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Game over

di Enrico Tomaselli - 10/04/2025

Game over

Fonte: Giubbe rosse

Se osserviamo l’attuale fase macro geopolitica, fondamentalmente caratterizzata dal manifestarsi del declino occidentale, è possibile notare che la politica strategica adottata da quella che era la potenza-fulcro dell’occidente, ovvero gli Stati Uniti, è caratterizzata da una contraddizione fondamentale. L’obiettivo strategico statunitense, infatti, non è semplicemente quello di rallentare il declino, o di limitarne la portata, ma quello di invertirne il corso, di ricostituire e riaffermare la posizione egemonica nordamericana sul resto del mondo. E, date le attuali condizioni dell’impero americano, questo richiede tempo. Rimettere la potenza statunitense in condizione di affrontare e vincere i paesi che ne sfidano l’egemonia, impone la necessità di guadagnare tempo. Sotto questo profilo, la scelta operata dal blocco di potere che ha preso la guida degli USA è quella di cercare di dividere questi paesi – in particolare quelli più agguerriti – sia per cercare di sconfiggerli separatamente, uno alla volta, sia per impedire che la consapevolezza della forza derivante dalla loro sommatoria li induca invece a colpire per primi.

Ma – ed è questa la contraddizione di cui si diceva – nel fare ciò Washington sta imponendo una accelerazione generalizzata. Apparentemente, le due cose potrebbero apparire addirittura coerenti: non ho molto tempo a disposizione, quindi velocizzo la mia azione. Ma, ovviamente, questo potrebbe valere se la scarsità di tempo fosse dovuta esclusivamente a fattori oggettivi esterni, mentre invece nel caso degli Stati Uniti il tempo necessario dipende da una condizione soggettiva (il declino), il cui processo di recupero non può essere accelerato. L’obiettivo strategico è conseguibile solo ottenendo più tempo per ripristinare condizioni operative sufficienti, e quindi l’azione dovrebbe concentrarsi sulla dilatazione temporale, sul rallentamento dei processi globali, e contemporaneamente sull’impiego massivo delle risorse disponibili al fine di ricostituire la potenza perduta.
Gli Stati Uniti devono ricostruire la propria capacità industriale – che è il fattore principale che ne consentì la vittoria nella seconda guerra mondiale – devono ripensare e rifondare le proprie forze armate, devono difendere lo standard internazionale del dollaro, devono abbattere un debito pubblico monstre. E ciò richiede un tempo non comprimibile.

Queste, e non altre, sono le ragioni che spingono Trump verso una risoluzione pacifica temporanea delle crisi più acute. Risponde alla duplice esigenza di aprire divisioni nel fronte nemico, e di liberarsi da impegni onerosi ed infruttuosi, che rallentano le capacità di ripresa.
E però, nell’affrontare queste crisi, ecco che l’amministrazione americana nuovamente accelera, riproducendo nei singoli contesti strategici la stessa contraddizione, tra il tempo oggettivamente necessario per trovarvi soluzione e la fretta di risolverli.
È ciò a cui stiamo assistendo in relazione al conflitto in Ucraina. Appare chiaro che questo conflitto si svolge – appunto – in Ucraina, ma che lo scontro è tra la Russia e la NATO, cioè gli Stati Uniti stessi, e che è stato portato avanti così a lungo da arrivare ad un punto di non ritorno, nel quale la sconfitta militare non è più evitabile, e si può solo cercare di limitare i danni di quella politica. Ma il negoziato con Mosca sarebbe dovuto partire da un’analisi realistica del contesto, cosa di cui Washington non sembra affatto essersi preoccupata.

