Est Est Est
di Livio Cadè - 20/09/2021
Fonte: EreticaMente
Oriente mistificato
Molti grandi intellettuali hanno subito il fascino delle religioni orientali. Goethe si diceva musulmano. Dichiarazione di fede abbastanza sorprendente in un poeta tedesco del primo ‘800. Nel suo “Divano occidentale-orientale” scriveva: «Se Islam significa “sottomissione a Dio”, tutti noi viviamo e moriamo nell’Islam.» Schopenhauer fu invece conquistato dal Buddha e dalle Upanishad. Prima di loro, dotti gesuiti avevano portato dalla Cina una traduzione latina del Tao Te Ching, aprendo un filone esegetico che tuttora pare inesauribile.
Tuttavia, se si escludono i testi eruditi che già nell’800 circolavano e in genere gli studi di carattere accademico sulla sua filosofia, religione, arte ecc., da secoli esiste da noi un Oriente posticcio, legato all’esotismo di maniera, intriso di seduzioni alla Mille e una notte, in cui si fondono elementi di barbarie e di raffinatezza erotica, di ascetismo e di sensualità.
Un Oriente immaginario che in un periodo di positivismo e di scienza, era come il riemergere di un’ombra dell’inconscio, di una parte dell’essere amputata dai rigori del moralismo vittoriano e del razionalismo. In modo particolare, era l’India a riunire in sé le prerogative del ‘misterioso’ e del numinoso, del magico e del metafisico.
Ma restava un mondo da guardare dall’alto in basso, con la spocchia della superiorità occidentale. Di fronte alla cultura europea, i cui terreni erano stati bonificati e coltivati con ordine metodico, quella tradizione sembrava un’immensa e incolta foresta, giungla di paludi, pullulante di forme di vita insolite e curiose, manifestazioni di un subconscio caotico. Affascinante e repulsiva, prelogica, irrazionale.
La pittoresche divinità, l’idolatria pagana, la mistica svaporante nella trance, santoni e fachiri, apparivano espressioni di una religiosità torbida e selvatica se paragonate ai severi edifici dottrinali dell’Occidente. Tali pregiudizi, basati su una conoscenza superficiale, alimentavano del resto il mito della superiorità dell’uomo bianco, più lucidamente intellettuale rispetto all’indiano o al cinese, meglio organizzato militarmente e socialmente, più evoluto nei campi della cultura e dell’arte, destinato per sua natura al dominio di razze inferiori.
Rovesciamento di paradigma
Questo orientalismo onirico e artefatto si è in fondo ben conservato, anche se i vecchi stereotipi sono stati aggiornati, finendo col rovesciarne il carattere. Così, tanto una cultura di estrazione popolare che una certa tendenza accademica, hanno nella seconda metà del secolo scorso alimentato il contro-mito di un Oriente spiritualmente superiore.
Di fatto, stanchi di una Weltanschauung dagli effetti alienanti, molti hanno avvertito il bisogno di ritrovare modelli di pensiero più vicini alla natura, alla vita e allo spirito; di una più profonda intimità con l’anima delle cose, di filosofie meno aride e prive di palpiti umani, di una religione meno moralista e repressiva.
La cultura occidentale si è chiusa in un sapere sempre più parcellizzato, disperso in infiniti rigagnoli specialistici, incapace di rispondere alle domande radicali della vita. Di fatto, né il corpo né l’anima dell’uomo occidentale hanno più un’identità precisa. Né le scienze umanistiche né quelle naturalistiche sono più in grado di trasmettergli un senso unitario del mondo e di sé stesso. Il grande mosaico dell’essere è andato in pezzi e nessuno ne vede più il disegno complessivo.
La conoscenza, come l’inconsutile veste del Cristo, viene spartita tra uno sciame di esperti, confinati nell’angusto spazio della propria specialità, come in una turris eburnea cui i profani non hanno accesso. Nessuno osa più esprimere frasi di senso compiuto, perché al massimo conosce una lettera sola di un immenso alfabeto, e anche di quella non è certo.
