Gilberto Forti e il suo “A Sarajevo il 28 giugno”
di Andrea Pozzoli - 01/05/2019
Fonte: Andrea Pozzoli
Ritrovare le voci della storia
Nel secolo trascorso dalla fine di quella Grande Guerra che spezzò il corso della storia e nel modo più sanguinoso e drammatico partorì la contemporaneità di cui siamo figli, un numero incalcolabile di ricerche è stato condotto allo scopo di indagarne il contesto geopolitico, le motivazioni che spinsero alla mobilitazione le potenze che occupavano lo scacchiere internazionale e la complessità inestricabile delle cause e delle concause che si affastellano confuse fin da dissapori antichi e al tempo ricordati solo da governanti, anziani e studiosi.
In questo inesauribile ricettacolo di popoli e di storia, di sofferenze subite e inferte, di ambizioni di dominio e rivendicazioni di libertà, può offrire una narrazione alternativa lo sguardo di singoli oscuri testimoni le cui soggettività insostituibili e parziali, pur in modo frammentario, sono in grado di illuminare porzioni inaspettate di un fatto che è patrimonio della coscienza collettiva di più di una generazione, senza barriere di nazionalità, religione, etnia o lingua.
Si pone, tuttavia, un problema: fin dove può arrivare lo storico? Nell’indagine sempre più approfondita a partire dalle fonti, a un certo punto lo studioso è costretto a fermarsi, poiché i suoi resoconti non sarebbero più sostenuti da prove autentiche che ne certifichino la veridicità. Quando, però, il rigore scientifico pone un limite alla penna dello storico, il quale superandolo cadrebbe nell'arbitrio di ipotesi personali o, peggio, di interpretazioni ideologiche, a prendersi coraggiosamente la responsabilità di valicarlo interviene arguta e raffinata l'arte dello scrittore, le cui autenticità e specificità risiedono prima di tutto nell'immedesimazione: è la capacità di vestire i panni dei propri personaggi a conferire loro spessore psicologico, verità emotiva, coerenza di pensiero e consistenza dialettica nel rapporto con la realtà.
Dove lo storico è costretto a fermarsi, solo la finzione letteraria può dare corpo, palpito e respiro alle loro ipotesi personali, alle loro impressioni soggettive, ai loro punti di vista parziali: letture di quanto accaduto che sono in qualche modo tutte vere, perché tali almeno per qualcuno.
Il risultato è inevitabilmente un dipinto variegato e frammentario di voci che cantano insieme, ma ognuna la propria parte distinta dalle altre, in un'armonia che non consiste nell'essere in accordo, ma nel consuonare liberamente in modi inattesi. Infatti, se la ricerca storica tenta una versione di quanto accaduto che sia suffragata da fonti attendibili e prove certe e che sia dunque condivisibile, la realtà esperita dagli individui è ben diversa, perché fondata su una concezione della realtà strutturatasi su categorie concettuali assolutamente soggettive, in quanto dettate dalla biografia personale.
È in questo campo indeterminato tra realtà e finzione, dotato di infinite possibilità, che Gilberto Forti, destreggiandosi in versi endecasillabi che fluiscono sciolti come prosa, colloca A Sarajevo il 28 giugno (Adelphi, 1984), retrospettiva caleidoscopica in cui ben undici testimonianze ricostruiscono pezzo a pezzo una vicenda che si classifica come casus belli della Prima Guerra Mondiale, ma le cui sfaccettature svelano una realtà dalle intricatissime implicazioni umane.
La prima voce narrante è quella del Dr. Friedrich Frankenfeld-Castelli, imperial-regio consigliere aulico, il quale nel suo giornale intimo racconta quasi giorno per giorno, dal 27 giugno all’11 luglio 1914, gli accadimenti di una Vienna colta dal trauma dell’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando e della consorte morganatica Sophie Chotek. Il suo status lo colloca in seno ad un’aristocrazia austriaca di cui testimonia il progressivo e inesorabile sgretolamento a tutti i livelli, di cui l’attentato rappresenta soltanto la proverbiale goccia in un vaso traboccante. Sono numerose, infatti, le scomparse segnalate alla polizia di nobili che hanno fatto perdere le proprie tracce e che, emigrando all’estero, hanno assunto nomi borghesi, sfuggendo ad un mondo in disfacimento sotto il peso oppressivo e morente del proprio passato glorioso ma ormai sbiadito.
