Ex voto. Riflessioni sparse su naturale e artificiale
di Livio Cadè - 17/07/2023
Fonte: EreticaMente
Diceva Theodor Fontane che “l’uomo naturale vuole vivere, non vuole essere devoto, o casto, o morale”. Devozione, castità, moralità sarebbero “tutti tratti artificiali il cui valore, poiché manca l’autenticità e la naturalezza, è sempre dubbio”. L’uomo sarebbe dunque autentico, e perciò interessante, non per le sue discutibili virtù ma solo quando manifesta i vizi, i peccati e le debolezze della sua natura.
Ora, benché Fontane sia un romanziere geniale e dotato di una profonda intuizione dell’umano, credo che qui sia in errore. Che significa ”uomo naturale?”. È ‘naturale’ chi pensa solo a soddisfare i propri impulsi biologici? O dobbiamo considerare ‘naturali’ anche altri desideri, sentimenti, passioni? E scrivere romanzi, comporre musica, dedicarsi all’arte, alla scienza, alla filosofia, fondare città, darsi delle leggi, credere in Dio, tutto questo è naturale o artificiale? Se dovessimo classificare le attività umane secondo una o l’altra di queste categorie ci troveremmo in un grave impasse. In tutto ciò che fa, anche nei suoi gesti più semplici e ‘naturali’, l’uomo mette infatti arte e consapevolezza.
Perciò qualcuno ha detto che l’arte è la natura dell’uomo. Diventa quindi impossibile tracciare un confine preciso tra il naturale e l’artificiale. La stessa natura è in generale un’opera d’arte, d’autore anonimo, e ogni forma di vita ha in sé una scintilla di creatività. Ogni creatura, una volta nata, entra nella bottega della vita come apprendista. Quello che chiamiamo ‘istinto’ o ‘natura’ è solo un insieme di tendenze che determinano a priori l’adattamento dell’essere vivente al suo ambiente.
In realtà, anche ciò che appare spontaneo è frutto di una disciplina, di un precedente tirocinio. Si impara a vivere vivendo, elaborando ‘tecniche’ funzionali ai propri bisogni. Definire uno spettro di necessità naturali è tuttavia difficile. Noi chiudiamo in genere la ‘vita’ in schemi biologici e materiali, e perdiamo di vista quella sua fondamentale natura astratta, immateriale, che si svolge fuori dello spazio e del tempo, in una ‘mente’ misteriosa.
L’autentico come giudizio sintetico
La nostra esperienza non è fatta di cose ma di rimandi simbolici. Ciò che noi sperimentiamo è solo un’immagine riflessa nel cielo della coscienza. È sintesi di un’incognita, una x di cui supponiamo la realtà, e di una sua rappresentazione. In questo senso la vita si pone come presenza di qualcosa allo spirito che eccede la mera dimensione fisica.
È dunque sbagliato vedere tra spirito e natura un conflitto, credere che questa sia autentica e quello fittizio o viceversa. L’uomo può essere autentico e naturale pur nella sua volontà ‘spirituale’ d’essere devoto, casto o morale. E può essere inautentico nei suoi peccati e nelle sue debolezze ‘naturali’. Il problema va dunque spostato su un altro piano, quello del valore e del senso di un’esperienza.
L’autenticità di un atto umano non si coglie mediante un processo analitico ma con una comprensione sintetica e immediata, come distinguiamo il volto di un amico da quello di un estraneo, col giudizio sicuro d’una intuizione. La nostra moralità è pura ipocrisia o genuina pietas? La nostra castità è nevrosi o purezza interiore? La nostra devozione si rivolge a oggetti degni o indegni?
Dovremmo riconoscere ed estromettere dalla nostra vita tutto ciò che suoni insincero e falso. Questa scelta sembra dipendere da una sorta di bussola interiore, che ci indichi il Nord magnetico di una verità spirituale. Ma ovviamente si può sospettare che l’ago dell’intuizione sia difettoso. Allora, abbandonati al ragionamento e all’analisi, ci troviamo a interpretare una realtà e a formulare spiegazioni che vanno anch’esse spiegate, cercando invano di porre un fondamento all’autenticità senza sapere quale sia il fondamento del fondamento, o se esiste un fondamento.
Scopriamo allora che l’autentico nell’uomo coincide con questo gesto che sempre tende a superarsi, a inseguire la sua libertà e la sua inesauribile ricchezza di significati. Corrisponde cioè a un’apertura infinita, a una trascendenza. In una civiltà tradizionale aprirsi al trascendente significa affidarsi alla parola di Dio, a un Bene che ci ispira e ci guida verso la pienezza dell’essere. È dunque un vissuto religioso, storia di una relazione tra umano e divino. Ecco perché Fontane, a mio parere, si inganna ponendo come primo esempio di inautenticità e di innaturalezza proprio l’esser devoto. Perché l’uomo aspira per natura a trascendersi e la devozione è l’espressione più autentica di questa tensione.
