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Fine partita. Ha vinto la barbarie (II parte)

di Marino Badiale - 19/03/2021

Fine partita. Ha vinto la barbarie (II parte)

Fonte: Badiale & Tringale

5. Non c’è mai stata nessuna rivoluzione

Visto che i ceti dominanti sembrano decisi, al di là di qualche concessione verbale, a proseguire sulla strada del “business as usual”, ci si può chiedere se la speranza di un cambiamento radicale possa basarsi sui ceti dominati, che dopotutto pagheranno per primi e in maniera più pesante il prezzo delle crisi future. Ci chiediamo cioè se è pensabile oggi una rivoluzione anticapitalistica dei ceti subalterni. È inevitabile, per una simile discussione, confrontarsi col significato che “rivoluzione degli sfruttati” ha nella tradizione marxista. Mi sembra che questo significato possa riassumersi nel seguente schema di eventi: i ceti subalterni, in particolare i lavoratori vittima di sfruttamento, esprimono una forza politica che riesce a prendere il potere e avvia una profonda trasformazione della struttura economica della società, che si configura come un cambiamento del “modo di produzione”, impostando e gestendo il superamento del modo di produzione capitalistico e l’instaurazione di una società socialista, cioè basata sulle fondamenta di un modo di produzione appunto socialistico (qualsiasi cosa ciò voglia dire). Questo sarebbe lo schema generale di una “rivoluzione” da parte dei ceti subalterni.

Nella situazione attuale, di fronte all’emergenza delle crisi planetarie ormai incombenti, il “socialismo” di cui si parla dovrebbe essere una forma di “ecosocialismo” del tipo cui si è accennato all’inizio, cioè dovrebbe avere come fine fondamentale una organizzazione della vita sociale tale da fermare il processo di autodistruzione della società umana, che è inevitabile all’interno dei rapporti sociali attuali. Un tale socialismo non potrà quindi perseguire la crescita economica e l’aumento dei consumi come fini in sé ma dovrà sforzarsi di assicurare un livello decente di vita per tutti gli individui, senza spingere lo sfruttamento delle risorse oltre i valori necessari ad ottenere ciò. La domanda da porsi è allora quanto sia realistica una simile prospettiva. Per quanto riguarda tutto il periodo precedente al Novecento, mi sembra si possa affermare che la sequenza di eventi sopra delineata non si è mai vista, e in questo senso di può affermare che “non c’è mai stata nessuna Rivoluzione” (almeno fino al Novecento). Quest’ultima affermazione ha senso, naturalmente, solo se intendiamo “rivoluzione” nel senso sopra indicato. È ovvio che la parola Rivoluzione è molto usata per descrivere una grande congerie di fatti storici, anche molto diversi fra loro. Quello che intendo dire è che in nessun caso si è data, prima del Novecento, una successione di fatti paragonabile a quella sopra delineata. Voglio dire che non s’è mai vista nella storia una presa del potere da parte dei ceti subalterni, o di loro rappresentanti politici, seguita dall’uso del potere così conquistato per avviare un effettivo cambiamento del modo di produzione, cioè della fondamentale struttura della società.