A livelli ben più alti, la famiglia imperiale stessa è da tempo in crisi: l’imperatore Francesco Giuseppe I subì già nel lontano 1853 un attentato a Vienna, perpetrato da Jànos Libényi, sarto ungherese che lo accoltellò alla clavicola quasi nel punto in cui è andato a segno il colpo che ha ucciso l’arciduca; nel 1914, l’imperatore ha ormai ottantaquattro anni e sopravvive a saltuari malanni che i medici interpretano sempre come quelli che gli saranno fatali, ma che rendono il dispotico monarca soltanto più indolente e incapace di far fronte alle necessità del presente. Ben più tragica era stata la sorte del primo erede al trono, Rodolfo d’Asburgo-Lorena, principe della corona d’Austria, Ungheria e Boemia, figlio dell’imperatore Francesco Giuseppe e dell’imperatrice Elisabetta di Wittelsbach: nel 1889, presso la residenza di caccia di Mayerling, si tolse la vita insieme alla sua amante, la baronessa Anna Vetsera, destando scalpore in tutto il mondo e gettando sull’accaduto l’ombra del sospetto di un complotto internazionale. Nel 1898 toccherà alla madre Elisabetta trovare la morte a Ginevra per mano di un anarchico italiano, Luigi Lucheni, il quale nella donna intendeva colpire uno dei simboli della monarchia asburgica e dell’oppressione esercitata sui popoli mitteleuropei. Dopo la morte di Rodolfo, il peso dell’eredità era caduto sul nipote dell’imperatore, Francesco Ferdinando, il quale, tuttavia, si innamorerà di Sophie Chotek, nobile di basso lignaggio, che poté sposare dopo non poche traversie soltanto con matrimonio morganatico, non conferendole pertanto i titoli e i privilegi propri della casata d’Asburgo, dalla quale verrà sempre tenuta in disparte insieme ai tre figli. “Contessa è troppo poco per gli Asburgo” (p. 99).
Il quadro che ne deriva è desolante. L’impero di Austria, Ungheria e Boemia sta vivendo un tramonto che dura ormai da decenni e l’aquila bicipite si prepara all’imminente crepuscolo prima della notte definitiva, di cui, tuttavia, non si ha ancora sentore: il 9 luglio il Kaiser Guglielmo II di Prussia e i suoi strateghi il capo di Stato Maggiore Helmuth von Moltke e l’ammiraglio Alfred von Tirpitz sono in vacanza e la Germania garantisce all’Austria tutto il sostegno possibile anche nel caso “poco verosimile di una complicazione europea” (p. 32).
La parola passa, dunque, a padre Adam Kowalski, il quale, al seguito del vescovo di Sarajevo, è suo accompagnatore presso il Municipio dove i maggiorenti della città sono in attesa dell’arrivo della coppia regale. I fez, i turbanti, le fusciacche a strisce, i costumi balcanici, i cilindri e i vestiti a code radunatisi di fronte all’edificio istituzionale sono da lui descritti come l’oggettivazione del crogiuolo di popoli, lingue e confessioni religioni che convivono nel vasto impero asburgico, tuttavia – senza che egli se ne renda conto – in una tolleranza in equilibrio sul filo del rasoio. Tra i titoli dell’imperatore comparirà pure quello di protettore di tutte le fedi, ma a distanza di poche ore dall’attentato bombarolo alla Banca di Austria perpetrato da Nedeljko Cabrinovic e dai colpi di pistola esplosi da Gavrilo Princip, entrambi diciannovenni serbi, quell’apparenza di rispetto reciproco e di pacifica convivenza rivela tutta la propria fragilità: l’esercito accorre al quartiere serbo, dove croati e musulmani si uniscono contro i serbi, considerati in toto colpevoli per i morti e i feriti al pari di Princip e Cabrinovic; mentre vengono istituiti la sera stessa la legge marziale e il coprifuoco, prende avvio il pogrom contro la popolazione serba, che conterà migliaia di incarcerazioni e deportazioni e centinaia di impiccagioni prima della fine di luglio. In quel 28 giugno del 1914, tutte le illusioni di padre Adam Kowalski si sgretolano di fronte ad una realtà che rivela il proprio vero volto.
