Un’intervista con Alessandro Giuli sul suo programma Vitalia e sul senso del sacro a cura di Gian Luca Diamanti
Alle prese con i serpenti di Angizia, con in mano le spighe di grano di Kerres/Cerere, o alzando al cielo degli Appennini molisani la tavola osca di Agnone e la lancia del Marte italico: sono alcune delle tappe di un lungo viaggio nell’anima della prima Italia realizzato da Alessandro Giuli con sensibilità e sapienza per RaiDue, nel nuovo programma intitolato Vitalia, condotto in collaborazione con Nicola Mastronardi.
Alessandro Giuli, giornalista, scrittore, conduttore televisivo, ha così intrapreso una nuova avventura, stavolta davvero molto coraggiosa per gli standard della Tv di oggi: raccontare il sacro, cercandolo nella nostra terra, sui monti, sulle coste, nei boschi d’Italia, sulle tracce dei riti e delle tradizioni che, nonostante tutto, anche attraverso le feste popolari, continuano a tramandare la perennità, specie nelle aree apparentemente più marginali del nostro Paese, come gli Appennini…
Che senso ha parlare oggi degli dei più antichi di questa nostra terra? E perché hai voluto una trasmissione come Vitalia?
Ha senso nella misura in cui si voglia considerare il sacro, più ancora che le divinità in quanto tali, come l’orizzonte multiforme e invalicabile del nostro vivere; sia pure inconsapevolmente, come diceva Eliade. “Vitalia” nasce anche per ricordarci di ciò che non ha smesso di palpitare, di ardere, sotto il velo delle nostre feste popolari, delle nostre relazioni comunitarie, delle nostre istituzioni, delle nostre abitudini e consuetudini. L’Italia è la Terra della vita sempre verde e non smetterà mai di esserlo. “Vitalia” è un atto d’Amore.
Quale era, secondo te, secondo la tua conoscenza, l’essenza del rapporto col divino degli antichi popoli italici e dei Romani?
Per lo meno nell’età più remota, diciamo così, si trattava di un rapporto di “coessenzialità”: al di là della devozione popolare, sul piano della conoscenza sacerdotale non c’era distinzione tra umano e oltreumano se non per gradi d’intensità e potenza del numinoso appartenente a entrambi. In altre parole: l’uomo reintegrato nella propria natura originaria era consapevole di essere un dio mortale e considerava gli dèi come uomini immortali. Tutta la natura, in generale, era permeata da presenze, forze, influenze e intelligenze sottili percepite in modo abbastanza nitido. Perché la trascendenza o è immanente o è un’astrazione intellettuale, un’allucinazione. Su questo aveva ragione Feuerbach: il dio moderno è la proiezione immaginaria di un’essenza irrealizzata. Gli antichi italici con gli dèi stipulavano contratti, ragionavano in modo pratico ma non per questo spoetizzante, quasi da pari a pari. La pax deorum romana era un accordo fisico e metafisico con gli dèi tutelari dell’Urbe, un patto sacro e civico al tempo stesso che garantiva ordine e concordia.
Ci sono luoghi dove il divino si manifesta in maniera più evidente? Gli Appennini, i loro boschi, le loro cime possono essere considerati come un grande altare d’Italia?
Nessun luogo è privo del proprio genio. Così ci insegna Servio. Quanto agli Appennini, come ogni luogo elevato o comunque isolato dal frastuono dell’uomo-massa e dai suoi pensieri ossessivi, sono felicemente abitati dall’anima loquente della natura che chiamiamo Pan.
Ma gli dei in Appennino ci sono ancora, o sono volati via?
Gli dèi non volano mai via, sono qui, sono sugli Appennini come sulle rive del Tirreno, negli abissi e sulle vette, sono convocati quotidianamente da noi attraverso i giorni della settimana, sono nelle stelle e nei pianeti che osserviamo in rispettoso silenzio, sono in ogni aspetto della manifestazione, anche i più infimi. Tutto sta a comprendere che cosa siano gli dèi e perché, in un certo senso, abbiano bisogno degli uomini per segnalare la propria presenza. Può sembrare un approccio un po’ spiazzante, eppure perfino Jung sarebbe abbastanza d’accordo con questa risposta nient’affatto junghiana. Ma non è un discorso che si possa approfondire qui e ora.
Tra i di indigetes, le divinità italiche delle origini, qual è quella a te più cara, quella che senti più vicina al tuo essere e perché?
Ciò che posso dire è che mi è particolarmente congeniale la sfera del fuoco, alla maniera degli italicissimi Pitagora e Empedocle. Per antiche risonanze.
Pio Filippani Ronconi diceva che per capire la storia d’Italia occorre contemplare l’alterno prevalere dei due archetipi della nostra Nazione: Italia e Roma. Lo stesso vale secondo te anche dal punto di vista spirituale?
Con tutto il rispetto per alcune profonde intuizioni metafisiche di Filippani-Ronconi, è di tutta evidenza che non c’è alcuna opposizione archetipale tra Roma e Italia. L’Italia è romana o non è, almeno quanto Roma è naturaliter italiana; e ciò in quanto Roma, genus mixtum latino-etrusco-sabino, è una forza formatrice e la sintesi universale delle energie latenti in ogni ceppo italico delle origini.
Il link per vedere le prime tre puntate di Vitalia su RaiPlay: https://bit.ly/Vitalia-AlleOriginiDellaFesta