Se pensiamo ai principali casi storici di mutamento del modo di produzione (per esempio il passaggio dal mondo antico al mondo feudale), tali profondi cambiamenti strutturali non sono il risultato intenzionale di progetti politici e azioni politiche, ma nascono da complesse dinamiche storiche largamente sottratte ad una intenzionalità complessiva. In altri casi (tipico quello della Rivoluzione francese) una tale intenzionalità esiste ed effettivamente agisce e produce risultati storici, ma non è espressione degli sfruttati (che nell’Ancién Regime sono i contadini) ma della borghesia, che rappresenta un ceto in un certo senso “interstiziale” rispetto alla struttura feudale. In altri casi ancora (di nuovo si può prendere come esempio il Giappone della fase Meiji) il mutamento è opera dei ceti dirigenti (o di una loro parte). Per quanto riguarda il periodo storico precedente il Novecento mi sembra che in effetti si possa concludere che “non c’è mai stata nessuna rivoluzione”. La questione diventa più complessa e sfumata se esaminiamo la storia del Novecento. Mi sembra che gli unici casi storicamente rilevanti da esaminare siano quelli della rivoluzione russa e della rivoluzione cinese. Gli altri esempi di rivoluzioni socialiste del Novecento non hanno avuto un impatto storicamente rilevante al di fuori dei propri confini, e in molti casi appaiono dipendenti dalle due grandi rivoluzioni sopra indicate: questo è il caso, per esempio, dei regimi socialisti dell’Europa dell’Est, impiantati nei vari paesi dalla forza militare sovietica e crollati subito dopo l’URSS. Ora, per quanto riguarda la Rivoluzione d’Ottobre, il discorso da fare è molto semplice: essa non ha avviato un simile cambiamento, e la fine ingloriosa del “socialismo reale” ne è la certificazione. Preciso che non intendo qui discutere il tema, affascinante e complicato, della “natura sociale dell’URSS” (e in generale, del “socialismo reale”). Intendo semplicemente dire che si è trattato di un esperimento sociale che non ha saputo radicarsi nella storia e non ha quindi indotto una trasformazione complessiva e storicamente rilevante dei fondamenti della società. Per quanto riguarda la Cina, al momento attuale essa appare l’evento storico del Novecento più simile ad una rivoluzione, nel senso in cui l’abbiamo sopra definita: abbiamo cioè un ceto dirigente che esprime certamente le istanze di larghe fasce popolari, conquista il potere politico abbattendo i precedenti ceti dominanti e avvia una trasformazione dei fondamenti economici della società: un autentico cambiamento del modo di produzione. Il punto è se questa trasformazione vada nella direzione di un “ecosocialismo” che, come abbiamo detto all’inizio, rallenti e inverta il procedere dell’umanità verso la distruzione della natura e il collasso sociale. Ebbene, sembra abbastanza chiaro che la società cinese, qualunque sia la sua natura, non sta andando nella direzione auspicabile, ma sta semplicemente inseguendo le società occidentali sul terreno di uno sviluppo economico distruttivo [21]. Data la forza dell’economia cinese, e la sua potenza demografica, la società cinese si avvia ad essere uno dei principali fattori della crisi ecologica ormai avviata. I critici marxisti dell’esperienza cinese, e in generale del “socialismo reale”, potrebbero obbiettare che in questo caso non si tratta di “vero socialismo”. Ma la risposta allora è molto semplice: o i regimi del “socialismo reale” sono (o erano) effettiva espressione dei ceti subalterni, e allora non c’è da sperare che da tali ceti arrivi il cambiamento in senso ecologico della società; oppure non lo sono (non lo erano), ma allora questo vuol dire che i ceti subalterni non si sono mai dimostrati capaci di avviare una trasformazione profonda come quella oggi necessaria, e la tesi che “non c’è mai stata nessuna rivoluzione” in questo caso sarebbe valida anche per il Novecento. Le considerazioni fin qui svolte di per sé non annullano la possibilità di una futura rivoluzione ecosocialista. Il fatto che finora una tale eventualità non si sia data, non sembrerebbe proibire in assoluto che essa possa darsi in futuro. Credo invece che questa eventualità si possa escludere, e questo, mi sembra, emerge con chiarezza se riflettiamo sul perché in passato non c’è mai stata nessuna rivoluzione. È chiaro a tutti, infatti, che i ceti subalterni, i lavoratori ai livelli inferiori della società, sono stati sempre in grado di ribellarsi e di lottare per la difesa dei propri diritti. In ogni società data il ruolo del lavoratore produttivo fornisce un ruolo e un riconoscimento sociale, un senso della propria dignità e dei propri diritti (per quanto ristretti e limitati dalle tradizioni), una rete di relazioni, una potenziale capacità di solidarietà interna al proprio ceto. Tutti questi elementi rendono possibile la lotta di gruppi sociali ampi e solidali, quando le vicende storiche mettono in questione quelli che i ceti subalterni considerano diritti irrinunciabili. Di qui le rivolte, le sollevazioni, gli scioperi, che hanno punteggiato l’intera storia umana, almeno da quando esistono classi sociali differenziate per potere e status sociale. Il punto cruciale è però il seguente: gli elementi che abbiamo sopra elencato, e che rappresentano le condizioni di possibilità di rivolte e ribellioni da parte dei lavoratori sfruttati, sono esattamente ciò che spiega perché sia impossibile una autentica rivoluzione da parte di questi ultimi. Infatti essi sono elementi di forza, di solidarietà, di senso, che possono esistere solo all’interno dei rapporti di produzione dati; distruggere i rapporti di produzione dati significa quindi cancellare tutti quegli elementi che rendono possibili le rivolte dei ceti subalterni. Pensare che una rivolta possa crescere fino ad arrivare ad un punto di svolta che neghi le proprie stesse condizioni di possibilità mi sembra contraddittorio. E se questo è vero per le lotte dei lavoratori sfruttati in tutta la storia, è ancora più vero nelle società capitalistiche, specie nella contemporaneità. La classe operaia, la classe produttiva e sfruttata nel modo di produzione capitalistico, ha ancora meno capacità rivoluzionarie (nel senso sopra indicato) delle altre classi sfruttate della storia, perché è minore la sua capacità di controllo del processo produttivo. I contadini medievali controllano l’intero processo produttivo, e il dominio che si esercita su di essi è esterno alla sfera produttiva vera e proprio. Gli operai nel capitalismo sono continuamente espropriati delle loro competenze e ruoli produttivi da un processo di innovazione tecnologica e produttiva sempre più veloce, che impedisce la sedimentazione di conoscenze, di potenzialità di controllo da parte dei lavoratori [22]. Certo, ad ogni nuova fase tecnologico-produttiva del capitale la lotta operaia risorge in nuove forme, ma tali lotte manifestano sempre la stessa incapacità storica di crescere in moti rivoluzionari (a costo di generare noia nel lettore, ribadisco ancora una volta che parlando di “rivoluzione” mi riferisco al senso specifico sopra indicato). Così, negli ultimi decenni si è teorizzato il “capitalismo cognitivo” e si è pensato che il corrispondente nuovo “proletariato cognitivo” fosse finalmente il soggetto sociale capace di gestione complessiva della società. Ovviamente non è andata così [23]: al contrario, tutto il sapere della nostra epoca, compreso quello del “proletariato cognitivo”, è specialistico, frammentato e in via di sempre ulteriore frammentazione, incapace di una visione complessiva, e il “proletariato cognitivo” ricalca l’individualismo e l’accettazione dell’esistente, tipico delle ideologie oggi dominanti. Il dominio del capitale e l’incapacità dei ceti subalterni di opporsi ad esso è legato al fatto che la sussunzione di ambiti sociali sempre più ampi alla logica del capitale genera un processo di trasformazione continua delle relazioni fra le persone, di “distruzione creativa” del legame sociale. Di conseguenza, non riescono a sedimentarsi quei legami di solidarietà che in passato hanno rappresentato la base antropologica delle lotte degli sfruttati. Invece di essere unificati dalla condizione di lavoratori produttivi, gli sfruttati si appiattiscono sui modelli antropologici funzionali all’attuale strutture sociale. In altri termini, se in passato “non c’è mai stata nessuna rivoluzione”, è ancora più improbabile che essa si dia oggi.