Pensiero disgregante
Basti guardare la stupefacente suddivisione della medicina in piccoli campi specifici, x-logie ogni anno più numerose e ristrette. Moltiplicazione di saperi cui corrisponde in realtà una crescente ignoranza del corpo umano. Competenze isolate e miopi che prendono in consegna una sezione dell’uomo, un organo, una funzione, limitandosi a meccaniche associazioni tra patologie e farmaci. Sorta di pseudo-scienza che non solo riduce l’essere umano alla sua struttura anatomica o fisiologica, ma spezza anche questa struttura in componenti estranee una all’altra, divise tra loro dagli invalicabili confini di una ‘specializzazione’.
E se anche, con un atto di fede, credessimo in questo sapere frammentario e tentassimo la somma dei suoi dati, ne caveremmo un’idea di ‘corpo umano’ avulsa dalla nostra esperienza reale. Misero brandello dell’essere, da cucire o rattoppare con i dati della psicologia, dell’antropologia, della storia, della religione ecc. Cioè con i pezzi di un uomo che non appare mai intero ma sempre smontato e rimontato come una macchina.
Al posto dell’uomo troviamo il triste feticcio di un transumanesimo che vuol ridurre l’essere ad automatismi psicobiologici e a protesi artificiali. La nostra anima naufraga così in un vacuum di senso, precipita nel nulla come uno specchio andato in mille pezzi, senza più offrirci un’immagine integra e stabile di noi stessi.
Da qui la debolezza di pensiero della modernità e la sua l’inettitudine a soddisfare domande su origine, significato e scopo della nostra vita. Temi di carattere così fondamentale non rientrano in alcuna forma di specializzazione scientifica e culturale. L’uomo moderno si trova così da un lato prigioniero di meccanismi massificanti e dall’altro disintegrato nella stessa molteplicità di questi meccanismi. E se cercasse, come Pollicino, di ritrovare la strada di casa seguendo la via segnata da tante minuscole briciole, si perderebbe in una foresta oscura e senza sbocchi.
Né può trovar risposte in una religione fossilizzata in noiose liturgie e prediche moralistiche, ridotta alla retorica stucchevole dell’amore o dell’assistenza sociale, senza più rapporti con l’esperienza viva dello spirito. Religione amministrata per altro da una Chiesa formalista e ipocrita, la cui prassi contraddice la teoria.
L’Oriente sembrava invece offrire alla lacerata anima occidentale una visione unitaria, naturale, ricca di senso e di promesse; una via lungo la quale ritrovare una coscienza integrale di sé stessi, ovvero una scienza unificata dell’uomo; un pensiero attraverso cui recuperare quel senso di armonia tra l’uomo e il cosmo che la civiltà moderna aveva distrutto. La possibilità di uscire dai paradigmi di una scienza materialistica e di un’economia disumanizzante, di conferire valori spirituali all’esistenza.
Complementarità di bisogni
Ma la situazione può esser vista anche da una prospettiva opposta. Possiamo cioè pensare che l’anima orientale, travolta da influssi occidentalizzanti e presagendo il rischio della propria estinzione, abbia cercato di trarre vantaggio da alcune circostanze storiche per gettare i propri semi altrove, cercando nuovi spazi dove attecchire, sopravvivere e svilupparsi.
Aderendo alla psiche di turisti o ricercatori spirituali, come il polline dei fiori al pelo degli insetti, si è così spostata da una parte all’altra del mondo. L’induismo stesso, dopo millenni di stanzialità, ha scoperto una vocazione nomade e missionaria, portando una brezza di liberazione a coscienze che si sentivano incatenate da secolari catechismi. Senza prevedere che avrebbe in questo modo ispirato movimenti di controcultura e ribellione idealistica, fatto proseliti dalla sessualità disinvolta, inclini a cercare l’estasi più con le droghe che con la meditazione.
In realtà, credo che Est e Ovest si siano cercati come spinti da un’attrazione sessuale, complementari e desiderosi uno dell’altro. Due disastrose guerre mondiali avevano mostrato all’Occidente il suo lato più oscuro. Persa la fede nel potere della ragione di creare un mondo migliore, diventato sospettoso, spaventato dalle sue stesse pulsioni distruttive, ha chiesto aiuto a una Tradizione che gli appariva meno compromessa. Perciò, mentre l’Oriente assimilava rapidamente le nostre conquiste tecniche e scientifiche, noi abbiamo cercato di ritrovare in lui le antiche e smarrite metodologie dell’anima.