La questione è in effetti molto semplice. Nella percezione russa del conflitto, questo è assai più essenziale, esistenziale, di quanto non lo sia per gli USA. E ciò, tra le altre cose, significa che la Russia si è attrezzata sotto ogni profilo – politico, militare, psicologico – ad affrontare anche una guerra di lunga durata, ma che non può assolutamente perdere. Quindi, di fatto, l’apertura di un negoziato implica che Washington ha sostanzialmente una sola carta in mano, ovvero la disponibilità a discutere e formalizzare un quadro di sicurezza reciproca, in particolare per quanto riguarda il teatro europeo. Al contrario di quanto pensano a Washington, per Mosca una eventuale riapertura dell’occidente nei confronti della Russia (simboleggiata dall’offerta di riaccoglierla nel G7) è di scarso o nullo interesse. E perché gli USA potessero giocarsi questa carta, è ovvio che la condizione fondamentale era assicurarsi l’appoggio pieno dei paesi europei, ed il controllo ferreo dell’Ucraina. Ma non solo dalla Casa Bianca non hanno fatto il minimo tentativo in tal senso, ma addirittura – l’accelerazione – hanno cercato e cercano di sfruttare la situazione per rastrellare e rapinare risorse da tutto il continente, accentuando la divaricazione tra le due sponde dell’Atlantico e, di fatto, mettendosi da soli i bastoni tra le ruote.

Il risultato è che, del tutto prevedibilmente, il negoziato stenta a decollare, anche solo rispetto alla risoluzione del conflitto – che pure, e non era difficile comprenderlo, già di per sé pone tanti di quei problemi che era davvero ingenuo pensare di risolverli rapidamente. Ne consegue che, mentre Trump ha bisogno di ottenere rapidamente dei risultati – di cui ha bisogno anche, se non soprattutto, sul fronte interno [1] – si ritrova con una situazione ulteriormente complicata proprio dalle sue azioni, con i paesi europei che marciano in direzione opposta e contraria, e fanno di tutto per ostacolarne i tentativi negoziali, e l’Ucraina che (anche grazie all’appoggio europeo) punta i piedi. E questo, semplicemente, priva Washington della possibilità di giocare quell’unica carta di cui dispone. Non solo. L’evidente difficoltà statunitense nel rimettere in riga sia i propri alleati che il proxy ucraino, aumenta la diffidenza russa, che vedono nella controparte un soggetto non in condizione di offrire le sole cose veramente importanti per Mosca.

Del tutto simile è la situazione mediorientale. Anche qui, siamo in presenza di una situazione strategica estremamente complessa, le cui radici affondano nei disastrosi lasciti del colonialismo europeo, aggravati esponenzialmente dalla nascita dello stato coloniale sionista. Un quadro generale che fa della regione una delle situazioni geopolitiche più complesse, ma che l’amministrazione USA sta affrontando senza alcuna considerazione della stessa, mossa unicamente da due esigenze in contraddizione tra di loro: sedare il conflitto, per le ragioni summenzionate, e sostenere ad ogni costo il proprio proxy israeliano – il quale invece, esattamente come quello ucraino, ha comunque una sua agenda, un suo disegno strategico, un suo blocco di interessi che solo parzialmente coincidono con quelli statunitensi.
Il risultato è che gli Stati Uniti si ritrovano ancora una volta impantanati in una situazione conflittuale che, mentre il loro interesse strategico prevalente sarebbe premere il tasto pause, rischia di vederli trascinati in conflitto peggiore, perché qualcuno ha premuto il tasto fast forward

La situazione del Medio Oriente, oltretutto, è perfettamente esplicativa dell’eterno scarto tra le intenzioni delle amministrazioni americane, ed i risultati delle loro azioni.
Qualcuno ricorderà la famosa rivelazione del generale statunitense Wesley Clark, che nel 2007 parlò del piano degli Stati Uniti per il Medio Oriente dopo l’11 settembre: “Elimineremo 7 paesi in 5 anni: Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e finiremo con l’Iran”. Al di là del fatto che dal 2001 sono passati 24 anni, non 5, e nella migliore delle ipotesi il disegno non è completo, vale la pena sottolineare – ed in un certo senso sfatare – l’idea che questo piano statunitense rappresenta, secondo alcuni, un pieno successo. È la cosiddetta teoria del caos, secondo la quale l’obiettivo sarebbe appunto la destabilizzazione, la generazione di una situazione di instabilità. Una lettura degli avvenimenti che, indubbiamente, torna comoda alla narrazione secondo cui l’America vince sempre.