Se il Dr. Friedrich Frankenfeld-Castelli e padre Adam Kowalski adottano come chiave di lettura degli accadimenti del 28 giugno l’uno la prospettiva dell’aristocrazia in declino e l’altro la convivenza non più pacifica di fedi ed etnie, il quinto intervento, quello dell’archivista Hugo Kaspar Dunkelblatt – il cognome (foglio oscuro) ne riflette il mestiere, vede nelle carte l’unica via di accesso certa alla verità storica. La sua disamina documentaria non è, tuttavia, arida, poiché ci restituisce un ritratto dell’arciduca Francesco Ferdinando che comincia a traspirare un’umanità inedita, quasi del tutto tralasciata dalla narrazione storiografica prevalente. L’arciduca è dapprima ritratto nel momento in cui, il 28 giugno 1900, di fronte ad ogni membro della casa degli Asburgo-Lorena e ad alcuni ministri, firmò quell’atto di rinuncia che avrebbe sì consesso le nozze con Sophie Chotek, ma che avrebbe condannato la contessa e i futuri figli ad essere esclusi da eredità, titoli e privilegi, riservando per loro una vita emarginata dal resto della famiglia reale. La scena austera e solenne non si attarda a descrivere lo stato d’animo di Francesco Ferdinando, ma questo traspare nella severità del tono dello zio imperatore e nell’aria che si respira a motivo della tensione in cui tutto avviene nel silenzio.
Un altro documento citato da Hugo Kaspar Dunkelblatt è una lettera dell’arciduca datata 1 febbraio 1913 e indirizzata al ministro degli esteri Leopold Berchtold – futuro autore dell’ultimatum alla Serbia, nella quale si contraddice l’immagine che spesso è stata diffusa del nobile d’Asburgo quale nemico della pace. Egli, infatti, dimostra modernità di vedute nel ricusare la guerra come soluzione contro la Serbia o contro la Russia, poiché le conseguenze che ne scaturirebbero sarebbero plurime: prima di tutto, i rapporti diplomatici con le potenze europee si incrinerebbero inesorabilmente, in quanto l’Austria apparirebbe come una perturbatrice della pace; inoltre, la Serbia, qualora fosse sottomessa e annessa come la Bosnia nel 1905, sarebbe causa di ulteriore instabilità a motivo degli irredentismi potenzialmente regicidi che vi circolano. Piuttosto, continua l’arciduca, è necessario riportare l’ordine all’interno e conservare la pace con l’estero, divenendo forti di un’immagine rinnovata che faciliti i rapporti internazionali.
Quando giunge il turno del sergente Josef Koppenstätter, il tono della narrazione cambia considerevolmente. Colui che parla, dal basso della propria umile funzione di sottoufficiale al seguito del principe ereditario, sente di avere un rapporto speciale con Francesco Ferdinando: lo segue, lo assiste nei suoi spostamenti, ne conosce le abitudini, i modi, la voce, gli sguardi ed è entro la familiarità con questi dettagli umani e personalissimi che egli legge l’accaduto del 28 giugno, come pochi altri oltre a lui potrebbero fare. Egli descrive la figura alta ed elegante dell’arciduca, da sempre distintosi per la disciplina con cui era in grado di curare ogni minimo aspetto della propria immagine, dai bottoni ai baffi; nel 1914, però, aveva ormai cinquant’anni e si era appesantito non poco, tanto da dover adottare uno stratagemma che ne preservasse la distinzione della figura e, comprimendone la pinguedine, ne valorizzasse la forma slanciata: il suo abito gli era cucito addosso ogni giorno, così che i bottoni fossero soltanto decorativi e camuffassero la vera natura della divisa, ovvero una guaina per smussare le forme corporee. Fino al 28 giugno 1914, pochi erano a conoscenza di questo astuto escamotage, quindi, quando si dovette soccorrere l’arciduca morente per tamponare l’emorragia, quei pochi minuti prima che si trovasse una forbice per liberarne il corpo gli furono fatali. Il sergente Josef Koppenstätter non ha dubbi: la guerra è scoppiata soltanto per un ago e del filo.