Ma in realtà è già a partire dalla seconda metà dell’800, in particolare grazie alle dottrine teosofiche e ai loro sviluppi, che si stabiliscono i fondamentali elementi di fascinazione dell’Oriente sulla mente occidentale, e insieme si palesano i limiti di un processo di ibridazione spirituale che avrebbe scontentato i tradizionalisti dell’una e dell’altra parte.
Penso si possa semplificare la complessità di tale processo dicendo che l’Oriente ci ha influenzato essenzialmente in due modi. Da un lato ci ha aperto nuove prospettive intellettuali, offrendo ai temi esistenziali luci e angolazioni diverse, inesplorate profondità, una nuova freschezza religiosa. Dall’altro, ha permesso a molti di riempire un vuoto spirituale con superficiali conversioni, illudendoli più o meno intenzionalmente con ammiccanti vie di salvezza.
La questione della salvezza
Proprio qui, nel conflitto tra due visioni di ‘salvezza’, quella cristiana e quella orientale, che possono apparire incompatibili tra loro, si pone un problema a mio avviso fondamentale. Tuttavia, non si tratta secondo me di una contraddizione reale, quanto di un’antitesi tra superficialità e profondità dell’esperienza spirituale. In un approccio superficiale, che si fermi al piano di una religiosità di tipo teoretico o giuridico, si incontrano infatti difficoltà che perdono forza a mano che se ne approfondisce il senso.
Solo nella profondità l’incontro tra Oriente e Occidente si fa concreto e fruttuoso. Sintomo della profondità è la vertigine. Allora ci coglie il turbamento per questo abisso posto sotto la sottile crosta della ragione, dove le nostre certezze affondano. Sintomo della superficialità è invece la sensazione di rassicurante stabilità delle nostre idee, come di case costruite e ammobiliate secondo i gusti di un luogo e di un’epoca.
Ma, come dice padre Larre, grande sinologo gesuita, “se si riconosce che Cristo libera l’uomo senza imporgli né logica particolare, né visione determinata della natura umana, l’avventura diviene realizzabile, seria, seducente”. In altre parole, a tale condizione si può trovare un’armonia tra anima orientale e occidentale. Sia il messaggio di Cristo che le dottrine orientali si pongono infatti come fine la liberazione dell’uomo.
A me piace dire, in modo paradossale, che Cristo non è cristiano. Non propone all’uomo una teologia dogmatica, ma una via di salvezza. È quindi necessario anche per il cristiano, entro certi limiti, liberarsi del cristianesimo. Più che indagare i conflitti teorici tra diverse prospettive religiose è necessario dunque osservare il loro rapporto con l’esperienza concreta della liberazione. Ovvero uscire dall’analisi di un apparato dottrinale fine a sé stesso per valutarne l’efficacia pragmatica come strumento di una restitutio in integrum, guarigione totale della natura umana.
“Li giudicherete dai loro frutti”. Non si tratta quindi di cavillare sul senso di karma, reincarnazione o Brahman, inerpicandosi su speculazioni metafisiche, ma al contrario di calarsi fino alla radice di un Male che affligge l’uomo. Perciò sottolineo il ruolo cruciale della profondità, dell’esperienza radicale, dove le diverse strade si incontrano.
Il mistero doloroso
Il cuore del problema è l’esperienza del dolore, da cui nasce nell’uomo la coscienza della propria debolezza e vulnerabilità e, per converso, una domanda di salvezza. A uno sguardo superficiale può sembrare che Oriente e Occidente diano due risposte divergenti. Il dissidio nasce già nelle due diverse prospettive eziologiche. Disubbidienza a un ordine divino, che è infrazione di un’armonia cosmica stabilita da Dio, oppure ignoranza della propria natura reale, Avidyā.
In realtà, se assumiamo l’atteggiamento della profondità, questo apparente disaccordo si riassorbe nella comune percezione di una caduta, di una fondamentale alienazione del sé. Si pone quindi in entrambe le visioni la necessità di un’ascesi che restituisca il sé alla sua natura incorrotta. Sia la tradizione orientale che quella occidentale hanno battuto in tal senso strade diverse, conosciuto gli estremi di una salvezza che scaturisce esclusivamente dallo sforzo umano, come nel buddhismo delle origini o nel pelagianesimo, e di una salvezza per fede, effusione di grazia, come in Lutero o nel buddhismo della Terra Pura. E se per alcuni la liberazione nasce dalla conoscenza, per altri sta in una nube di non-conoscenza, in una dotta ignoranza.