Ma se facciamo attenzione a ciò che recentemente ha affermato il nuovo Segretario di Stato, Marco Rubio, emerge una lettura differente. Uno degli uomini chiave dell’amministrazione Trump ha infatti candidamente spiattellato una semplice verità: dalla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno perso tutte le guerre. E, aggiungiamo, se questa lunga catena di sconfitte non si è tradotta in una sconfitta strategica, è dovuto semplicemente al fatto che queste guerre non hanno mai lambito il territorio USA: l’isola continentale nordamericana ha infatti protetto il potere imperiale, e la forza thalassocratica delle flotte statunitensi è servita a tenerle lontane. Ma questa catena di sconfitte ha comunque prodotto un effetto cumulativo, ed è una delle cause che hanno portato al declino dell’impero. Il caos mediorientale, quindi, è sì (anche) il risultato delle guerre statunitensi, ma questo risultato non coincide con gli obiettivi iniziali. È infatti paradossale che gli Stati Uniti, il cui bilancio per la difesa è semplicemente gigantesco, così ipertrofico da ricordare quello dell’Unione Sovietica, che contribuì a determinarne la caduta, si sia poi rivelato così incapace di produrre anche una sola vittoria chiara e netta, in ottant’anni di guerre.

D’altro canto, non solo questo caos si presenta praticamente solo nel quadrante mediorientale, mentre non risulta presente negli altri teatri delle guerre stars & stripes – a riprova che a determinarlo sono prevalentemente altri fattori, che l’intervento americano semmai esaspera – ma non si vede perché mai dovrebbe essere perseguito in alternativa ad una vittoria definitiva, che sottometterebbe la regione stabilizzandola, se non appunto per la semplice ragione che questa vittoria non è mai stato possibile conseguirla.
Ed oggi gli Stati Uniti si ritrovano qui di fronte alla medesima situazione, ma resa ancor più complessa dal proprio indebolimento, e dal rafforzamento di quello dei suoi avversari. E ripropongono anche qui lo schema contraddittorio, che vede coesistere la necessità strategica di riportare la conflittualità regionale ad un livello di bassa intensità, che non richieda alcun impegno diretto, ed un’azione tattica che va invece a rimorchio di Israele, la quale punta ad inasprire ed allargare il conflitto, portandolo ad un livello di alta intensità.

La situazione del negoziato con l’Iran, si presenta quindi qui come speculare a quella ucraina. Gli Stati Uniti hanno molte carte in mano, ma sono spinti ad alzare talmente le aspettative da rendere estremamente difficile ottenere dei risultati in breve tempo, ed estremamente improbabile ottenerne qualcuno tout court. Quello che a Washington (ed a Tel Aviv) sostanzialmente vorrebbero è un disarmo iraniano, sul modello – non a caso indicato da Netanyahu – degli accordi con la Libia di Gheddafi, che portarono poi alla caduta del regime sotto la spinta dell’attacco NATO. Uno scenario che a Teheran hanno ben chiaro, e che ovviamente non hanno alcuna intenzione di replicare. Gli iraniani, d’altro canto, non soltanto sono consapevoli di essere molto più forti militarmente di quanto non lo fosse la Libia, ma hanno una visione strategica molto più chiara. La loro posizione, infatti, non è garantita soltanto dal proprio potenziale bellico, e dalla collocazione geografica, ma anche da una solida rete di rapporti con Russia e Cina, con i quali – anche in assenza di una vera e propria alleanza militare – esiste però una cooperazione strategica, che non a caso si è già esplicitata in varie esercitazioni navali congiunte. L’interesse comune dei tre paesi, infatti, è mantenere l’agibilità delle rotte commerciali tra l’Estremo ed il Medio Oriente, un vero e proprio ganglio vitale.

