Gli ammutinati
di Livio Cadè - 07/08/2023
Fonte: EreticaMente
«Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu che insensato cerchi lei!»
Livelli di intelligenza
Diceva Einstein che vi sono a questo mondo tre gradi di intelligenza: l’intelligenza umana, quella animale e infine quella militare. Non sarei così sicuro di poter attribuire all’uomo un’intelligenza superiore rispetto agli animali. Posso invece convenire che il cervello militare, organizzato per ubbidire e non per pensare, non debba essere necessariamente evoluto. Per i suoi scopi è infatti sufficiente un modesto apparato nervoso. Lo sviluppo di zone corticali, preposte al pensiero complesso, sarebbe solo d’impaccio.
Certo vi può essere un’ubbidienza intelligente, basata su un consenso ragionato. Ma gli stessi animali mostrano di possedere il raziocinio necessario per rifiutarsi di ubbidire a ordini che non capiscono o che giudicano inappropriati. Questo tipo di pensiero critico è invece rigorosamente escluso dalle attività di natura militare, che in effetti ne riceverebbero solo un danno. È quindi probabile che la classificazione di Einstein sia esatta. Tuttavia, potremmo chiederci: esiste ancora l’intelligenza umana? Se infatti osserviamo l’attuale essere umano possiamo notare in lui una drammatica involuzione, e obiettivamente non sembrano esservi sostanziali differenze tra i suoi comportamenti e quelli governati da un rudimentale cervello militare.
Nella nostra società quasi tutti infatti passano la vita eseguendo ordini, limitando l’attività mentale a semplici automatismi che rendono inutili il ragionare e il discriminare. È la nostra stessa società che incoraggia tale regressione, richiedendo ai cittadini una sempre più docile remissività e prontezza nell’ubbidire. Se vogliamo trovare vestigia dell’intelligenza umana, sembrerebbe quindi logico cercarle in chi disobbedisce. L’eredità evolutiva dell’homo sapiens sapiens si direbbe sopravvivere oggi nei cervelli dei renitenti, dei recalcitranti, dei ribelli.
Questo comporta chiaramente un conflitto tra i normali meccanismi sociali e l’evoluzione della coscienza. Queste due forze appaiono così sempre più in contraddizione tra loro. Chi voglia adeguarsi a regole e costumi della società contemporanea deve di fatto optare per un sacrificium intellectus che provoca un’atrofia delle parti nobili del pensiero. Chi viceversa voglia preservare la propria intelligenza deve esercitarsi costantemente in atti di dissenso, opporsi alle tante prescrizioni eticamente e razionalmente discutibili che gli vengono dettate ogni giorno dalla politica, dai mezzi di comunicazione, dal mercato ecc.
Necessità di ammutinarsi
Di fronte a un reale sempre meno razionale l’intelligenza sembra necessariamente coincidere con una radicale e concreta obiezione di coscienza. Questo atteggiamento insubordinato corrisponde però a un ammutinamento, reato da sempre considerato di estrema gravità, da punire con pene esemplari. A tale disubbidienza si rimprovera di minacciare i fondamenti dell’ordine e della disciplina. Perciò è sempre stata condannata a priori, a prescindere dalle ragioni che potevano motivarla. Anche ultimamente abbiamo visto come gli ‘ammutinati’ – individui che osano opporsi o dissentire – vengano giudicati e colpiti con grande severità.
Ma perché ammutinarsi oggi? Abbiamo forse ricevuto ordini che riteniamo folli o criminali, incompatibili con i nostri principi morali o con la nostra intelligenza? In effetti, in occasione di certe recenti ‘emergenze’ – vere o presunte – alcuni hanno percepito nelle relative disposizioni legislative un conflitto con la logica e con la dignità delle persone. Eppure siamo storicamente abituati ad ubbidire a ingiunzioni crudeli e irrazionali, che mettono a repentaglio la nostra stessa vita. Tuttavia, quello che oggi le gerarchie più alte della società sembrano pretendere da noi non è il sacrificio di un benessere individuale, che anzi dicono di voler proteggere, ma qualcosa di più essenziale.
Qui i pareri degli ‘ammutinati’ divergono. Secondo alcuni, dietro gli ordini apparentemente pieni di materna sollecitudine per la nostra salute, si nasconde un piano di spopolamento, ovvero una strage programmata del genere umano. Secondo altri, il decremento demografico farebbe parte di un progetto più complesso che prevede l’annichilimento della nostra umanità. Dovremmo cioè cancellare alcuni aspetti fondamentali dello spirito umano che da sempre ci accompagnano, come la libertà, la creatività, i nostri vincoli naturali ecc. Come se solo uccidendo in noi il ‘vecchio uomo’ potesse nascere un nuovo essere, redento dai suoi peccati, liberato dai suoi limiti, sul quale costruire una civiltà migliore.