Comune è l’esigenza di reintegrare il sé in una condizione di armonia, equilibrio e pace. Cristo afferma: “vi dico queste cose perché la vostra gioia sia completa”. Ma il cristiano pone a simbolo della sua fede l’immagine di un supplizio. Non vede la croce come intersezione di orizzontalità e verticalità dell’esperienza umana, immanenza e trascendenza, ma come luogo di sofferenza. Questo lo relega alla superficialità di un’idea di salvezza in cui l’elemento gioioso è obliterato.
L’Oriente esprime invece la sua fede con l’immagine di un uomo tranquillamente seduto in meditazione. Questo sembra creare un contrasto insanabile tra una religione della sofferenza e una religione del benessere. Ma anche il sorriso del Buddha o il flauto di Krishna rischiano di bloccarci in un’idea superficiale di salvezza, in cui viene escluso l’elemento doloroso.
Banalizzazione dell’ascesi
Per questo motivo la spiritualità orientale è potuta da noi degenerare in ginnastica, fitness, banale ricetta eudemonistica o anche solo edonistica. Si è confusa la liberazione dal dolore con la fuga dal dolore, con una fittizia rimozione psicologica. Il pensiero orientale è diventato pretesto di un labile escapismo, di un’evasione dalle situazioni di conflitto e di sofferenza. Ha portato molti a irrigidirsi in una stereotipata e fittizia pacificazione, o a credere di poter dominare la propria sofferenza attraverso un’analisi scientifica delle sue cause.
Alimentando così il mito di una consapevolezza che appiattisce l’uomo nella dimensione di ciò che sa o crede di sapere. Che lo porta a negare la propria ombra, nascondendo sotto il tappeto quelle parti di sé che non corrispondono a una morbosa immagine direttrice, ossia al proprio ideale narcisistico.
In realtà, nell’ascesi orientale come in quella cristiana, la negatività del sé non è mai rimossa o nascosta con trucchi cosmetici, ma sempre affrontata con lucidità e coraggio. La vita dello spirito è guerra, jihad, sofferta lotta con le forze recalcitranti alla luce, “combattimento contro la propria anima istigatrice” come dice il Profeta.
Non possiamo occultare la realtà del dolore in una nebbia concettuale o trascenderla con un tirocinio puramente cognitivo. In questo campo la fuga non serve a nulla. Se non riconosciamo la necessità del patire, oltre che dell’agire, la nostra ricerca spirituale si riduce a semplice anestesia dell’anima. «Niente di importante nella vita si impara senza soffrire, e a questa regola non v’è eccezione», afferma un antico samurai.
Tentativo di bandire il dolore
La stessa esperienza della recente ’emergenza sanitaria’, al di là dei reconditi motivi economici o demoniaci che possono averla ispirata, ha messo in luce l’angoscia profonda che attanaglia una modernità incapace di elaborare l’idea della malattia e della morte al di fuori di schemi materialistici e farmacologici. Ha mostrato la fragilità e l’immaturità interiore di un’umanità priva di solidi riferimenti religiosi e spirituali, immersa nel liquido amniotico delle sue illusioni sul ‘benessere’, e perciò facilmente manipolabile.
È un’umanità che evacua il senso del dolore, lo anatemizza, rinunciando alla sua libertà in cambio di gabbie che promettono un’illusoria protezione. Ma, separata da una didattica del dolore – patemata matemata – l’esperienza religiosa diviene puro compiacimento di sé o sterile evasione intellettuale. Si ricorre a ‘tecniche spirituali’ secondo i canoni della medicina moderna, usandole cioè come strumento di repressione dei sintomi, approdando infine a una cronicizzazione che comporta non una liberazione dal male ma una dipendenza dal farmaco.
Questo non significa che il dolore salva ma che non c’è salvezza senza dolore. Perché ogni processo di liberazione dal male implica conflitto, rinuncia e sacrificio. «Se tutta la realtà non viene aggravata, non si può ottenere la liberazione con l’uso di antidoti rasserenanti e piacevoli» dice Ma gcig, mistica tibetana dellXI secolo, che paragona la pratica religiosa alla cauterizzazione delle ferite. Ma anche San Giovanni della Croce usa il cauterio come metafora dell’azione dello Spirito Santo.
