Filosofia del contatto
di Giorgio Agamben - 06/01/2021
Fonte: Quodlibet
Due corpi sono a contatto quando si toccano. Ma che significa toccarsi? Che cos’è un contatto? Giorgio Colli ne ha dato un’acuta definizione affermando che due punti sono a contatto quando sono separati soltanto da un vuoto di rappresentazione. Il contatto non è un punto di contatto, che in sé non può esistere, perché ogni quantità continua può essere divisa. Due enti si dicono a contatto, quando fra essi non si può inserire alcun medio, quando essi sono cioè immediati. Se fra due cose si situa una relazione di rappresentazione (ad esempio: soggetto-oggetto; marito-moglie; padrone-servo; distanza-vicinanza), essi non si diranno a contatto: ma se ogni rappresentazione viene meno, se fra di essi non vi è nulla, allora e solo allora potranno dirsi a contatto. Ciò si può anche esprimere dicendo che il contatto è irrappresentabile, che della relazione che è qui in questione non è possibile farsi una rappresentazione – o, come scrive Colli, che «il contatto è dunque l’indicazione di un nulla rappresentativo, di un interstizio metafisico».
Il difetto di questa definizione è che essa, in quanto deve ricorrere a espressioni puramente negative, come «nulla» e «non rappresentabile», rischia di sfumare nella mistica. Colli stesso precisa che il contatto può dirsi immediato solo approssimativamente, che la rappresentazione non può essere mai integralmente eliminata. Contro ogni rischio di astrattezza, sarà allora utile tornare al punto di partenza e chiedersi nuovamente che cosa significa «toccare» – interrogare, cioè, quel più umile e terrestre dei sensi che è il tatto.
Sulla natura particolare del tatto, che lo differenzia dagli altri sensi, ha riflettuto Aristotele. Per ogni senso esiste un medio (metaxy), che svolge una funzione determinante: per la vista, il medio è il diafano, che illuminato dal colore, agisce sugli occhi; per l’udito è l’aria, che mossa da un corpo sonoro, percuote l’orecchio. Ciò che distingue il tatto dagli altri sensi è che noi percepiamo il tangibile non «perché il medio esercita un’azione su di noi, ma insieme (ama) al medio». Questo medio, che non è esterno a noi, ma in noi, è la carne (sarx). Ma ciò significa che toccato non è solo l’oggetto esterno, ma anche la carne che ne è mossa o commossa – che, in altre parole, nel contatto noi tocchiamo la nostra stessa sensibilità, siamo affetti dalla nostra stessa ricettività. Mentre nella vista non possiamo vedere i nostri occhi e nell’udito non possiamo percepire la nostra facoltà di udire, nel tatto noi tocchiamo la nostra stessa capacità di toccare ed essere toccati. Il contatto con un altro corpo è, cioè, insieme e innanzitutto contatto con noi stessi. Il tatto, che sembra inferiore agli altri sensi, è, allora, in qualche modo il primo, perché è in esso che si genera qualcosa come un soggetto, che nella vista e negli altri sensi è in qualche modo astrattamente presupposto. Noi abbiamo per la prima volta un’esperienza di noi stessi quando, toccando un altro corpo, tocchiamo insieme la nostra carne.
Se, come si cerca oggi perversamente di fare, si abolisse ogni contatto, se tutto e tutti fossero tenuti a distanza, noi perderemmo allora non soltanto l’esperienza degli altri corpi, ma innanzitutto ogni immediata esperienza di noi stessi, perderemmo cioè puramente e semplicemente la nostra carne".