È in fondo il trasferimento di un paradigma religioso di salvezza su piani sociali e politici, economici e tecnologici. L’uomo deve morire a sé stesso. Naturalmente veniamo assicurati che questo suicidio è per il nostro bene. “Voi non morirete affatto … voi sarete come Dei” dice il novello Satana. Ma quale sarà l’uomo che risorgerà dalle nostre ceneri? Forse un non-uomo, un umanoide involuto, chiuso nelle celle sempre più anguste di processi produttivi e coazioni consumistiche. È perciò comprensibile che, seppure la maggioranza si pieghi passivamente o inconsapevolmente a tale comando, alcuni ammutinati si rifiutino d’obbedire, manifestando un’ostinata renitenza al suicidio.
In linea di massima bisogna riconoscere che uccidersi è un’opzione inconciliabile con alcune pulsioni elementari – come il nostro naturale istinto di sopravvivenza – e con il comune senso etico o religioso. Non voglio con questo avallare il pregiudizio che il suicidio sia di per sé un atto condannabile tout court. Chi pensa che la vita sia un dono di Dio tenderà ovviamente a giudicarlo non solo illecito ma sacrilego. Ma io credo non si possa attribuire valore e significato a un tale gesto finché non ne conosciamo i reali moventi.
Diversi approcci al suicidio
La nostra cultura non ha verso tale problema un atteggiamento monolitico. Anche nella Bibbia non si condanna il suicidio di Saul – il quale vistosi sconfitto si trafigge con la spada – né quello di Sansone, che trascina con sé nella distruzione i Filistei. E se prendiamo il caso di Giuda, ai nostri occhi la sua colpa fondamentale è il tradimento, non l’essersi impiccato. Nell’inferno dantesco è posto infatti non tra i suicidi ma nell’ultimo girone, in bocca a Lucifero, come traditore dei benefattori.
Dante, comunque, pare giudicare i violenti contro sé stessi con più rigore degli assassini, visto che li colloca in un girone più profondo. Potremmo quindi sorprenderci nel trovare Catone – anch’egli suicida – in Purgatorio. Questo ci fa intendere che non tutti i suicidi van misurati con lo stesso metro, e che se alcuni sono atti imperdonabili, ad altri si possono concedere delle giustificazioni: il senso dell’onore e della dignità, un ideale politico, o un’umanissima debolezza.
Gli Zeloti assediati a Masada, che decisero di uccidersi in massa per sottrarsi ai supplizi atroci dei Romani, fecero un atto di doverosa pietà verso sé stessi. Il samurai che si uccide per onore se ne va circondato da un’aura di coraggio e di nobiltà. Il bonzo che si dà fuoco compie un sacrificio eroico ecc. Noi stessi ammettiamo che un uomo possa avocare a sé la morte come un rimedio naturale, da somministrare contro un male incurabile, rifiutando la barbara efficienza dei medici o gli scrupoli di una morale cavillosa e bigotta.
Ci si può uccidere per vari motivi, per viltà, cedendo alla seduzione del nulla, romanticamente. Plutarco riferisce che a Mileto si verificò una lunga sequela di suicidi tra giovani donne, che forse volevano, con tragico esibizionismo, fare della propria morte il sigillo plateale di una delusione sentimentale. Fu deciso allora di esporre nella piazza della città i corpi nudi di quelle ragazze fino alla loro putrefazione. Immediatamente l’ondata di suicidi cessò. Più che le pene d’amore o il nichilismo poté la vergogna. Per altro, questo pudore postumo rivela come nessuno possa immaginare la propria non-esistenza. Quando ci prova, si riserva sempre un posto come osservatore.
Fino a pochi secoli fa, nel Regno Unito, la common law considerava il suicidio una fellonia, cioè il tradimento di un obbligo di fedeltà verso il sovrano, il quale si rifaceva sulla famiglia del suicida, infliggendo un danno alla sua onorabilità e confiscandone le proprietà. Nel caso di tentato suicidio il reo veniva punito col carcere. La nostra cultura ha però gradualmente mitigato questa durezza, riconoscendo in chi si uccide il non compos mentis, ovvero l’incapacità di intendere.