Anche Ferenc Szigeti, ingegnere, propone un’interpretazione molto personale dell’eziologia della guerra, la quale non può certo trascendere dalle categorie concettuali sulla base delle quali, per sua professione, egli è solito leggere la realtà: la causa della guerra sta in una differenza di sei metri, al massimo sette. È un’affermazione che giustamente richiede una dimostrazione esaustiva e l’ingegnere certo non lesina dettagli, ma non prima di aver fatto una premessa che dichiari quale sia l’inquadramento metodologico nel quale egli intende collocarsi, esplicitando tutta la distanza dalla figura dello storico, nella quale egli non si identifica: per gli studiosi della materia, la storia non si fa con i “se” o con i “ma”, tuttavia è nella natura del mestiere dell’ingegnere fare ipotesi sulla base di calcoli, i quali, per quanto teorici, spalancano orizzonti veritativi inediti di cui non si può non tener conto. È in virtù di questa convinzione che Szigeti analizza una lunga sequela di “se” ognuno dei quali avrebbe potuto evitare la guerra, ma in occasione dei quali si è sempre presa la decisione sbagliata. È ciò che accade con l’ultimo “se”, quello fatale per l’arciduca e per l’Europa: se gli autisti del corteo fossero stati messi opportunamente al corrente delle modifiche apportate all’itinerario a seguito dell’attentato alla Banca d’Austria, il convoglio avrebbe tirato dritto proseguendo su Appelquai invece di svoltare a destra in Franz Josef Strasse, al cui incrocio era in trepidante attesa il diciannovenne Gavrilo Princip. Egli si trovò l’auto della coppia imperiale a soli tre metri, i quali avrebbero potuto essere ben nove, se il corteo non avesse deviato: quella differenza di soli sei metri, a detta dell’ingegner Ferenc Szigeti, provocò lo scoppio della guerra. È matematico.
Sul finire del poema, gli interventi del guardiacaccia e del botanico di Francesco Ferdinando ne raccontano l’amore per la caccia e per le rose, a dimostrazione di un animo passionale, da un lato, e di una spiccata sensibilità estetica e botanica, dall’altro: l’uomo dietro l’arciduca è dunque a tutto tondo, dotato di spessore dietro alla maschera dell’ufficialità che paventa pubblicamente; il principe ereditario è un uomo dedito alla famiglia e malinconicamente impegnato a ricreare per essa il paradiso in terra nella residenza di Konopischt, lontano dagli oscurantisti formalismi della vita di corte a Vienna da cui si sente rifiutato, pur essendovi destinato.
La conclusione di A Sarajevo il 28 giugno è, invece, affidata ad un ultimo ritratto, quello del diciannovenne serbo che passò alla storia per aver posto mano alla pistola che uccise Francesco Ferdinando e sua moglie Sophie Chotek. A bilanciare la narrazione finora condotta dal punto di vista del principe, Gavrilo Princip, il più delle volte ridotto a quel singolo gesto che cambiò il mondo, è qui descritto nella sua disarmata umanità di giovane idealista che spera nella possibilità per la propria patria di ottenere la libertà dagli austriaci oppressori e di cui rimane inevasa una domanda fondamentale: fu assassino o eroe?
Così l’opera di Gilberto Forti si conclude avendo concesso alla storia di raccontarsi con le voci di personaggi molto diversi, i quali hanno parlato per sé, consapevoli di esprimere il proprio punto di vista. Poco importa che le loro impressioni non siano vere, siano solo possibili o siano parziali rispetto alla vulgata storica condivisa, perché, ottemperando alla lezione manzoniana, solo l'arte dello scrittore può restituire verità alla storia dei singoli, le cui vicende personali si perdono nella grande storia e possono essere ricostruite soltanto per verosimiglianza.
Ecco perché scriverne i racconti in versi endecasillabi, perché i ricordi di ognuno vadano a comporre un poema corale in cui la verità storica sia in ogni parte evidente, ma soltanto in quanto riflessa in resoconti verosimili del tutto soggettivi, entro una cornice che dalla storia trae linfa viva ma prendendo la forma di un'opera squisitamente letteraria.