6. Sussunzione al capitale e distruzione del legame sociale

Le argomentazioni svolte nelle righe che precedono rimandano all’idea che il capitalismo attuale sia spinto da una dinamica che lo porta ad estendere la propria logica all’intero complesso della società, e che questa “sussunzione” porti alla dissoluzione del legame sociale. Si tratta di una tematica ampia e complessa, che non possiamo approfondire in questa sede. Rimando per approfondimenti ai testi di Massimo Bontempelli [24]. Mi limito qui a riprendere alcune osservazioni di W.Streeck [25], che nota come, nel secondo dopoguerra, la società del benessere diffuso abbia avuto come modello antropologico fondamentale quello del consumatore, e come entro tale modello l’interazione dialogica, che è fondamento della socialità umana, diventi secondaria: “questo perché in una società affluente avanzata, comprare qualcosa non implica nient’altro che prendere ciò che ti piace di più (e che ti puoi permettere) da ciò che, in linea di principio, è un menù infinito di alternative che attendono la tua decisione, senza nessun bisogno di negoziare o cercare compromessi, come si doveva fare all’interno delle relazioni sociali tradizionali. (…) La socializzazione tramite il consumo, di conseguenza, è monologica piuttosto che dialogica (p.110)” [26]. Se accettiamo queste analisi, siamo fortemente indotti a pensare che il dominio tendenzialmente totalitario della logica capitalistica debba portare alla distruzione del legame sociale, ad una atomizzazione degli individui sempre più approfondita. È facile allora concludere che la nostra società di individui isolati, incapaci di relazioni comunitarie, il cui modello fondamentale di relazione col mondo è quello del consumatore, può esistere solo grazie al rifornimento costante di merci. Cosa possa succedere se questo flusso dovesse interrompersi, lo ha ben descritto D.Orlov [27], articolando con molta chiarezza il susseguirsi di vari stadi di crisi fino alla dissoluzione finale della società così come oggi la conosciamo. Se guardiamo ai recenti avvenimenti che hanno sconvolto gli USA, con l’invasione di Capitol Hill da parte di manifestanti pro-Trump, la disgregazione del legame sociale appare con molta evidenza. Ovviamente tali avvenimenti sono solo la punta dell’iceberg di una frattura sociale estremamente profonda e, così sembra, ormai radicata in profondità nella società americana. Non possiamo prevedere il futuro, naturalmente, ma gli USA sembrano rappresentare l’avanguardia di una disgregazione che arriverà a toccare l’intero Occidente, che non sembra possedere anticorpi contro tale processo degenerativo.