Ogni redenzione è una purificazione dolorosa, che passa attraverso crisi successive, momenti di rottura e distacco. Separata dalla sottomissione a questo disegno divino – l’Islam cui Goethe si riferiva – la spiritualità produce solo un’ipertrofica displasia dell’ego e dei suoi desideri, o una demoniaca volontà di potenza.
L’approccio anestetico induce nell’uomo sentimenti di autistica sufficienza, bloccandolo alla superficie dell’essere. All’anima vengono precluse dimensioni profonde dell’esperienza religiosa: la devozione, la Grazia, la colpa, il pentimento, il perdono. Si perdono così alcuni elementi animici costitutivi della Tradizione orientale, anche di quella più speculativa e gnostica. Si procede, potremmo dire, a un’errata decodificazione del suo contenuto.
Lingua madre
Del resto, era forse inevitabile che la ricezione di un messaggio soteriologico espresso in un diverso linguaggio, con un altro apparato simbolico, generasse fraintendimenti e distorsioni. Di fatto ogni religione presenta una peculiare struttura lessicale, grammaticale e sintattica, che non è facile tradurre. La coscienza occidentale parla da secoli il cristianesimo, ne ha assimilato geneticamente le declinazioni, i modi. La decifrazione di altri codici religiosi può risolversi in una traduzione maldestra e in una riaffermazione di schemi linguistici propri, seppure con l’intenzione di negarli e superarli.
Inoltre, l’emergere di tante diverse proposte e pratiche religiose ha dato a molti l’impressione di trovarsi in un grande bazar dello spirito dov’era possibile scegliere la fede che più piaceva, come si sceglie un abito, e adattarla ai propri gusti e alle proprie aspettative. Questo è sembrato perfettamente razionale, coerente coi criteri dell’imperante relativismo culturale e con la ‘libertà’ dell’individuo di autodeterminarsi. Si è arrivati così a creare la moda di una spiritualità self service, dove ognuno si serviva da sé. Ma la fede non è oggetto di scelta.
Gioverebbe a tal proposito ricordare quello che scriveva il grande mistico dell’Islam, Al Hallaj: «Ho riflettuto molto sulle religioni, facendo uno sforzo per capirle, e le considero come i rami di un Unico Principio. Non domandare dunque all’uomo di adottarne una, perché ciò lo allontanerebbe dal Principio Primo e Uno. E’ certo, invece, che proprio il Principio stesso deve venire a cercarlo: il Principio, Lui, nel Quale si illuminano tutte le grandezze e tutti i significati. E allora l’uomo comprenderà». Non si tratta dunque di trovare la via adatta a sé ma di camminare sulla via in cui il Principio ci pone, adempiendo al nostro dovere e al nostro destino.
L’orientalizzazione dei concetti di ‘salvezza’, ‘liberazione’, ‘illuminazione’, malamente tradotti ad usum delphini, ha invece introdotto interpretazioni e prassi devianti. In sostanza, dopo esser passato dal confessionale e dal lettino dello psicanalista, l’uomo occidentale ha visto nelle filosofie orientali un nuovo modo, indolore, per uscire da angosce e frustrazioni. Stanco dei vecchi maestri, è andato in cerca di nuovi psicopompi, di guru e di liberatorie iniziazioni. Ha fatto incetta di manuali, di comodi prêt-à-porter dello spirito, di mappe che conducevano ai favolosi tesori della consapevolezza e della realizzazione di sé. Convinto che fosse sufficiente leggere e praticare qualche esercizio per accedere all’oltre-uomo.
Tecnologia dello spirito
Ha appreso che forze serpentine possono srotolarsi da plessi occulti, inondare di fluidi beatificanti i suoi canali sottili. Che, meditando a gambe incrociate, recitando mantra in luogo delle obsolete preghiere, si possono suscitare latenti energie o raggiungere il nirvana. Ha imparato come, invece di pregare la Madonna, ci si possa filosoficamente rannicchiare nell’utero di una Grande Madre. E prima ancora di aver raggiunto uno stadio di decorosa umanità, ha sentito il richiamo di stati sovrumani, divini.
