Geopolitica di un fallimento
di Stefano De Rosa - 01/03/2022
Fonte: Italicum
Gli avvenimenti bellici in Ucraina invece di giustificare critiche a senso unico alla Russia dovrebbero soprattutto interrogare l’Unione europea sulla sua inesistente funzione politica e sulla sua subalternità a Stati Uniti e Nato
Nell’estate del 2008 le cronache internazionali e le diplomazie di tutto il mondo furono monopolizzate dalla crisi russo-georgiana. La quasi totalità dei commentatori e dei policy makers trattò gli accadimenti caucasici operando la consueta distinzione tra “buoni” e “cattivi”, iscrivendo tra i primi la Georgia, la Nato, gli Usa, l’Ue, e tra i secondi la Russia, l’Abkhazia, l’Ossezia del Sud.
La vicenda presentava analogie con la questione del Kosovo, regione serba a maggioranza albanese, che una decina di anni prima pensò bene di separarsi dalla Serbia avanzando un diritto basato sull’autodeterminazione dei popoli e dando vita ad una nazione artificiale. Tutti ricordano come l’Occidente – con logica coloniale ottocentesca – si comportò di fronte alla legittima reazione di Belgrado, che, volendo preservare la sua integrità territoriale, non poteva tollerare il separatismo islamico-kosovaro.
La Nato, costituita dagli stati aderenti con scopi di difesa reciproca, bombardò uno Stato sovrano – la Serbia, appunto – senza che questo minacciasse uno dei suoi membri. L’Alleanza Atlantica, per la prima volta, intervenne in una guerra civile senza il mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, così inaugurando una nuova era nelle relazioni internazionali, in cui il “diritto di ingerenza” veniva giustificato dalla difesa di democrazia, minoranze e diritti umani.
Un metro di valutazione negato, ad esempio, ai Serbi di Bosnia (pochi anni prima), ai Curdi o al Tibet, in nome della (presunta) intangibilità delle frontiere. Quella guerra – mostruosità giuridica avallata, peraltro, dal governo D’Alema – si è rivelata un precedente storico pericoloso, la cui legittimità fu contestata da larghi strati dell’opinione pubblica internazionale e, significativamente, proprio dalla stessa Russia.
A distanza di oltre nove anni, le parti degli attori si rovesciarono: fu la Russia, tradizionale alleata della Serbia, a beneficiare politicamente dell’indipendenza dalla Georgia delle due piccole repubbliche caucasiche, desiderose di entrare nella sfera di influenza e sotto la protezione militare del Cremlino. Per quale motivo la Russia nel 2008 avrebbe dovuto disattendere il principio di autodeterminazione (così caro nel 1919 al presidente Wilson) quando nel 1999 ne fu garantito l’esercizio ai kosovari con il valido apporto dell’uranio impoverito su Belgrado?
Non risulta che nel 2008 la Nato abbia bombardato Mosca. Evidentemente l’intangibilità delle frontiere fu reputato un principio elastico da adattare al potenziale atomico o al diritto di veto all’Onu del Paese “cattivo”. I ricorsi della storia (e talvolta della geografia) si sono riproposti nell’inverno 2022 in Ucraina. Analogo – con il 2008 – il numero delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lahansk nel Donbass riconosciute da Mosca ed analoga – con il 1999 – la ragione linguistico-culturale-religiosa alla base di un lecito (nonostante un’intermittente applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli) distacco dallo stato di appartenenza.
Più che dividersi, interrogandosi se fondati siano i timori della Russia e condivisibili i motivi alla base della sua azione bellica in territorio ucraino, sarebbe più costruttivo domandarsi quale sia l’attuale funzione dell’Unione europea e se, in questa vicenda, non abbia perso un’ulteriore occasione per affrancarsi dalla tutela degli Stati Uniti, da un punto di vista energetico e militare, e per differenziarsi dalla Nato, sotto l’aspetto politico-internazionale. Un approccio geopolitico di lungo periodo potrebbe forse offrire elementi per una migliore comprensione prospettica degli eventi e permettere di sottrarsi al giogo di una propaganda narrativa banalizzata e a senso unico.
Può, al proposito, correre in soccorso la teoria organica dello Stato elaborata nel 1897 da Friedrich Ratzel che vede l’entità statale come un organismo vivente e, in quanto tale, tendente ad espandersi, ad acquisire nuove aree anche attraverso fusioni tra stati e a lottare per la conquista del suo spazio vitale (il Lebensraum, l’area geografica di cui ha bisogno per vivere). Secondo Ratzel sono le battaglie ed i conflitti, e non gli accordi, le leggi che regolano i rapporti tra gli stati.
Quando nel 1904 Ratzel muore, a Londra sir Halford Mackinder in un celebre discorso parla del Geographical pivot of History, il perno della Storia, ovvero l’Heartland, il cuore eurasiatico della Terra. Il geografo inglese attribuisce a quest’area l’appellativo di World Island, l’isola-mondo, dominata dal nucleo costituito dall’Heartland. Scriverà Mackinder nel 1919 “ Chi governa l’Europa orientale domina l’Heartland; chi governa l’Heartland domina la World Island; chi governa la World Island domina il mondo”. Facile riscontrare in ciò le preoccupazioni di un esponente della “Talassopolitica” di cui parla Julien Freund.
La Prima guerra mondiale era appena conclusa. Per Mackinder era indispensabile impedire l’alleanza tra Germania e Russia e dunque la conquista dell’Heartland. Da qui la necessità di creare degli “stati-cuscinetto” per ostacolare tale progetto. Nonostante i successivi sviluppi della Seconda guerra mondiale, della Guerra Fredda e del crollo del sistema sovietico il suo modello può continuare ad essere adottato con successo per chiarire le dinamiche di un presente altrimenti incomprensibile.
Può esserci politica – rifacendoci a Carl Schmitt – solo se esiste una pluralità di entità politiche che intrattengono tra loro relazioni di amicizia o inimicizia. L’unificazione politica del mondo perseguìta a colpi di globalizzazione economica e finanziaria conduce ad una “spoliticizzazione totale” (Alain de Benoist). Il dilemma schmittiano tra il monopolio globale di un’unica potenza (universo), da una parte, e sfere di intervento ed aree di civiltà (pluriverso), dall’altra, costituisce la vera chiave interpretativa di ciò che sta accadendo al fianco orientale dell’Europa.
Non conoscendone gli esiti, merito dell’iniziativa russa è, al momento, almeno quello di aver riportato d’attualità geografia e politica. Nonché di aver valorizzato una sana distinzione tra solido e liquido, tra chiusura ed apertura, tra identità e ibridazione, tra radicamento e nomadismo, tra senso del limite e onnipotenza. È su queste dicotomie che Cancellerie e coscienze individuali devono essere chiamate ad esprimersi. Non si tratta di aderire o condividere acriticamente queste visioni strategiche e culturali. Importante è, tuttavia, non trascurarle o relegarle tra le scorie contaminate della Storia.