Da questo punto di vista sembrerebbe che società meno individualiste della nostra, come quelle orientali, possano resistere meglio. Il punto è che anche tali società hanno accettato l’aspetto fondamentale del nostro mondo, cioè il fatto di basare la propria legittimazione sulla crescita del PIL e dei consumi, e di fronte all’impossibilità di proseguire su questa strada si troveranno di fronte a problemi non troppo diversi da quelli che oggi affliggono gli USA. L’intero nostro mondo globalizzato dovrà affrontare un percorso come quello descritto da Orlov nel libro citato. Solo alla fine di questo percorso distruttivo, solo quando diventeranno adulte generazioni che avranno sperimentato sulla propria pelle l’insostenibilità ecologica e antropologica della società attuale, solo allora si potrà ripartire dalle macerie e iniziare a ricostruire forme di convivenza.

 7. Impotenza ed illusioni della critica

La nozione, introdotta nella sezione precedente, di una diffusione molecolare della logica capitalistica in ogni ambito della società, e nella stessa costituzione della personalità umana, mi sembra in grado di fornire uno schema generale di comprensione della realtà attuale. In particolare essa ci illumina sull’impotenza e le illusioni del pensiero critico. Il punto decisivo è che le tante correnti attuali del pensiero critico appaiono, da molti punti di vista, subalterne rispetto alle categorie del dominio totalitario del capitale nella realtà contemporanea. Sembra valida qui l’osservazione di Hegel secondo il quale “un partito si rivela dunque come vincitore solo perché si scinde a sua volta in due partiti; così, infatti, esso mostra di possedere in se stesso il principio che prima combatteva”[28].

