampe le ottantasette pagine della sopracitata introduzione: oltre mezzo secolo dopo, possono costituire un capitolo a parte della cultura italiana possibile, e pensatori come Emanuele Trevi o giornalisti come Guido Vitiello non nascondono le proprie ascendenze zolliane, quando serve. Sarebbe vano domandarsi quali possano essere oggi i potenziali lettori di questo saggio-trattato che si occupa dello “stato mistico e altre questioni di antropologia spirituale”: il gesto dell’editore veneziano rappresenta l’esatto equivalente di chi affida ai flutti del maremagno della carta stampata la propria boutille-à-la-mer, conscio della necessità di un calibrato abbandono.
 
Chi conosca le pagine di Zolla sa che non accettano di essere riassunte né citate; però consiglio almeno di andare alla pagina 75 dove campeggia una affermazione quantomeno inattuale, e che offre refrigerio: “oltre la conoscenza discorsiva” si legge, “invito a non pietrificarsi nelle determinazioni del discorso come se esaurissero la realtà”, per invece “porsi dalla parte del mistero senza il quale l’intelletto non avrebbe vita, che è la sua fonte”. Lo scientismo dominante nella mentalità diffusa attuale vacillerebbe.
Il libro è una raccolta tripartita: dopo l’articolata sezione sulla condizione mistica come “norma dell’uomo” (sviluppata secondo una struttura riconducibile alla composizione di una sinfonia, ma senza leitmotiv), segue un piccolo ventre di riflessioni su “esoterismo e fede” e il finale con le conclusioni che si diffondono su alchimia, meditazione, zodiaco. Sullo sfondo di un inconsapevole ateismo superstizioso come quello che caratterizza la cultura dell’Italia unita, quest’opera risalta in quanto si pone come il primo passo (che è quello che conta, benché noi affermiamo ciò con la comodità di chi giudica a posteriori), il primo passo della scelta obbligata per un intellettuale laico, impersuadibile dalle mezze verità e forzato quindi dalle contingenze a optare tra agnosticismo e gnosticismo: Zolla si dette a quest’ultima.
 