E oggi una comune sensibilità morale tende a deprecare il suicidio in via teorica, ma a garantire al suicida una rispettosa commiserazione. In lui non vediamo l’unità di assassino e assassinato ma solo la vittima. Questa progressiva indulgenza sta ora rapidamente evolvendo in forme di accondiscendenza e incoraggiamento, per cui la società stessa si offre di aiutare a togliersi la vita chi dimostri di aver buone ragioni per farlo. Il suicidio moderno esula ormai dalla temporanea insanità mentale e diviene decisione razionale, prassi medico-legale condotta con metodologie igieniche e sicure.
Questo atteggiamento può sembrare incoerente con una norma sociale che in via di principio considera l’uccidere un atto criminale. Ma anche il mentire e il rubare sono comportamenti ordinariamente riprovati eppure la nostra storia, i nostri governi, i nostri quotidiani commerci, si reggono da sempre sulla rapina, la menzogna, l’omicidio. È vero che tali azioni sono ammesse in modo esplicito, anzi encomiate, solo in caso di guerra, quando si tratta di danneggiare il nemico. Tuttavia è uso accettarle o incoraggiarle implicitamente anche in quel bellum omnium contra omnes che è la nostra sedicente ‘pacifica’ società.
Suicidio come involuzione sociale
Il punto critico, che determina una svolta epocale, è che oggi siamo in guerra con noi stessi. È la nostra stessa umanità, come l’abbiamo sempre pensata, il nuovo nemico da combattere. Non si tratta però, semplicisticamente, di ridurre la popolazione mondiale. Bisogna promuovere un’eliminazione graduale dei valori tradizionali, elaborare procedure suicide sovra-individuali e disumanizzanti: dobbiamo eliminare l’uomo per sostituirlo con la macchina, mettere cose morte dov’erano forme vitali, occupare lo spazio della natura con dispositivi artificiali ecc.
Il suicidio di cui oggi giudicare i moventi e il valore non è dunque il semplice atto con cui si interrompe la propria esistenza fisica. È un complicato intreccio di procedimenti autodistruttivi, una progressiva autolisi della nostra cultura, un’erosione dei nostri fondamenti spirituali. È un impulso tanatico che la politica, l’informazione, l’economia, la medicina, tutto tende implicitamente ad assecondare. L’uccidersi diventa così la pulsione primaria e inconsapevole di una civiltà che, mentre venera la ragione e il progresso, affonda in un tenebroso cupio dissolvi.
È un processo subliminale, sostenuto da favole progressiste, utopie umanitarie e soteriologie tecnico-scientifiche. La gente vi partecipa con incosciente leggerezza, senza accorgersi dei macabri rituali in cui è coinvolta. La superficie spinosa della realtà è infatti coperta con i morbidi cuscini della retorica, della finzione e del diversivo. Questo ci permette di appoggiarvi il nostro nobile fondoschiena senza ferirlo, e di esser condotti docilmente verso il nostro destino. Si avvera in sostanza quello che dice Toynbee: “le civiltà muoiono per suicidio”.
Collusione tra individuo e sistema
Anche quelli che denunciano la malvagità dell’élite, la corruzione che dilaga, che predicano o inveiscono contro il degrado dei tempi come dei Savonarola, restano spesso legati al vecchio paradigma del Potere che uccide, saccheggia e falsifica. Non colgono questo desiderio suicida che è entrato in noi, che quotidianamente respiriamo come un inodore gas atmosferico. E anche quando, magari confusamente, lo percepiamo, vi siamo così psicologicamente adattati che ci è difficile riconoscere i modi sottili con cui gli offriamo consenso e complicità, capire cioè quanto noi stessi siamo segretamente tentati dall’idea di liquidare la nostra umanità.
Ci servirebbe una più intima consapevolezza. Dovremmo rischiarare quelle zone buie dell’anima dove l’uomo tradisce sé stesso, dov’è incapace di amore e di rispetto per sé. Vedere i vari cordoni ombelicali che ci legano al sistema e attraverso i quali ne assorbiamo la falsità, la violenza, l’avidità. Pensando che il Male sia fuori di noi, ci sentiamo innocenti. Ma il bisogno di accusare può allora rivelare il desiderio di scusare sé stessi. Rovesciando un vecchio brocardo otteniamo così una nuova verità: accusatio non petita, excusatio manifesta.