Parlando di “impotenza” non intendo dire che queste teorizzazioni siano del tutto inutili o sbagliate. L’ambito del “pensiero critico” nel mondo contemporaneo è amplissimo e include le idee e teorizzazioni più diverse. Vi si può trovare un po’ di tutto, e certamente vi sono anche elaborazioni importanti e approfondite, dalle quali fra l’altro chi scrive ha imparato molte cose. Intendo piuttosto dire che il pensiero critico è largamente incapace di focalizzare i punti fondamentali del dominio tendenzialmente totalitario del capitale, e non appare quindi in grado di elaborare una strategia politica incisiva [29]. A questa impotenza esso risponde coltivando illusioni sulla capacità dei ceti subalterni di combattere la distruttività del capitale, e abbiamo già discusso questa illusione. Proviamo adesso a illustrare queste tesi esaminando alcuni aspetti del pensiero critico attuale. Una sua analisi accurata richiederebbe ovviamente un lavoro a sé, per cui ci limitiamo a qualche esempio. È noto che una delle tesi fondamentali del marxismo, inteso come teoria della rivoluzione, è quella secondo cui il capitalismo genera al proprio interno la classe sociale destinata ad abbatterlo e a costruire al suo posto la superiore società socialista. Questo assunto fondamentale porta a conseguenze complesse. Esso implica una visione articolata dello sviluppo capitalistico: da una parte quest’ultimo è chiaramente sfruttamento e alienazione (e distruzione dell’ambiente, possiamo aggiungere oggi), ma dall’altra porta con sé un elemento di progresso perché è da esso che nasce e si sviluppa la classe autenticamente rivoluzionaria. Non è questo luogo per ricostruire la storia, complessa e affascinante, dei dibattiti che attorno a questi temi si sono svolti, all’interno del marxismo. Il punto cruciale sta in questo: mi sembra possibile oggi argomentare, come si è fatto sopra, che la creazione della classe rivoluzionaria all’interno dello sviluppo capitalistico è un mito consolatorio con il quale generazioni di benintenzionati militanti si sono consolati delle proprie sconfitte. Ma se si toglie questo elemento, cosa resta della raffinata dialettica cui si è accennato? Cosa diventa il particolare “appoggio critico allo sviluppo capitalistico” che generazioni di marxisti hanno scelto come strategia, sperando di affrettare così il passaggio rivoluzionario? La risposta è abbastanza ovvia: resta semplicemente l’appoggio allo sviluppo capitalistico, spogliato di orpelli ideologici. Il fatto che si tratti di una conseguenza logica stringente lo si evince facilmente notando come tale deriva riguardi tutte le varie anime della sinistra, sia quella “moderata” sia quella “radicale”: nella prima l’adesione allo sviluppo capitalistico, con le sue conseguenze distruttive dei legami sociali e della natura, è piena e convinta, mentre l’idea di un superamento del capitalismo stesso è ormai rimossa; nella sinistra radicale permane il “wishful thinking” tipico del marxismo, per cui, quando si cercano vie effettive per l’azione politica, si finisce sempre per appoggiare le politiche filocapitalistiche della sinistra liberale, e ci si nasconde questo appoggio sostanziale con l’elaborazione ideologica che lo sviluppo capitalistico favorirà il sorgere di soggettività antagonistiche [30]. Questo tipo di evoluzione ideologica si è estesa a ogni ambito di quello che oggi si pretende “pensiero critico”, anche quando non abbia rapporti diretti con la tradizione marxista. Per esempio, essa è chiaramente percepibile in quelle correnti che oggi vengono raggruppate sotto l’etichetta di “accelerazionismo” [31]. Tali correnti mostrano con chiarezza il limite del pensiero critico contemporaneo: esso crede di essere alternativo al capitalismo ma in realtà ne è egemonizzato, perché non fa altro che esprimere, in maniera diversa rispetto al pensiero mainstream, la stessa esigenza di fondo, cioè quella di continuare sulla strada dello sviluppo capitalistico. Si capisce allora quale sia la funzione di tale pensiero, e perché ad esso si lasci largo spazio nell’industria culturale contemporanea: la sua funzione è appunto quella di occupare, all’interno del mondo contemporaneo, lo spazio dell’opposizione e della critica al pensiero dominante, in maniera da rendere questo spazio innocuo e da impedire la possibilità di elaborazione di un pensiero veramente critico. È questo l’aspetto fondamentale di tutte le correnti del pensiero contemporaneo che si possono classificare sotto la generica etichetta di “postmodernismo”: esso non fanno che riscrivere sul piano teorico quello che il capitalismo fa sul piano pratico (per esempio la dissoluzione della soggettività, lo svuotamento della dimensione politica), suggellando quindi la dimensione attuale del potere con i caratteri dell’intrascendibilità. In questo modo, come si diceva, lo spazio di un possibile pensiero critico viene occupato da innocue affabulazioni. Un altro aspetto di illusione e impotenza del pensiero critico contemporaneo sta nella speranza che la crisi incipiente dell’attuale civiltà possa portare al superamento dell’individualismo estremo che la caratterizza e alla nascita di un mondo basato su comunità solidali. Si tratta di un’idea generale che si può ritrovare anche nelle teorizzazioni ecosocialiste citate all’inizio. Ora, non si può escludere a priori una evoluzione in questo senso, almeno in qualche situazione, ed è molto probabile in effetti che il collasso futuro porterà al superamento dell’attuale individualismo e all’instaurarsi di organizzazioni sociali fondate su cellule di tipo comunitario. Il problema è che, purtroppo, niente assicura che questo avverrà nel rispetto della vita e dei diritti delle persone. Se è vero infatti che la dimensione comunitaria ha un carattere fondativo dell’umanità dell’essere umano, questo non implica che ogni comunità sia un ambiente benevolo per la vita umana. Anche la relazione sessuale è una dimensione fondativa della nostra umanità, ma questo non toglie che vi possano essere relazioni distruttive e malate (“tossiche”, come si dice adesso). Allo stesso modo vi possono essere comunità “tossiche”, malate, distruttive. E niente ci garantisce che questo tipo di comunità sia escluso come possibile esito della futura crisi di civiltà. Specialmente tenendo in considerazione le condizioni drammatiche in cui avverrà tale crisi e il passaggio a nuove forme di organizzazione sociale. Il collasso sociale generalizzato, con il suo portato di penuria e violenza, non è l’ambiente migliore per la costruzione di relazioni umane serene, rispettose e costruttive. Vi sarebbero ovviamente da esaminare molti altri aspetti del pensiero critico contemporaneo, per esempio la questione del “politicamente corretto”: per alcune analisi su questo tema rimando a miei precedenti interventi [32], ripromettendomi di tornare su di esso in futuro.