Un quadro, questo, in cui si inserisce perfettamente – e con estrema chiarezza – la rilevanza dello Yemen, e la sua capacità di resistenza, che rappresenta appena una piccola frazione di quella che potrebbe opporre l’Iran. Anche qui, come già visto relativamente al conflitto in Ucraina, l’azione statunitense è contrassegnata da una sostanziale ambivalenza, che la condanna a mancare gli obiettivi. Da un lato, infatti, la Casa Bianca cerca insistentemente il confronto negoziale con Teheran, anche attraverso la mediazione russa, e con Sana’a (da ultimo, cercando anche una mediazione cinese), ben consapevole delle enormi difficoltà che comporterebbe intraprendere un’azione militare (contro l’Iran), e dell’inutilità di proseguire quella in atto (contro lo Yemen) [2], così come del fatto che qualsiasi azione contro la Repubblica Islamica si ripercuoterebbe immediatamente sui negoziati russo-americani, e sui rapporti con la Cina. Dall’altro, però, esercita una forte pressione negoziale a tutto campo, che spinge le controparti ad irrigidire le proprie posizioni, insiste nell’approccio ricattatorio (“o fate così oppure…”), chiede molto più di quello che è disposta ad offrire, e soprattutto continua a seguire passivamente l’azione genocida e guerrafondaia del governo Netanyahu.

Anche in Medio Oriente, insomma, l’azione strategica (ammesso a questo punto che il termine sia adeguato) degli Stati Uniti risulta contraddittoria, con due linee di condotta che – lungi dal funzionare come le ganasce di una tenaglia – si intralciano a vicenda, rivelando come dietro obiettivi ambiziosi non vi sia però né una adeguata consapevolezza della complessità della situazione, né tanto meno un piano realistico per conseguirli.
Situazione che, ancora una volta, ritroviamo anche nella terza grande area di crisi, quella indo-pacifica con al centro la Cina, il grande avversario strategico degli USA. Anche qui, infatti, la politica statunitense appare ambigua, e mal calibrata. Tutto ruota intorno a Taiwan ed alla guerra commerciale. Washington non smette di fomentare l’indipendentismo taiwanese (anche se, formalmente, gli USA riconoscono una sola Cina, e quindi l’appartenenza dell’isola alla RPC), e di stimolarne il riarmo (che favorisce l’industria bellica made in US); questo però ha a sua volta stimolato la Cina a sviluppare pienamente le proprie capacità militare, così che oggi lo Zhōnggúo Rénmín Jiěfàngjūn (l’Esercito popolare di Liberazione) è oggi una forza armata moderna e di tutto rispetto, che può contare non solo su una grande massa di manpower (2.250.000 in servizio), ma anche su armamenti avanzati.

Il recente braccio di ferro scatenato da Trump con la sua politica protezionistica di dazi, lanciati a raffica praticamente su ogni paese del globo, comporta a sua volta un inasprimento del confronto con Pechino, che di certo non va nella direzione di allungare i tempi prima dello scontro finale, e che soprattutto non dà alcuna garanzia di portare al successo [3]. Ingaggiare un braccio di ferro dagli esiti quanto meno imprevedibili, è l’ennesimo azzardo della politica statunitense, che in questa fase storica appare tanto assertiva quanto priva di una efficace strategia globale, capace di misurarsi con le condizioni date, e con le sfide che queste pongono alla ormai scomparsa egemonia americana.
L’esperienza e la ragionevolezza dovrebbero spingere verso un approccio assai più morbido, soprattutto verso gli avversari più ostici e resilienti, cercando di intraprendere strade che portano ad una riduzione dei conflitti (in senso lato), e quindi appunto a rinviare nel tempo i confronti più aspri, piuttosto che spingere verso un inasprimento delle tensioni, e quindi ad affrettare la possibile resa dei conti.

La grande contraddizione americana del terzo millennio, che poi si ripercuote e si riproduce, su scala sempre minore, nella gestione strategica del declino ed in quella delle più importanti crisi d’area, è poi in fondo quella tra la realtà dell’impero e la percezione che ne hanno le élite che lo guidano. Non solo la golden age dell’egemonia americana si è consumata tra la fine dell’ultimo conflitto mondiale e la caduta dell’URSS, ma negli ultimi decenni il declino di questa egemonia si è manifestato a 360°, segnando una crescente velocità di caduta. Al punto che oggi Washington semplicemente non è più in grado di esercitarla pressoché in qualsiasi modo.
Nonostante decenni di guerre perdute, ha cercato di riscattarle con una mossa ambiziosa quanto improbabile, imporre una sconfitta strategica alla Russia, mossa che però si è tradotta nel suo rovescio, con una sconfitta strategica americana che attende solo di essere certificata. E che, tra l’altro, ha prodotto quella reazione interna al deep power [4] statunitense che ha portato alla Casa Bianca Trump.
Ugualmente il potere del dollaro è in caduta, ed apertamente contrastato, mentre la capacità produttiva del paese è stata dissipata durante gli anni dell’ubriacatura finanziaria della globalizzazione.