Inattualità assai istruttiva. Recentemente, del resto, parrebbe verificarsi una specie di reviviscenza, intorno agli scritti zolliani.
All’inizio del 2020, Lorenzo Morelli ha presentato, in una conversazione andata in onda su Radio Radicale, il proprio corposo lavoro di ricerca, pubblicato col titolo di Elémire Zolla. Tradizione e critica sociale (historica edizioni, 2019; pp. 512 €22): in quei fitti capitoli, la parabola intellettuale zolliana viene ripartita in tre stagioni che trascorrono dall’iniziale impegno sociologico (e psicosociale) contro il conformismo sino agli ultimi anni dell’approdo alle religioni orientali. Ciascuna sezione viene approfondita in modo da fornire al lettore contemporaneo un tessuto degli avvenimenti della “repubblica delle lettere” tra gli anni Cinquanta e il Duemila e, infine, viene offerta quasi come un’allegoria per chi volesse leggere metaforicamente, per specchio o in enigma, la cronaca del presente attuale o contemporaneo; lo studio di Morelli offre quasi un goniometro, adatto a ricomprendere la storia delle mentalità italiane nel segmento temporale che va dalla fine del miracolo economico all’anno Duemila.
Reviviscenze, si diceva poco sopra. E infatti segnalo come, sul numero del 2.7.’21 di SETTE.CORRIERE.IT, dall’archivio delle firme storiche sia stato ripescato un articolo di Zolla su kung-fu, karaté e aikidô. Scelta ben poco coraggiosa ma, perlomeno, utile. Che siano le avvisaglie di un imminente arrivo anche per lui di quel momento di “leggibilità” (come si augura da qualche anno Giorgio Agamben a proposito di Ivan Illich, l’incommensurabile coetaneo nato e morto negli stessi medesimi anni di Zolla)?
Certo, per riscoprire l’opus zolliano le resistenze da superare sarebbero non indifferenti se, come Silvia Ronchey ha recentemente ricordato, consideriamo che Zolla “nel 1967 era stato addirittura definito una macchia nel nostro panorama di idee e scritture sulla rivista LETTERATURA ITALIANA, in un articolo in cui veniva contrapposto a Umberto Eco” (il quale in una intervista rivelò di tenere i libri zolliani in una apposita “sezione dei cretini” della propria biblioteca personale).
Tutti sanno, inoltre, del caustico epigramma di Flaiano: «Sia bene inteso / che a Elémire Zolla / preferisco la folla». Purtroppo, sono state parole scagliate con un effetto boomerang sull’intelligenza italica dell’ultimo mezzo secolo: come ad ammonire che “quello dev’essere un incontro da mancare”. E io e tanti altri della mia generazione siamo dovuti diventare adulti, professionisti, cittadini all’interno di questa cappa di mediocrità asfissiante: ecco perché non una revisione storica bensì ucronica ci vuole, per sciogliere e coagulare di nuovo.
Un bandolo della matassa si offre a venir carpito, da minuscoli frammenti dal carteggio che, negli anni in cui scriveva dall’“Università degli studi di Roma–Istituto di letteratura inglese e americana”, Zolla ebbe con Rodolfo Quadrelli: per esempio, nella lettera del febbraio 1965, Zolla domandava
“ha letto la prefazione a I Mistici (ed. Garzanti)? Storia del fantasticare (ed. Bompiani)? Senza queste due cose non può saper nulla di me”.
E, dopo che tra i due intellettuali non coetanei si fu instaurata una consuetudine siglata dal volersi dare del tu, Zolla lasciò cadere tra le righe di un’altra lettera (datata 12.11.1966) una pericope che permette ancor oggi di distinguere tra la vera e fasulla “distanza fra esoterica e mistica, che sono semplicemente il riflesso rispettivamente sulla mente raziocinante e sul cuore affettivo della stessa conoscenza del trascendente: l’una senza l’altra è monca”. Pietra di paragone sempre valida, sbozzata agli esordi dell’età del New Age.
Nell’archivio quadrelliano è presente anche l’estratto di un’articolata analisi condotta in quel contesto da Zolla contro le truffe dell’arte contemporanea e del suo supporto: il concetto di “avanguardia”. Nel fascicoletto intitolato IL SURREALISMO E LA LIQUIDAZIONE DELLA SIMBOLOGIA (edito dall’Archivio di Filosofia dell’Istituto di Studi Filosofici in Roma, diretto da Enrico Castelli, anno 1965 [pp. 19-42]) alla nota a piè di pagina n°8, si legge: “I dannati sono coloro che hanno smarrito il ben dell’intelletto, ma per tutto l’inferno continuano a ragionare benissimo”. E Quadrelli, sotto, a matita, chiosa: Tu non sapevi ch’io loico fossi… che è, com’è noto, citazione a memoria sul calco del v.123 del Canto XXVII dell’Inferno, là dove la frase è la battuta con la quale un diavolo sottrae a san Francesco l’anima di Guido da Montefeltro, recandola con sé alla dannazione, per mezzo di un sillogismo teologico.
La corrispondenza tra Zolla e Quadrelli cessò nel 1968, proprio nell’anno in cui quest’ultimo si poneva in maniera estensiva a recensire i libri e l’intenzione testuale zolliana, fruttando ai lettori quei due articoli dei quali questa nota è una divagante glossa. Nell’autunno del Sessantotto si tenne il convegno romano “Valori permanenti nel divenire storico”, l’appuntamento che diede in concreto la maggiore rassegna di esponenti viventi del pensiero tradizionale mai organizzata (in modo manifesto) sul suolo nazionale: da Marius Schneider a Giorgio de Santillana, da Pareyson a Sciacca ad Hans Sedlmayr a Cotta a Del Noce a Seyyed Hossein Nasr, J.E.Brown e Jean Servier, a C. Norberg-Schult sino a Carlo Cassola e Diego Fabbri, e altri; anche a questo proposito, avrei da sciorinare un aneddoto relativo a Zolla e Montale (e Thomas Molnar, seduti a tavola al ristorante) che Marcolla mi raccontava ricorrentemente in certa occasione ma che non è opportuno riferire in pubblico. Da lì, da quel crogiolo di intrecci, scaturì tra l’altro la fondazione della famigerata rivista “Conoscenza religiosa”, ma il discorso è divergente rispetto a quanto Quadrelli intese formalizzare nei due brani su metafisica e spirituale che dunque qui offriamo alla rilettura come capisaldi di giudizio, anche preventivo, di un’intera avventura culturale italiana.
Per tornare a considerazioni più essenziali in questa sede, è infine necessario lasciare implicita la risposta al quesito “come rileggere Zolla?”: può bastare a tutta prima l’incontro dell’occhio del lettore con tale prosa, contatto benefico per le facoltà cognitive, toccasana (cfr. “bevvi… mangiai…”) che risolve nell’eccellenza la vecchia questione di contenuto e forma, di significato e significante, di connotativo e denotativo: per mezzo di stilemi ottimi e con platinate venature magalottiane, forse retaggio dei poliglotti. È curioso che quasi la stessa cosa si possa dire anche della prosa quadrelliana.
Tradizione come “civiltà del commento”, dunque. Ma non è detto tutto. Da ultimo, bisogna sapere che fu probabilmente in questo frangente che a Quadrelli fu ispirata in tre frasi quella che è tuttora la suprema definizione di tradizione, un teorema dagli accenti poetici che sarebbe apparso ne Il linguaggio della poesia (Vallecchi, 1969) ma che vale ovunque:
“La tradizione è ciò che può non essere mai stato, ma che avrebbe potuto essere e che ancora potrà essere”.



 
Zolla – a Lugano, 1972



TESTI di Rodolfo Quadrelli:
1.    Una metafisica possibile [da: ETHICA (Rassegna di filosofia morale; Forlì) – (1968, n°1)]
2.    La letteratura spirituale [da: VITA E PENSIERO (Anno LI – n°7-8, luglio-agosto 1968)]