 8. Niente, oppure tutto.

Siamo giunti alla fine di questa esposizione degli argomenti che mi portano ad affermare che “ha vinto la barbarie” e che lo sviluppo più probabile della nostra realtà sociale sia quello che la porterà, nei prossimi decenni, ad un collasso generalizzato. È inevitabile che chi sviluppa queste argomentazioni si senta obiettare che esse sembrano invitare alla rassegnazione e alla smobilitazione: se non è più possibile evitare il collasso, a che servono proteste e manifestazioni? È questo il tema al quale nella tradizione marxista si allude con l’espressione “Che fare?”, titolo di un romanzo dello scrittore russo Cernisevskij, poi ripreso da Lenin per un suo celebre testo. Cosa c’è da fare, qui ed ora? La risposta è semplice ma duplice: niente, oppure tutto. Dipende naturalmente da quali fini ci si propone. Se si pensa di evitare il crollo rovinoso dell’attuale civiltà, allora non c’è davvero niente da fare, per i motivi sui quali ci siamo fin qui dilungati. Ma se si prende atto di questa inevitabilità, allora si capisce che in realtà c’è tutto da fare. Si tratta di salvare quanto più possibile, fra ciò che riteniamo degno di essere salvato, e di portarlo all’imprevedibile futuro. Non possiamo sapere quale sarà la forma di relazioni umane che si instaureranno dopo il collasso, ma in qualche modo esse dovranno costruirsi, come è sempre stato in questi casi, a partire dai materiali disponibili della civiltà precedente. E sta a noi cercare di consegnare al futuro quanto più possiamo della nostra civiltà. Pensieri, diritti, opere d’arte, opere letterarie, musica, scienza, le Costituzioni democratiche, lingue, forme di socializzazione, cibi, i tesori delle civiltà del passato, e così via. C’è davvero un enorme lavoro da fare. Dobbiamo portare al futuro i mattoni con cui i nostri discendenti possano costruire un mondo più sensato.