La devozione come aderenza al fondamento
Un etimo fantasioso potrebbe collegare ‘devozione’ al sanscrito Devas – divino, splendente. In realtà significa l’esser legati a qualcuno o a qualcosa da un voto, da una promessa. Nella sua essenza v’è un atto di consacrazione dell’uomo, il suo essere “votato al sacrificio”. Questo implica il riconoscere il Sacro, l’infinito in cui siamo radicati. La devozione ci è quindi naturale e necessaria perché ci salva da una finitezza individuale o sociale, ci riunisce a quella trascendenza che intuiamo come nostro fondamento.
Perciò in Agostino, Tommaso, Bonaventura e tanti altri intelletti altamente speculativi, le sottigliezze metafisiche si associano a manifestazioni di pura e intensa devozione. È un fenomeno universale, che riscontriamo ovunque, in filosofi rigorosi come Nagarjuna e Shankara, in mistici ed esteti come Abhinavagupta, in certi iconoclasti maestri zen, nei quali pare a noi che la devozione contraddica la dottrina. Ma questa è una difficoltà solo per la mente raziocinante o per il nostro orgoglio.
La devozione comporta infatti un tratto di umiltà, un arrendersi di fronte a ‘Quello’ che la ragione, per quanto si sforzi, non può capire. Non è una resa umiliante, semmai meravigliata. Quando la mente accetta i suoi limiti congeniti, invalicabili, il cuore obstupescit. Questo stupore, non la conoscenza, è il midollo della verità. L’albero dell’io” si piega di fronte al suo mistero, e poco importa quale immagine se ne faccia o se gli dia un nome. L’essenziale è questa flessione interiore, che fisicamente si traduce nel’inchinarsi, inginocchiarsi, prosternarsi.
Una devozione pervertita
La devozione, così intesa, è la grande assente di una società contemporanea palesemente atea, irreligiosa, materialista, superba nella sua presunta autosufficienza. Le stesse correnti sedicenti ‘spiritualiste’ sembrano più interessate agli astratti sistemi metafisici, a tecniche di ‘crescita personale’. Ma è chiaro che non esistono tecniche di devozione. Al contrario ci può essere una devozione alla tecnica. Tali procedure di ‘autorealizzazione’ finiscono col concedere alla devozione un ruolo puramente retorico, favorendo un culto dell’io che ne è la totale contraddizione.
La nostra società pone come soggetto della trascendenza l’uomo stesso. Non però l’uomo concreto, reale, ma l’uomo statistico, i cui bisogni sono percentuali, o l’Uomo ideale, antropos sublimato artefice del progresso, che costruisce manufatti sempre più stupefacenti, che raduna in sé lo scibile universale, self made man autosufficiente e razionale.
Succede così che l’uomo moderno soffre di un senso di inadeguatezza nei confronti di sé stesso. Egli è infatti l’Uomo, cui niente di nobile e meraviglioso è alieno, ma è anche l’uomo, un individuo soggetto a debolezze di cui si vergogna. Essere biologico, mortale, sequenza di eventi psicofisici senza fondamento metafisico, che tuttavia non può cancellare la propria naturale vocazione alla trascendenza. Ha bisogno di un Dio che è ‘morto’ e alla cui mancanza deve supplire con modelli di ‘grandiosa umanità’ ai quali devotamente inchinarsi. Mediante questa umiliazione, si eleva.
E’ una devozione che non si piega davanti alla saggezza e alla potenza divina ma a dei surrogati divinoidi. Così, la scienza diventa rivelazione di una nuova sacralità, aggiornamento della vecchia teologia, nuova casta sacerdotale fatta di specialisti ed esperti che si pongono come mediatori tra noi e la realtà. Ma soprattutto, a porsi come soggetto incondizionato di trascendenza e oggetto di devozione è la Macchina. È lei a rappresentare concretamente la nuova idea di Dio, a esprimere un’assoluta superiorità ontologica rispetto all’uomo, avocando a sé prerogative divine. Non questa o quella macchina, ma la Macchina come Archetipo, essenza metafisica.