In realtà è il sistema stesso a incoraggiare le polemiche, a rendere il criticare e il giudicare un atto compulsivo, a chiudere il nostro pensiero nell’esteriorità dei fatti e dei concetti, nelle logomachie interminabili. Il nostro è il tempo dei dibattiti, delle tavole rotonde, dei convegni, dei seminari, dei percorsi culturali, delle inchieste, della dissenteria verbale, dell’incontinenza libresca, dei giri viziosi del pensiero. Essenziale è che la mente sia sempre ‘fuori di sé’, stordita dal suo continuo girare su sé stessa.
Non v’è infatti nulla di più antitetico agli scopi della società moderna di uno sguardo interiorizzato, di un’anima che nel silenzio si ferma, si chiarifica e si comprende. Perciò si fa un continuo vociare, per ostacolare o falsificare tutto ciò che potrebbe sviluppare nei cittadini un’autocoscienza, perché la consapevolezza di sé segnerebbe la fine del grande piano suicida.
Il sé e il nulla
Funzionale a disegni di morte è invece la nostra visione economica della vita, considerata non più come dono, gratuità naturale o metafisica, ma come una proprietà privata di cui disporre a piacimento. “Il mio corpo, il mio io” sono espressioni che sembrano eludere ogni relazione con lo spirito e indicare un puro ‘avere’ biologico. “Io sono questo” equivale a “io ho questo”, ne rivendico la titolarità, e quello che ne faccio non comporta una mia responsabilità verso altri. Questa idea può giustificare tanto l’intossicare il ‘mio’ organismo quanto il cambiare il ‘mio’ sesso o l’abortire il ‘mio’ feto, senza render conto a nessuno. Dato che ognuno dispone del suo capitale psicosomatico come meglio crede, anche l’uccidersi assume natura puramente privata e insindacabile.
Si produce così una perdita del senso dell’essere. Perché se il mio ‘sono’ coincide col mio ‘possiedo’, la perdita di quello che ho mi può ridurre a un nulla. Nella sua incapacità a essere, l’uomo si aggrappa perciò alle cose, alle macchine, a tutto ciò che è ‘funzione senza sostanza’. Il suo sé viene tradotto in una serie di informazioni, in un’astrazione senza significato vitale. L’essere gli appare un’assurdità al punto che può vedere nel suicidio la massima espressione della libertà, il suo inalienabile diritto di protestare contro il non-senso della vita.
Una civiltà votata al suicidio deve perciò privare la coscienza dei suoi stabili appoggi filosofici o religiosi, agganciarla al vuoto. Deve promuovere uno Zeitgeist fatto di ‘punti di vista’, impregnato dell’assoluta relatività del giudizio, di un esistenzialismo malato, dove nessun senso è dato a priori, nessuna verità è rivelata, nessun Dio veglia sull’universo. L’uomo ha davanti a sé l’indefinita libertà del nulla, può scegliere tra infinite opzioni, di cui egli stesso stabilisce arbitrariamente il senso e il valore.
È proprio imponendoci questa illusione di libertà che il nuovo totalitarismo culturale ci trasmette il suo comando suicida. Ce lo comunica con voce quasi materna, come avvolgendo una pastiglia di cianuro in una glassa zuccherosa. Non deve sembrare un suicidio, ma la realizzazione dei nostri desideri, una definitiva emancipazione, rottura di ogni ceppo che ci leghi a un Logos, a una Natura, a una Legge che ci preceda e ci determini. Quello che i nostri leader politici, i nostri munifici ‘filantropi’, i nostri maître à penser ci dicono, è in fondo una cosa sola: “se volete vivere dovete morire”.
Ordine mellifluo e perentorio insieme, che suggerisce quasi una nuova dimensione mistica, evoca l’evangelico “dovete nascere di nuovo”. Ci si comanda di obliterare il nostro passato in una funesta dissoluzione, di sopprimere la nostra idea di famiglia, di sessualità, di identità, di contraddire le stesse strutture generative della vita. Dobbiamo distruggere l’archetipo cosmico dell’antropos per mettere al suo posto l’uomo artificiale, acosmico, agenesico, denaturato, desacralizzato. Uomo senza destino, senza Dio, senza contenuto spirituale.
Il suicidio deve renderci perinde ac cadaver – come recita la vecchia formula gesuitica – simulacri di uomini senz’anima, non-sé in tutto sottomessi agli ordini dei superiori, incarnazioni di una perfetta servitù. In realtà non v’è in ciò nulla di mistico, nessuna palingenesi collettiva. Si cerca molto più prosaicamente di realizzare l’utopia asociale e illiberale di una dittatura del padronato, in cui una ristrettissima classe dominante assuma il totale controllo non solo delle risorse materiali e dei corpi, ma anche dei nostri pensieri e desideri, della nostra stessa percezione del reale.