Note
[1] “La società borghese si trova davanti a un dilemma, o progresso verso il socialismo o regresso nella barbarie”. Si tratta di un passo da “La crisi della socialdemocrazia”, testo scritto in carcere nel 1915, che cito da R.Luxemburg, Scritti politici, Editori Riuniti 1974, p.447. Luxemburg attribuisce lo slogan a Friedrich Engels, ma sembra si tratti di un errore di memoria, dovuto al fatto che in carcere non poteva controllare i testi. La formula risale invece a Karl Kautsky, ma è solo grazie alla vigorosa formulazione di Rosa Luxemburg che essa è diventata famosa. La vicenda di questo “riferimento sbagliato” è analizzata nel seguente articolo di Ian Angus:
https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2016/02/22/le-origini-dello-slogan-socialismo-o-barbarie-di-rosa-luxemburg/
Ian Angus è lo stesso teorico ecosocialista autore del testo citato alla nota [4].
[2] In particolare: http://www.badiale-tringali.it/2016/01/la-grande-estinzione-delle-speranze-i.html,
http://www.badiale-tringali.it/2019/09/siamo-vicini-al-collasso.html,
http://www.badiale-tringali.it/2019/12/sulle-elite-contemporanee.html
[3] http://www.badiale-tringali.it/2020/06/riflessioni-su-sinistra-radicale-e.html#comment-form, in particolare la sezione III.
[4] I.Angus, Anthropocene, Asterios 2020; D.Tanuro. È troppo tardi per essere pessimisti, Alegre 2020; F.Magdoff, J. Bellamy Foster, What every environmentalist needs to know about capitalism, Monthly Review Press 2011; J.Bellamy Foster, B.Clark, R.York, The ecological rift, Monthly Review Press 2010; F.Magdoff, C.Williams, Creating an ecological society, Monthly Review Press 2017.
[5] J.Tainter, The collapse of complex societies, Cambridge University Press 1988. Il collegamento con le preoccupazioni attuali sulla sorte della nostra civiltà è indicato già nelle prime pagine dell’introduzione.
[6] P.Servigne, R.Stevens, Comment tout peut s’effondrer, Seuil 2015.
[7] Il sito è https://collapsologie.fr/fr/ Vi si può trovare una bibliografia aggiornata sia di libri sia di articoli scientifici. La rivista ha come titolo “Yggdrasil” (nelle mitologie nordiche, è il nome dell’albero cosmico), si può consultarne il sito: https://yggdrasil-mag.com/. Fra i molti libri francesi sull’argomento si possono leggere, oltre al testo fondamentale di Servigne-Stevens citato alla nota precedente, i testi seguenti: J.M.Gancille, Ne plus se mentir, Rue de l’échiquier 2019; P.Servigne, R.Stevens, G.Chapelle, Une autre fin du monde est possible, Seuil 2018 (tr.it. Un’altra fine del mondo è possibile, Treccani 2020); Y.Cochet, Devant l’effondrement. Les liens qui libèrent 2019; R.Duterme, De quoi l’effondrement est-il le nom? Les Éditions Utopia 2018.
[8] Sul tema dei rendimenti decrescenti si può vedere M.Bonaiuti, La grande transizione, Bollati Boringhieri 2013, in particolare il capitolo 3.
[9] Per una discussione approfondita della nozione di EROEI si veda C.A.S.Hall, K.Klitgaard, Energy and the wealth of nations, Springer 2018, in particolare la sezione V.
[10] Il rapporto del Club di Roma risale al 1972. In Italia venne tradotto col titolo “I limiti dello sviluppo”. Recentemente è stata pubblicata una nuova edizione italiana, con un titolo più aderente all’originale: D.H.Meadows, D.L.Meadows, J.Randers, W.W.Behrens III, I limiti alla crescita, Lu::Ce Edizioni 2018.
Nel testo faccio però riferimento alla versione rivista e aggiornata, uscita a trent’anni di distanza dal primo volume. L’edizione italiana è la seguente: Donella Meadows, Dennis Meadows, Jorgen Randers, I nuovi limiti dello sviluppo, Mondadori 2006. Si veda in particolare il capitolo 6, nel quale si ipotizzano futuri miglioramenti tecnologici che permettono di procrastinare un poco il collasso dell’attuale organizzazione sociale.
[11] Rockström, J., W. Steffen, K. Noone, Å. Persson, F. S. Chapin, III, E. Lambin, T. M. Lenton, M. Scheffer, C. Folke, H. Schellnhuber, B. Nykvist, C. A. De Wit, T. Hughes, S. van der Leeuw, H. Rodhe, S. Sörlin, P. K. Snyder, R. Costanza, U. Svedin, M. Falkenmark, L. Karlberg, R. W. Corell, V. J. Fabry, J. Hansen, B.Walker, D. Liverman, K. Richardson, P. Crutzen, J. Foley
Planetary boundaries:exploring the safe operating space for humanity.
Ecology and Society 2009, 14(2): 32.
URL: http://www.ecologyandsociety.org/vol14/iss2/art32/
Gli stessi autori hanno anche pubblicato su Nature una versione più breve:
A safe operating space for humanity
Nature, 461, 24 September 2009, p.472-475.
[12] W. Steffen et al., Science 347, 1259855 (2015). DOI: 10.1126/science.1259855;
Si veda anche J.Rockström, “Bounding the Planetary Future: Why We Need a Great Transition,” Great Transition Initiative (April 2015).
[13] Alcuni interventi relativi alle discussioni sulla “stagnazione secolare” sono raccolti in F.Menghini (cura di), La stagnazione secolare. Ipotesi a confronto (goWare 2018). Si veda anche S.Das, The Age of Stagnation (Prometheus Books 2016).
