“Non sono razzista ma..”. È da tempo una frase che non si può più pronunciare. In passato utilizzata per esprimere i più garbati distinguo a proposito dell’immigrazione di massa, ormai è stata considerata una sorta di confessione. Il “ma” nega automaticamente la negazione, qualsiasi sia il seguito della frase, per cui il “non sono razzista” viene arbitrariamente cancellato da colui che la frase la riceve: un brutale intervento esterno revoca la legittimazione del vigente rapporto tra significante e significato, modificando sensibilmente questo secondo aspetto, il vertice del triangolo semiotico della significazione.
Tale operazione è possibile solamente intervenendo sul piano della legittimazione, il funzionamento della quale è accuratamente descritto da Jean-François Lyotard nel secondo capitolo de La condizione postmoderna dall’emblematico titolo: “Il problema”. Il diritto di decidere ciò che è vero – ad esempio che la frase “non sono razzista ma” implichi il rifiuto della discriminazione razziale – è per Lyotard un problema essenzialmente prospettico. Il diritto di decidere ciò che è vero o e falso (ad esempio un significato), è strettamente correlato al diritto di decidere ciò che è giusto e ciò che invece è un’ingiustizia. In tale scenario la scienza (semiotica) è legata a doppio filo a politica ed etica che, secondo Lyotard, riposerebbero su un concetto denominato “Occidente”. Lyotard conclude il suo capitolo con l’emblematica chiosa: “Chi decide cos’è il sapere (ossia il significato da attribuire ai significanti, ndA), e chi che cosa conviene decidere? La questione del sapere nell’era dell’informatica è più che mai la questione del governo”.
In tale senso il lavoro culturale dei progressismi si è attivato con lungimiranza attraverso un ripensamento dell’intera cultura occidentale che ha sapientemente coniugato gli strumenti di un relativismo semi-assoluto e di un dogmatismo para-teologico solo apparentemente in contraddizione l’uno con l’altro. L’affermarsi progressivo di significati progressisti corroborati dall’imprimatur della legittimazione accademica e politica ha collocato i difensori dei vecchi significati in un vicolo cieco dal quale non sembra esserci via d’uscita.
In un simile contesto la parte avversa raddoppia la posta: non basta più proclamare di non aderire ai vecchi significati, occorre rinnegarli pubblicamente. Torna in auge l’autodafé dell’Inquisizione spagnola. È ciò che hanno suggerito accademici come Ibram Kendi (Boston University) che, intervenendo ad un webinar dell’Università di Stanford, ha dichiarato come non sia più sufficiente non dirsi razzisti, ma serva una pubblica dichiarazione di antirazzismo.
Lo abbiamo visto: Lyotard attribuiva un significato centrale all’Occidente come concetto prospettico. Se inquadriamo i significati da una prospettiva occidentale (ossia bianca), la dichiarazione di Kendi ha una sua logica: le istituzioni decidono ciò che è giusto e ciò che non lo è, ossia decidono i significati dei significanti da una prospettiva eurocentrica, dunque implicitamente razzista. Richiedere invece aperte autoproclamazioni di antirazzismo demolisce alla radice il sistema del consenso e della legittimazione su cui i significati riposano.
Il problema che però si apre è quello dell’emersione, che connota questa evoluzione come un mero susseguirsi di atti di forza nichilistici: comanda chi ha più forza bruta ed astuzia per imporsi a danno dell’altro, manca totalmente una prospettiva condivisa. Si compie così il tramonto di ogni trascendenza politica, specialmente nelle repubbliche liberaldemocratiche. In tal senso, lo stesso concetto di Stato viene ridefinito e viene a corrodersi, diventando una sorta di involucro pronto a riempirsi, secondo la ventura del caso e delle forze che collidono al suo esterno, di significati sempre nuovi. Le opposizioni, quali che siano, subiscono la violenza coercitiva dei padroni dei significati, pronte però a rendere la pariglia al primo momento di debolezza di questi.
Il concetto di alternanza democratica scompare, sommerso da una brutale lotta per la vita e per la morte.
Questo stato di precarietà totale è lucidamente percepito dagli apparati al potere, che corrono ai ripari:
il potere innesca una corsa a leggi sempre più liberticide in una sorta di ideazione pretraumatica ma tutt’altro che paranoide. Tale tendenza è osservabile in tutti i paesi, dalle liberaldemocrazie occidentali ai paesi “populisti”, dalle “democrature” sudamericane fino al totalitarismo cinese ed alle monarchie musulmane del Golfo Persico. In tutti i paesi del mondo le tecnologie e le leggi deputate al controllo rappresentano il settore chiave dei rapporti tra governi ed opposizioni, e non si intravedono mutazioni di tendenza: questo processo affonda dunque le sue radici precisamente nel campo di battaglia semiologico ed ancor più in quello di narrative ed immagini.
L’importanza di tale campo di battaglia è stata sottolineata implicitamente dallo stesso Kendi in occasione delle ultime elezioni presidenziali, quando si è particolarmente soffermato su espressioni quali “legal vote” e “personal responsibility”, a sottolineare la natura eminentemente linguistica del problema. Resta da intendersi se le varie lingue del mondo, in particolare quelle di origine europea, possano essere ripensate in chiave “inclusiva” e “antirazzista” oppure se, essendo state codificate ed originate in tempi certamente “razzisti” (nonché “patriarcali”, “omofobi” etc.) non debbano invece essere abolite tout court e sostituite con qualcos’altro di esterno all’orizzonte prospettico occidentale, magari creato ex novo.
Tale problematica investe la stessa legittimità degli Stati che in linea teorica sarebbero chiamati ad avallare tali provvedimenti, ma che anch’essi sono figli del medesimo orizzonte semiotico. Ne conseguirebbe che nessuno Stato, perlomeno in Occidente, sarebbe pienamente legittimo. Un messaggio radicale le cui conseguenze a lungo termine possono essere tanto pericolose quanto imponderabili.