Tutto il mondo dovrà restare poggiato, in precario equilibrio, sulla punta di spillo di un’oligarchia dai poteri illimitati, non soggetta al rispetto di Costituzioni umane o divine. L’unico intralcio verso questa utopia è rappresentato dal vecchio uomo, con le sue antiquate concezioni, le sue ubbie etiche e religiose. Deve quindi togliersi di mezzo, e per terminarsi, gli sono offerti numerosi mezzi.
Può bere la cicuta farmaceutica, inalare i gas dell’informazione, buttarsi sotto le ruote del progresso, impiccarsi con la corda della scienza, cadere nel baratro di realtà virtuali, spararsi nel cervello proiettili di intelligenza artificiale, esporsi quotidianamente alle letali radiazioni di idiozia emesse dalla Rete, tagliarsi le vene della bellezza, della poesia, della fede ecc. A differenza del suicidio tradizionale, nessuno ricorre a un unico, risolutivo mezzo, ma a una combinazione di espedienti. In realtà, dei tanti che già si aggirano tra noi come anime morte o moribonde, nessuno ha scelto come morire. Anche in questo hanno solo obbedito agli ordini.
L’eterno Pequod
Compiuto questo lungo periplo, possiamo ora tornare alla domanda iniziale: perché ammutinarsi? Per rispondere dobbiamo prima capire che non serve a nulla opporre a questo disegno suicida obiezioni e critiche razionali, o tentare un dialogo con chi comanda. Siamo su una nave in alto mare, e il nostro destino sembra segnato dalla follia di chi la guida e dalla stupidità o passività di chi ne esegue gli ordini.
Nei secoli passati, quando ci si imbarcava per andare a caccia di balene, si stipulava un contratto con l’armatore, accettando pericoli e fatiche, e sottoponendosi in tutto all’assoluta autorità del comandante. Così, si può dire che nascendo siamo saliti su un vascello, all’inseguimento di quel mistero immenso e sfuggente che è la vita. Ma se abbiamo firmato un patto è solo col nostro destino. E nonostante vari accordi sociali ci impongano doveri e responsabilità, non v’è autorità umana che abbia potere sulla nostra anima.
Vivendo, diamo la caccia a noi stessi, al divino Leviatano che nuota liberamente nelle profondità dell’essere, inseguiamo l’Assoluto che è in noi. Aspettiamo che emerga sulla superficie delle torbide acque per ficcargli in corpo i nostri arpioni, ma ogni volta, incurante, distrugge le nostre fragili imbarcazioni, ci strappa le corde dalle mani e si inabissa! Quante volte ci è parso di vederne di lontano l’immacolato, gigantesco candore, o i suoi potenti soffi, presi da un incanto misto a paura!
È una caccia alla conoscenza, il cui scopo non è l’uccidere ma l’apprendere. E non è impresa che si possa osare da soli, ma in quella comunità di mente e di cuore che è la nostra storia, la nostra tradizione. All’ombra di maestri visibili e invisibili, imparando a rispettare le leggi di questo mare senza sponde. Ora remando a forza o spinti dai pensieri che gonfiano le nostre vele, ora incagliandoci in secche o affrontando bufere. Ora ci mettiamo a poppa e osserviamo il nostro passato, il viaggio già percorso. Ora ci spostiamo a prua e scrutiamo dubbiosi il futuro, cercando di dare una rotta alla nostra incerta navigazione.
Ma oggi la nostra nave è comandata da un allucinato capitano Achab, immagine di colui che «commise molti abomini, seguendo gli idoli». Siamo guidati dal suo odio demoniaco per lo Spirito, soggiogati dalla sua insensata smania di uccidere quella balena bianca che è simbolo della nostra naturale libertà, dell’immortale mistero che ci fa vivere. Sappiamo cosa ci attende. La balena si rivolterà contro di noi con la sua massa immane, implacabile Nemesi, e verremo puniti finendo come Giona nelle sue viscere o affogando tra i flutti.
Come possiamo evitare questa tragica fine? Sarebbe del tutto inutile discutere con Achab. Dobbiamo invece liberarci del tenebroso ascendente che il suo delirio esercita su di noi e privarlo del comando, disobbedire. Solo così potremo salvare la mente e il cuore da un rovinoso naufragio, ossia scongiurare il suicidio dell’intelligenza umana. È per questo, io credo, che dobbiamo ammutinarci.