[14] Non abbiamo per esempio citato il pericolo di nuove epidemie globali, dopo quella generata dal virus SARS-CoV-2 che sta tuttora colpendo in tutto il mondo. Ricordo solo, in maniera telegrafica, che, qualunque sia l’origine dell’attuale pandemia, la probabilità del diffondersi di questo tipi di flagelli è collegata a specifici aspetti della nostra organizzazione economica e sociale, in particolare l’invasione di sempre nuove aree di foresta tropicale e la diffusione dei viaggi intercontinentali. Sul tema si veda il seguente testo, che in seguito all’epidemia ha conosciuto un meritato successo : D.Quammen, Spillover, Adelphi 2014.
[15] J.Diamond. Collasso, Einaudi 2014. Si veda anche: Id., Crisi, Einaudi 2019.
[16] G.D.Middleton, Understanding collapse, Cambridge University Press, 2017.
[17] P.Wadhams, Addio ai ghiacci, Bollari Boringhieri 2017;
[18] Si vedano J.M.Valantin, Géopolitique d’une planète déréglée, Seuil 2017, cap.3; M.T.Klare, All hell breaking loose, Henry Holt and Company 2019, cap.5.
[19] Sulla “Belt and Road Intiative” (nota in italiano come “Nuova Via della Seta”) si veda la voce di wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Belt_and_Road_Initiative, ed anche il cap.4 del testo di J.M. Valantin citato alla nota precedente. Recentemente si è avanzato il sospetto che il governo cinese stia ridimensionando l’iniziativa: https://www.linkiesta.it/2020/12/cina-nuova-via-seta-financial-times-prestiti-banca/
[20] https://www.huffingtonpost.it/2018/01/31/valentina-sumini-sono-un-cervello-in-fuga-e-al-mit-progetto-un-citta-su-marte-spero-di-tornare-ma-allitalia-mancano-i-mezzi_a_23345307/
Altre interviste e articoli su questi temi:
https://www.primonumero.it/2021/01/una-citta-su-marte-la-nasa-sceglie-il-progetto-dellarchitetto-campobassano-calabrese/1530647364/
https://www.corriere.it/cronache/20_ottobre_08/candidata-italiana-guida-dell-esa-dallo-spazio-soluzioni-un-futuro-sostenibile-terra-8aca3880-09a1-11eb-86e2-3854c59f54db.shtml
J.Proschold, Due architetti sulla Luna, Internazionale 1372, 21 agosto 2020, p.54.
[21] Si veda R.Smith, China’s engine of environmental collapse, Pluto Press 2020, per una rassegna approfondita dei disastri ecologici derivati dal poderoso sviluppo economico cinese.
[22] Le analisi e le discussioni dei marxisti su questi temi riempiono intere biblioteche. Poiché non mi interessa addentrarmi in queste discussioni, ma solo rimarcare il concetto di base che ho espresso, mi limito a rimandare a un testo riconosciuto come un “classico” della riflessione marxista: H.Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi 1978.
[23] Per una approfondita critica alle tesi ottimistiche sul “proletariato cognitivo” si vedano i testi di Carlo Formenti: C.Formenti, Utopie letali, Jaca Book 2013; Id. Felici e sfruttati, Egea 2011; Id., Cybersoviet, Cortina 2008.
[24] Si veda il saggio “Capitalismo, sussunzione, nuove forme della personalità”:
https://www.sinistrainrete.info/marxismo/1503-massimo-bontempelli-capitalismo-sussunzione-nuove-forme-della-personalita.html
e inoltre i testi raccolti in M.Bontempelli, Un pensiero presente, Indipendenza-Editore Francesco Labonia 2014, in particolare “Capitalismo e personalità antropologiche”, pagg.49-62.
[25] W.Streeck, How will capitalism end? Verso 2016.
[26] Mia la traduzione. (M.B.)
[27] D.Orlov, The five stages of collapse, New Society Publishers 2013
[28] G.W.F Hegel, Fenomenologia dello spirito, Rusconi 1995, pag.773. Hegel sta parlando qui dell’Illuminismo.
[29] Questo, per fare un esempio, è uno dei limiti evidenti dei testi ecosocialisti citati nella nota [4]: essi contengono analisi incisive della società contemporanea e interessanti abbozzi di una possibile società ecosocialista, ma mancano completamente di una strategia politica effettiva. Spero che quanto argomento nel testo chiarisca che considero questo fatto non una mancanza degli autori ma una conseguenza inevitabile della realtà data.
[30] Per ulteriori osservazioni su questi punti rimando al mio intervento citato nella nota [3].
[31] A.Williams, N.Srnicek, Manifesto accelerazionista, Laterza 2018.
[32] http://www.badiale-tringali.it/2020/03/la-commissione-dellamore-e-la-fine-del.html,
http://www.badiale-tringali.it/2019/12/sulle-elite-contemporanee.html,
http://www.badiale-tringali.it/2020/06/la-millenaria-oppressione-delle-donne.html,
http://www.badiale-tringali.it/2020/08/femminismo-anticapitalista.html
Alcuni testi recenti di critica del politicamente corretto sono i seguenti: A.Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi 2020 (soprattutto la parte finale); J.Friedman, Politicamente corretto, Meltemi 2018; F.Marchi, Contromano, Zambon, 2018; R.Della Vecchia, Questa metà della terra (reperibile gratuitamente in rete:https://altrosenso.wordpress.com/qs-meta-della-terra/). Agli anni Novanta risale invece l’edizione originale dell’interessante testo di R.Hughes, La cultura del piagnisteo, Adelphi 2003.