Emilio Salgàri, narratore della meraviglia
di Andrea Pozzoli - 29/12/2019
Fonte: Andrea Pozzoli
A motivo della sconfinata vastità di romanzi, racconti, saggi, articoli e curatele che Emilio Salgari dovette scrivere a ritmi serrati per rispondere alle onerose e non remunerative richieste dei propri editori, la produzione salgariana certamente non sempre può dirsi all’altezza della grande letteratura. Un fatto, tuttavia, è certo: al di là di quanto studiosi severi possano sostenere nella redazione delle proprie rigorose analisi e recensioni, chiunque abbia avuto la fortuna di approcciare precocemente la sua narrativa non può che condividere quella genuinità critica con cui i ragazzi di oggi e di ieri giudicano Emilio Salgari uno dei narratori più accattivanti di sempre.
Senza citare a dimostrazione di questo i cinque romanzi del ciclo dei Corsari delle Antille o i ben undici romanzi di quello indo-malese, nei quali prendono vita personaggi leggendari come il Corsaro Nero e Sandokan, divenuti vere e proprie icone del genere avventuroso, per avere un saggio dell’abilità narrativa dello scrittore di Verona basti leggere un’opera minore per importanza ed estensione, tanto che ad oggi ancora non si trova una pagina di Wikipedia ad essa dedicata. Parliamo de Le novelle marinaresche di Mastro Catrame[1].
Il romanzo, che può dirsi breve, svela fin dalle prime pagine la propria struttura semplice: un vecchio e coriaceo marinaio uso a ben poche parole e a modi tutt’altro che accomodanti, trovato ubriaco, viene bonariamente condannato dal proprio capitano a raccontare all’equipaggio dodici storie in dodici giorni. La cornice delle novelle marinaresche è così bell’e pronta e, entro quei limiti chiusi e ben definiti, l’estro immaginifico di Salgari sa spalancare di fronte allo sguardo incantato del lettore tutta la meraviglia del vasto mondo.
Certo, ai giorni nostri le possibilità di spostarsi sulla superficie del globo terracqueo si sono decuplicate e i media – traditional, new e social – fanno apparire vicine realtà altrimenti lontanissime ed esotiche. Questo comporta un inevitabile scarto culturale e informativo che ci distanzia dai lettori salgariani della prima ora, i quali ben poco conoscevano di quanto fosse al di fuori dei confini della propria terra. A dispetto di questo, tuttavia, la prosa del veronese sa sorprenderci e ammaliarci ancora oggi quando, nell’arco di poche decine di pagine, ci porta dal Giappone all’Islanda, dall’Australia all’isola di Terranova, dalle isole Tonga all’Inghilterra, dall’America settentrionale alla penisola indiana e finanche dall’Artico all’Impero Celeste. E attraversando in questo modo tutta l’ampiezza angolare della latitudine e della longitudine terrestri, ci racconta di mostri viventi veri o presunti tali, quali calamari giganti, serpenti marini, leggendari Kraken, murene, dugonghi, granchi imperatori, plancton, foche e balene, come solo un italiano Jacques Cousteau ante-literram, quale era lui, avrebbe potuto fare.
Questa alta impresa è affidata alla narrazione di un membro dell’equipaggio a cui mastro Catrame chiederà sul finale di trascrivere le sue storie. Egli, quanto a saper scrivere, sa il fatto suo e infatti profonde nella propria prosa un articolato e variegato armamentario di tecniche narrative, che dimostrano una chiara consapevolezza di quali corde si debbano toccare per far vibrare con esse la sensibilità dei lettori. Dall’iperbole alla prolessi, dalla scorciatoia dell’ineffabilità alle domande retoriche, dall’azzardo di introdurre elementi nuovi a meccanismi che si reiterano di novella in novella, il narratore marinaio mostra di sapersi muovere con disinvoltura e padronanza nelle pieghe della fabula e dell’intreccio.
Si ha così prova fin da subito della suggestività e dell’efficacia comunicativa di quell’estetica squisitamente salgariana fatta propria da questo capace narratore, seppur occasionale (talvolta risulterà ridondante o eccessivamente enfatica, ma difficilmente induce a non affezionarcisi e a perdonarle qualche naïveté stilistica). L’incipit del romanzo, come c’è da aspettarsi, è infatti dedicato alla descrizione introduttiva di Mastro Catrame e innumerevoli sono le strade percorribili per rispondere a questa esigenza: si potrebbe farne una sintetica ma esauriente descrizione fisica e caratteriale; si potrebbe altresì optare per una biografia dettagliata fino al momento presente; ci si potrebbe addirittura esimere dal descrivere alcunché, lasciando che sia la condanna delle dodici novelle a svelarci qualcosa di lui di volta in volta. Ebbene, il nostro narratore imbocca una quarta via, in cui il personaggio è sì presentato nelle sue caratteristiche esteriori e personali, ma attraverso il racconto di brevi aneddoti di fatti passati o ricorrenti che soltanto qualcuno che l’abbia conosciuto in prima persona potrebbe ricordare. In tal modo, si assolve sì alla necessità narratologica di introdurre il personaggio, tuttavia senza per questo rinunciare al gusto insostituibile della diegesi che incalza.
Altro segno inequivocabile di perizia è la consapevolezza che, talvolta, un buon titolo è proprio quel che ci vuole o che perlomeno il titolo, alla bisogna, debba destare una particolare impressione in chi ascolta. Alla quarta sera è proprio il titolo Come una croce di Salomone fece diventare Mastro Catrame re di un’isola[2] ad attirare in coperta l’equipaggio, il quale, dopo la terza lugubre novella, non aveva certo voglia di trascorrere un’altra notte a tremare e digrignare i denti dalla paura: si tratta al contempo di una prolessi, poiché si anticipa quanto sarà narrato, ma anche di un enigma bello e buono, giacché non ci si può che chiedere come ciò possa essere accaduto. Un titolo non può essere più efficace di così.