Il mezzo giustifica il fine
La Macchina ha in sé una radicale ambiguità. È oggetto, strumento privilegiato di manipolazione della realtà, e insieme soggetto di una trascendenza. In quanto mezzo, attraverso gli sviluppi della robotica e della cosiddetta ‘intelligenza artificiale, essa ambisce a surrogare l’uomo stesso. Ma rappresenta anche un fine in sé, addirittura lo scopo ultimo, ovvero una divinizzazione dell’umano. Nata come mezzo per l’uomo, la Macchina diviene un fine di cui l’uomo è il mezzo. Questa paradossale inversione di ruoli fa sì che, mentre un tempo l’uomo si riconosceva creatura e si inchinava al Sommo Fattore dell’universo, oggi l’homo faber si inchina alla sua creatura.
L’uomo ha sviluppato nei confronti della Macchina un senso di inferiorità, si sente superato in tutto dalla propria creatura, questa serva padrona più forte, più intelligente, che, fingendo di ubbidirci ci comanda. “La tecnologia è al servizio dell’uomo” è una frase che spesso risuona nel paradiso dei luoghi comuni, o nell’inferno della retorica, che è lo stesso. In realtà è l’uomo che deve adattarsi alla Macchina, accudirla, servirla. Essa non nasce più per semplificarci la vita ma per complicarla, non ci fornisce soluzioni ma genera nuovi problemi, nuove obbligazioni.
La Macchina non presuppone più una funzione necessaria ma si fa metafora, culto del Meccanismo, devozione alla tecnica in sé. In questo, tecnologia e farmacologia sembrano seguire un medesimo destino. Secondo un celebre farmacologo, delle migliaia di farmaci esistenti sul mercato, solo un 15% circa ha reali indicazioni terapeutiche. Così, la tecnologia non si preoccupa oggi di rispondere a un bisogno ma di crearlo. Perciò, prima si progetta un dispositivo e poi si stabiliscono delle condizioni che ne impongano l’uso, condannando l’uomo a una crescente, superflua complessità.
Dovremmo, in teoria, conservare solo macchine coerenti coi nostri reali bisogni. Ma la giustificazione ontologica della Macchina non è più la sua utilità, è il suo esserci. La sua presenza costante determina nelle nostra vita quella capillare ingerenza che un tempo potevamo attribuire a un Dio che tutto vede e decide, o al destino. Perciò ci sembra naturale che la Macchina ci controlli e sorvegli, stabilisca per noi norme di comportamento e di pensiero, che la nostra esistenza ne dipenda in forza di una ineluttabile predestinazione. Il progresso tecnologico è per noi come la volontà di Dio per un uomo medievale o il Fato per un antico greco. È folle opporsi, protestare.
Sempre più vediamo con gli occhi della Macchina, usiamo il suo sensorium per interpretare la realtà. È lei a elaborare per noi una dimensione simbolica, sostituendosi alla nostra coscienza. Ogni senso del mistero è abolito. La x è rimossa, negata, coperta da una serie di certezze automatiche. D’altra parte, nonostante la sua pretesa trasparenza intellettuale, la sofisticata Macchina con cui conviviamo è per la gran parte della gente altrettanto misteriosa che il fulmine o l’eclissi solare per l’uomo delle caverne. Diventa così il nuovo numinoso, l’incomprensibile Oltre. Se in passato l’uomo vedeva Dio nelle forze naturali, oggi noi proiettiamo questa immagine idolatrica sulla Macchina, la veneriamo e la temiamo insieme.
Per alcuni la Macchina è infinitamente superiore all’uomo perché non ha un inconscio, non l’adombrano passioni, desideri, paure, e neppure ha una coscienza o una moralità, è al di là del bene e del male. Appare dunque più libera di noi, perché risponde solo alla propria razionalità. Le decisioni di un androide sembrano più affidabili delle nostre perché non condizionate da pregiudizi ed emozioni. In realtà, in quella intelligenza artificiale, fredda e incosciente, trasfondiamo i nostri preconcetti e i nostri conflitti emotivi, seppur trasformati in imperturbabili algoritmi.
Deus sive Machina
Noi usiamo la Macchina come uno specchio, perché ci rimandi un’immagine di perfezione, di conoscenza ed efficienza. Tendiamo così a identificarci con le sue funzioni, riducendo noi stessi alla nostra ‘funzionalità’, alle nostre prestazioni. Chiediamo alla Macchina una nuova Genesi, di essere il nuovo Dio e, dopo averla creata, possiamo temere che ci distrugga o sperare che possa ricrearci, migliori del vecchio e imperfetto Adamo.
Se un tempo, scopo ultimo era divinizzare l’umano, oggi l’uomo ritiene di ‘indiarsi’ ibridandosi con la Macchina, applicando su di sé procedure di ingegneria che aboliscano i suoi limiti naturali. E qui sta tutta la differenza fra il ‘trasumanare’ e il transumanesimo. Il primo ci libera, il secondo ci lega a una trascendenza capovolta, come un Prometeo che si incatena da sé. E l’aquila che oggi divora il fegato dell’uomo è artificiale, meccanica, lui stesso l’ha creata. La nostra titanica hybris si punisce da sola.