Oggi, gli Stati Uniti sono un’anatra zoppa, che però si illude di essere ancora, in qualche modo, l’aquila calva di un tempo, ed agisce di conseguenza. Come un vecchio leone che ruggisce nella convinzione che ciò basti a tenere a bada i giovani leoni, mentre questi sono consapevoli che il suo regno è finito, ed aspettano soltanto il momento giusto per assestargli la zampata finale.
Questo è, in essenza, il trumpismo. Il tentativo di salvarsi dal declino, facendo finta che non ci sia. Piuttosto che accettare, anche solo tatticamente, uno scenario internazionale caratterizzato da un effettivo multipolarismo (che è più ed altro di un mero tripolarismo USA-Cina-Russia), ha scelto la reiterazione del vecchio schema imperial-egemonico. Se durante i decenni in cui a Washington dominava l’asse neocon-democrats, la scelta strategica è stata quella di sconfiggere sul campo i nemici, uno alla volta (e per giunta cominciando da quello più agguerrito), ora la scelta sembra essere quella della “pace attraverso la forza”; solo che questa forza semplicemente non c’è più, e quindi resta soltanto, senza che se ne rendano conto, una “resa geostrategica al rallentatore”[5].
Game over.


1 – La situazione interna agli Stati Uniti non è al momento particolarmente favorevole. Anche se i democrats sono in forte crisi, il blocco di potere che si oppone a Trump non è limitato a questi, ed ha solide radici sia nell’establishment che nella società. La numerose e partecipate manifestazioni dei giorni scorsi, ad esempio, sono un segnale di come un fronte – anche composito – può essere all’occasione mobilitato. Le misure di smobilitazione dell’apparato federale da parte del DOGE di Musk, ad esempio, stanno generando una massa di disoccupati, in una situazione generale non particolarmente favorevole. Il bisogno di portare a casa qualche successo, quindi, risponde anche all’esigenza di rintuzzare le iniziative del blocco avverso, che attende Trump al varco delle elezioni di mid-term.
2 – Secondo quanto riferito da Al-Akhbar (“US ‘Lethal Force’ Fails: Repeated Offers to Halt Yemen’s Red Sea Operations Go Unanswered”, Rashid Al-Haddad, Al-Akhbar), “fonti diplomatiche occidentali hanno rivelato che l’ambasciatore statunitense in Yemen, Fagin, ha recentemente incontrato a Riad l’incaricato d’affari cinese per lo Yemen, Shao Zheng, e gli avrebbe chiesto di avviare contatti con gli Houthi”.
3 – La politica dell’imposizione brutale di pesanti dazi, che tra l’altro sta provocando per la prima volta divisioni all’interno dell’inner circle trumpiano, equivale a buttare a caso un po’ di bombe nucleari per vedere l’effetto che fa. Sul breve periodo, è probabile che i paesi più deboli vadano a Canossa, e cedano in parte ai ricatti statunitensi – il che certamente porterà un po’ di ristoro alle casse federali – ma già sul medio termine li spingerà a cercare alternative in grado di sottrarli alla minaccia ricattatoria. Alternativa che potrebbe essere peraltro già disponibile: l’unione tra i paesi del blocco BRICS+ e quelli del blocco SCO (Shanghai Cooperation Organization), di cui si comincia a discutere (“Слияние и повышение: в ШОС допустили объединение рынка с БРИКС”, Anastasia Kostina, Ekaterina Khamova, Natalia Ilyina, Iz.ru), sarebbero in grado di offrire una alternativa al commercio mondiale dollarizzato, ed ai mercati occidentali. Mentre ovviamente i paesi più resistenti reagiranno con altrettanta durezza.
4 – Cfr. “Sul deep state”, Enrico Tomaselli, TargetMetis
5 – Cfr. “Iran’s Iron Chessboard: The Empire Negotiates from the Backfoot While Tehran Tightens Its Trilateral Trap”, Gerry Nolan, The Islander