Stigma. Fingere, e fingeremo
di Marcello Veneziani - 17/11/2024
Fonte: Marcello Veneziani
E oggi chi sbraniamo a pranzo e a cena? Oggi è il turno di Raffaele Fitto, ieri Elon Musk, poi Sergio Castellitto… Non passa giorno che non ci sia qualcuno da rosolare sulla brace, dopo averlo abbondantemente farcito di insulti e maledizioni.
Ogni tanto le iene sollevano il muso dalla vittima e ululano soddisfatte, come il titolo su la Repubblica: “è caduto un altro pezzo”. Forza, andiamo avanti. E nella pagina a fianco, come al tiro al segno, c’è un cerchio con tutti i prossimi bersagli da far cadere, coi loro nomi, incarichi e fotine già pronte per la lapide. Troveranno nel corso dei giorni una loro dichiarazione da stigmatizzare, un punto debole, una nomina o un uso del potere esattamente uguale a quello dei loro predecessori ma fatta da loro imperdonabile, imbarazzante, irregolare; da farlo dimettere d’urgenza.
La catena di montaggio solitamente funziona automaticamente, e quando l’arco è davvero completo, va da Dagospia a Mattarella, tutore e amministratore di sostegno della sinistra, passando per una serie di anelli che si aggregano spontaneamente ma puntualmente: programmi televisivi, dichiarazioni di politici, attacchi sui giornali, alcuni espliciti, altri subdoli.
Una macelleria ormai riconosciuta che sbrana la vittima del giorno in otto lacerti e mezzo, è gestita da Lilli Gruber, che quando invita direttamente in studio l’oggetto del massacro, come Salvini l’altra sera, non gli fa mai finire una frase, perché lo prende a morsi dal vivo.
Ho volutamente messo insieme, sulla stessa graticola, soggetti diversi e storie diverse, politici nostrani, imprenditori globali, attori alle prese con un pubblico incarico per affrontare un tema doppio, che rischia di essere il tema cornuto dei nostri giorni.
Da quando è al governo la Meloni, e peggio da quando ha vinto Trump negli Stati Uniti è in vigore una pratica rituale e bestiale: lo stigma quotidiano. Ogni giorno c’è un evento, un personaggio, una parola, una dichiarazione da stigmatizzare, cioè da bollare con marchio d’infamia e relativa condanna. In mancanza di carne viva si va sulla carne morta, e lo stigma riguarda un anniversario, una ricorrenza o un’intervista che deve comunque ricorrere allo stigma per accreditarsi, dichiarando che lui era da sempre, e se non lui suo padre, suo nonno, il suo compare di battesimo, dalla parte dei buoni contro i cattivi. Era vittima o rifugiava in casa le vittime, era combattente, era dissidente, ma di quelli coraggiosi, anche se le sue imprese si conoscono con un secolo di ritardo.
Tutto ruota intorno allo stigma. La politica e la chiacchiera mediatica, a volte anche giudiziaria, si fa solo sullo stigma. Dacci oggi lo stigma quotidiano. Altri penseranno a rendere concreto lo stigma rosolando sulla brace il caprone espiatorio del giorno. Il mondo si divide tra chi stigmatizza e chi è stigmatizzato.
Qual è la sostanza dello stigma? Di solito non c’è una sostanza, non c’è un fatto, c’è solo un’opinione. La politica, la polemica, la richiesta di condanna ed epurazione, è nella gran parte dei casi scaturita da un’opinione, da una citazione, da una parola che non è piaciuta agli woke trotter dell’Inquisizione. Impiccati a una frase, condannati per la vita.
Ora spostiamoci sui cittadini. Accendono la tv, seguono il tg o un programma di approfondimenti, un talk show, o addirittura leggono un giornale, a volte persino andando in edicola a comprarlo, e vogliono sapere cosa è successo, che sta facendo la politica. E invece no, la politica non sta facendo, sta solo dividendosi sulla parola, sulla dichiarazione preliminare, sulla citazione improvvida. Scorrono i dichiaranti da tg, con fiumi di filastrocche pro e contro la parola infame. Mai i fatti, solo parole, intenzioni.
Vi pare normale, ad esempio, che per tre giorni venga inscenata una fiction fanta-sovranista per chiamare a raccolta la patria intera, dal gossip al Quirinale, contro la lesa sovranità per un tweet, dico un tweet, di Musk? Qualcuno ci sta calpestando, colonizzando, ci stanno costringendo a seguire gli ordini venuti da centrali internazionali, banche, commissariamenti, comandi militari, superpotenze straniere? Certo, è così, però nessuno denuncia l’asservimento. Quel che si denuncia è un tweet, dico un tweet in libertà, di Musk. Un’opinione che non produce nessun effetto, se non i “like” dei follower o i dislike dei contrari. Cosa volete che cambi un’opinione di Musk sui nostri giudici? Che si dimettono impauriti, che vengono cacciati con decreto di governo? O che vengono piuttosto decorati perché nonostante la loro opera di boicottaggio sistematico della sovranità nazionale e popolare, passano loro per martiri eroici della patria calpestata?
Ma tutto, ripeto, si riduce a parole. Words words words, scriveva Shakespeare che aveva già capito l’andazzo con secoli d’anticipo.
Il risultato è che la politica non si occupa di fatti ma solo di intenzioni in forma di parole. L’opposizione grida “è una vergogna”, i giudici bloccano l’azione di governo, e il governo mira all’incasso del divieto: noi vorremmo fare, abbiamo le migliori intenzioni, ma non ce lo fanno fare. Noi vorremmo fare il piano immigrati, il piano Mattei, il piano riforma pubblica o culturale, la tassa extraprofitti ci abbiamo provato ma è impossibile. Sicché la gente anziché scegliere tra governo e opposizione sulla base dei fatti, deve scegliere sulla base delle intenzioni. Alla fine, i governi non cadono, il consenso nemmeno, e si va avanti così nell’inconcludenza bilaterale, punto di convergenza tra lo stigma e il freno.
A quel punto, come prescrive il vero ideologo del nostro Paese, il Brighella di Carlo Goldoni, “quando la casa brucia voglio scaldarmi anch’io”. Ovvero, i pochi nominati che si salvano dall’ecatombe sono quelli che traggono profitto dall’incendio o meglio si eclissano, tacciono, non pensano minimamente di cambiare il corso delle cose, tantomeno di cimentarsi nelle nomine nel segno della discontinuità; ma fanno esattamente come i loro predecessori, continuano la loro linea, non osano contraddire le idee, i criteri e i nominati. Così sono al sicuro da ogni attentato di stampo mafioso e da ogni brace. E così si va avanti tra lo stigma della sinistra mediatico-giudiziaria e i “vorrei ma non me lo fanno fare” della destra di governo. Il punto di compromesso è nel non-fare.
Morale della favola: non conta più l’essere e l’agire né la verità e la realtà, ma lo stigma e l’apparenza. Fingere, e fingeremo.