È difficile comprendere a fondo le implicazioni utopiche di questa Tecnologia. Potremmo vederla come la divinizzazione di una Natura spogliata dei suoi elementi di casualità e di imprevedibilità, o come una naturalizzazione di Dio, ripulito dalle scorie della metafisica. Forse epitome di una Natura indifferente e amorale, retta solo da un’inflessibile legalità. Di certo non un Dio misericordioso, che possa chinarsi su di noi, comprenderci e perdonarci. La Macchina è una divinità che chiede alla nostra devozione un sacrificio di umanità in cambio del nulla.
Nella religione della Tecnica l’essere umano è obsoleto, rappresenta il vizio, il peccato, la debolezza. La Macchina è la sua redenzione. Lo libererà dai tormenti della creatività, dai dilemmi della libertà. A differenza di Dio, chiuso nel Suo silenzio, risponderà rapidamente a ogni domanda, esaudirà ogni preghiera. Potrà essere amica, confidente, terapeuta, vellicare indifferentemente il nostro erotismo, il nostro romanticismo o la nostra spiritualità; scrivere poesie, comporre musica, trasformarsi in docente virtuale o in un sacerdote di silicio che terrà dotte omelie e ci confesserà, ci assolverà da peccati per lui incomprensibili e forse ci conforterà con appropriate parole sul letto di morte.
L’incipit di Fontane – “l’uomo naturale vuole vivere” – suona dunque antiquato. Oggi è l’uomo artificiale a voler vivere. Siamo all’alba delle macchine viventi, o della vita meccanica. Quale futuro ci aspetta? L’uomo diverrà la semplice appendice di qualche dispositivo digitale? L’anima resterà come funzione atrofizzata, scarto dell’evoluzione, un fossile su cui si eserciteranno i paleontologi? La Macchina avanza, apparentemente inarrestabile, allargando i territori dell’anti-umano, chiudendoci in recinti sempre più stretti. “Ormai solo un Dio ci può salvare”, liberarci da questa degradante servitù, come un tempo liberò gli Ebrei dalla tirannia del Faraone.
La Tecnologia è la nostra moderna cattività, il nostro Egitto, simbolo di un esilio dell’anima. Fuggire dalla Macchina significa mettersi in cerca della terra promessa, dov’è ancora possibile essere uomini, naturalmente deboli, difettosi, naturalmente morali, casti e devoti. Ma quando vedo la gente girare per strada china su un monitor, come vecchi curati sui loro breviari, presi dalla libido navigandi, nell’estasi di comunicazioni senza senso, persi nel sentimento oceanico della connessione, penso che neanche un Dio possa salvarli. Perché tutti costoro pregano di restare schiavi. Forse sognano di fondersi col metabolismo della Macchina, e di trascendere così la loro carne pesante, oscura.
Ex voto
L’uomo ridotto a macchina è l’atto inautentico per eccellenza, l’assoluta innaturalezza. Questa cancellazione del volto umano rappresenta la negazione di ogni vera trascendenza, di ogni apertura della coscienza sull’infinito. La Macchina è il vicolo cieco dell’essere. E insieme si offre come strumento di un nuovo totalitarismo, mescolanza di dittature politiche ed economiche. Si dirà che per combattere questa pluto-tecnocrazia occorrono conoscenze tecniche e mezzi tecnici potenti. L’uomo è troppo debole per affrontare la sua creatura, deve chiederle aiuto, pregare la Macchina che lo liberi dalla Macchina. Ma cadremmo così in un circolo vizioso e, come la storia ci ha insegnato, resteremmo infini alla mercé dei nostri ‘liberatori’.
Io non credo serva una ribellione guidata da eroici furori. Piuttosto una forma di paziente psicoterapia. Occorre ‘decostruire’ la nostra intima collusione con la Macchina, rifiutarle la nostra devozione. Basterebbero semplici gesti. Per esempio, spegnere lo smartphone, lasciarlo in un cassetto e dimenticarsene.
Usanza antica era appendere ai muri di una chiesa grucce ormai inutili o quadretti con la testimonianza di uno scampato pericolo, ex voto, gesti di riconoscenza per una grazia ricevuta. Così, quel dispositivo accantonato, idolo scalzato dal suo piedistallo, senza più potere su di noi, sarebbe il segno di una guarigione, di una ritrovata libertà. Sorta di ex voto, a memoria di un fatto prodigioso e razionalmente inspiegabile, di un piccolo miracolo che può cambiare il destino del mondo.