L’uso di droghe gli ha aperto le cigolanti porte della percezione. Seguendo antiche formule tantriche ha liberato la kundalini da vecchie catene sessuofobiche, celebrando i riti di un Eros gaudente e amorale. Per trascendere l’ego si è dato a narcisistiche ricerche del Sé, inseguendo il samadhi, il satori o altri ineffabili orgasmi della psiche. Ha atteso il tocco di una risanante energia, il lampo di un’improvvisa rivelazione dell’Essere.
Le vie dello spirito son state raccolte in manuali di tecniche e ricette, in uno sconcertante eclettismo e sincretismo di tradizioni diverse. Combinando un’antichissima scienza spirituale coi modelli del moderno razionalismo scientifico, la dottrina della reincarnazione coi miti del progresso e dell’evoluzionismo, le ipotesi della neuroscienza coi misteri dell’anima. Concetti incompatibili si sono mescolati in un paradossale impasto di materialismo e tecnologia spirituale. Da un lato formando la bassa vegetazione della sub-cultura popolare; dall’altro creando una nuova variegata fauna di esperti, autorità e specialisti da cui dipendere.
Dopo le infruttuose evasioni, dopo aver scambiato per lampi metafisici i fuochi fatui del pensiero, tale ricerca è destinata a naufragare in un amaro disincanto. Si esaurisce infine in quell’elementare ossessione per un benessere niente affatto metafisico e tutto empirico che si consuma nella dimensione psicofisica del soggetto. Dopo un lungo giro sulla ruota panoramica delle ‘soluzioni orientali’ ai problemi della vita, l’uomo occidentale è invitato a scendere e a tornare al punto di partenza.
Unione delle forze
Questo non vuole assolutamente togliere valore all’incontro con l’Oriente. Lo stesso vituperato new-age è un fenomeno semiologico di grande complessità e dai molteplici livelli, che non si può liquidare con una critica sbrigativa. Pur nelle sue stravaganze, ingenuità o aberrazioni ideologiche, ha favorito il nascere di nuove e significative manifestazioni dello spirito. Ha aiutato l’Occidente a conoscere e apprezzare la filosofia orientale, liberandola dai retaggi delle cineserie e dei futili esotismi. Ha fornito l’impulso a riavvicinarsi con maggior consapevolezza da un lato allo gnosticismo e al misticismo cristiano, dall’altro alle tradizioni misteriche, ermetiche, esoteriche e iniziatiche di cui l’Occidente è da sempre meravigliosamente ricco.
È servito a tracciare più chiaramente i confini tra superficialità e profondità dell’esperienza spirituale, tra conformismo religioso e autentica vocazione. Ha spinto molti a porsi domande più penetranti sulla propria natura, sulla relazione con il cosmo, sulla vita e la morte, sui piani sottili che trascendono l’esperienza sensibile. Ha favorito un interrogarsi che oggi è una necessità vitale, terapia e anamnesi per un’umanità che rischia di smarrirsi in un tenebroso oblio di sé. L’Oriente ha acceso nuovi bagliori nel crepuscolo dello spirito occidentale, prima che cali la sua profonda Notte.
L’Est è diventato il significante di ciò che È, quindi dell’Essere oltre le apparenze. Ma questo ‘Est’ in terza persona rischia di restare un ‘Esso è’, oggetto esterno, esteriore, cioè ancora un ex-sistere fuori di sé, finché non diviene prima persona, soggetto di un ‘io sono’. E paradossalmente è diventato compito di una civiltà occidentale quasi totalmente alienata, proiettiva, esteriorizzante e votata all’immanenza, recuperare il senso di questa interiorità trascendentale.
Sono dunque le potenze stesse dell’Anima che hanno avvicinato Est e Ovest, cercando di unire le residue risorse perché insieme guidassero l’umanità in questo periodo di oscurità, passando dal tramonto di una civiltà a una nuova aurora. Oriente e Occidente rischiano entrambi di esser sommersi da una marea anti-spirituale, il cui scopo è uno psichicidio collettivo. Ma per qualcuno le acque del mare si apriranno, aprendo una strada verso la salvezza. Sugli altri si richiuderanno, trascinandoli via con i resti di una civiltà ormai decrepita e moribonda.