Lo stesso scopo giustifica il titolo Il vascello dei topi[3], il quale contraddice appositamente l’aspettativa tenebrosa dovuta alla novella precedente – I fuochi misteriosi[4] – e, con il suo sapore fiabesco che invoca reminiscenze de Il pifferaio magico o de Lo schiaccianoci, provoca il riso divertito di una ciurma così mossa ad una naturale e genuina curiosità fanciullesca: “Cosa mai sarà? – Che i topi abbiano mangiato qualche spirito del mare? – Che papà Catrame abbia perduto un pezzo di orecchio? – Andiamo a udirlo! [...] – Ah! Siete qui, ragazzacci! [...] Lo sapevo che il titolo vi avrebbe fatto accorrere”.
Naturalmente, dietro alla scelta di affidare la narrazione a questo marinaio, si cela il desiderio di Salgari di immedesimarsi in uno degli uditori che ogni sera alle otto in punto si riuniscono sul ponte di coperta per ascoltare le novelle di Mastro Castrame e, così facendo, trasmettere a noi che le sentiamo raccontate di seconda mano l’immediatezza emotiva tipica delle storie narrate per la prima volta dalla viva voce di chi le ha concepite.
In questo modo, però, i piani dell’atto narrativo si intersecano e si confondono, poiché le novelle sono certamente raccontate da Mastro Catrame, ma attraverso il filtro letterario di un suo compagno di navigazione che le riporta a noi; non una per una, ma in una cornice che le racchiuda e che costituisce il romanzo di cui, però, l’autore è Salgari, il quale interpreta, dunque, il triplice ruolo di autore dell’opera, narratore della storia e cantastorie delle novelle: figure ben distinguibili, quantunque in lui condensate.
È, però, il tema della superstizione il leitmotiv che conferisce coesione narrativa, omogeneità stilistica e levatura letteraria a Le novelle marinaresche di Mastro Catrame. V’è, infatti, una ricorrente polemica da parte sua nei confronti della mentalità moderna, troppo sbrigativa nel liquidare come superstizione quella saggezza popolare di una volta di cui oggi ci sarebbe tanto bisogno: “Al diavolo le superstizioni dei vecchi marinai! Lasciamo da parte le leggende, distruggiamo tutto, ché il mondo deve rifarsi. Non è così?”[5]. Tale mentalità a suo dire mistifica le verità di cui un tempo si aveva rispetto e timore ed è incarnata dal capitano, il quale, in parte per prendersi affettuosamente gioco del sottoposto, in parte per mantenere l’ordine tra l’equipaggio che ne rimane atterrito, si prodiga ogni sera nel tentativo di spiegare i fenomeni misteriosi raccontati nelle novelle o sfatare le leggende sulle quali si fondano.
Nonostante questa interrotta dialettica con il capitano, ben cinque volte il vecchio marinaio si rivolge ai suoi compagni di navigazione chiedendo loro se prestino fede a diffuse credenze marinare: “Credete al re del mare, voi?”[6]; “Credete voi alla campana dei morti?”[7]; “Credete voi all’efficacia della croce di Salomone?”[8]; “Credete voi all’istinto di quei piccoli roditori?”[9]; “Credete alla sua esistenza?”[10], riferendosi al mitologico serpente marino. In un’ottica metanarrativa, si è dinnanzi al ricorso sapiente e ripetuto di un buon espediente retorico atto ad attirare l’attenzione e ammantare di mistico timore l’oggetto del racconto. Da un punto di vista interno alla narrazione, invece, questi scanditi Credete voi? assumono il sapore intenso di un’oscura ed arcaica liturgia celebrata a mo’ di iniziazione ad antichi misteri che poco hanno a che fare con la mentalità odierna, post-illuminista e scientista, e che sprofondano l’equipaggio intento alla navigazione notturna nella dimensione dell’ignoto, del mostruoso e del demoniaco.
Forse che Salgari intenda propinare al proprio malcapitato lettore pagine di dozzinale letteratura di intrattenimento nutrita di favolette e storielle per bambini? Forse che l’affastellarsi di tali credenze nel romanzo siano solo funzionali al raggiungimento di un sufficiente numero di pagine che lo renda idoneo alla pubblicazione? Forse, ben più verosimilmente, Emilio Salgari rivela tutta la propria grandezza nell’essere certamente figlio del proprio tempo, segnato da una positivistica fiducia nella capacità umana di spiegare l’inspiegabile e di conoscere l’inconoscibile, ma anche nell’essere in grado di non rimanere abbagliato dalle illusioni che esso porta con sé e che non sono dissimili dalle antiche credenze dei marinai. La realtà, infatti, sarà sempre più misteriosa di quanto l’uomo sarà in grado di spiegarla: nel tentativo di indagarla e definirla, all’uomo resterà sempre sul palmo della mano “quel nulla di inesauribile segreto” di cui ci parlò Ungaretti; e il “misterio eterno dell’esser nostro”, per come si espresse Leopardi, rimarrà tale, eternamente celato.
Non resta, dunque, che abbracciare tale unica verità e intraprendere con fiducia e genuina ingenuità la lettura delle storie di Mastro Catrame e di Emilio Salgari, il quale, di fronte alle incognite suscitate da un mondo tanto grande da essere inesauribile all’uomo, non le inquadra in uno schema culturale, valoriale o filosofico-concettuale, ma, disposto a lasciarsi sempre stupire, le fa proprie e ne trae linfa letteraria con cui divenire autentico narratore della meraviglia.