Gli immigrati pagheranno le nostre pensioni? E' un'altra bugia
di Michele Rallo - 07/07/2017
Fonte: Michele Rallo
Idealmente, questo articolo è la continuazione di quello della settimana scorsa. Articolo dedicato – si ricorderà – ad una bugia ricorrente, quella secondo cui gli immigrati farebbero “i lavori che gli italiani non vogliono più fare”.
Strettamente connesso a quella, è una seconda bugia, secondo la quale gli immigrati “pagheranno le nostre pensioni”. O, meglio, è una bugia che potrebbe diventare realtà se continueremo a far emigrare i nostri giovani in cerca di un lavoro e, contemporaneamente, a favorire l’ingresso e la “integrazione” degli stranieri; integrazione il cui primo passo è, appunto, l’acquisizione di un posto di lavoro.
Già, perché i contributi previdenziali non sono versati da italiani o da stranieri, ma da chi lavora, a prescindere dal colore della pelle. Se si fanno lavorare gli italiani, i contributi INPS (e in prospettiva “le nostre pensioni”) li pagheranno gli italiani; se si fanno lavorare gli stranieri, ovviamente i contributi li pagheranno loro.
Dunque, il problema sta a monte. Occorre dare lavoro agli italiani. Occorre dare lavoro stabile, quello che consente di fare un mutuo e di metter su una famiglia. Occorre favorire il turn over, e non mandare la gente in pensione a settant’anni. Così come occorre una politica fiscale che invogli chi ha i soldi ad investirli in patria, piuttosto che a piantare baracca e burattini ed a vendere tutto alle multinazionali.
Né si può presentare l’immigrazione come una sorta di sostituzione obbligata di popolazione, perché “gli italiani fanno pochi figli”. Gli italiani fanno pochi figli perché sono responsabili, perché non formano una famiglia stabile se non sono sicuri di poterla mantenere, perché non mettono al mondo figli senza la prospettiva di poter garantire loro un avvenire decente. Invertire l’andamento demografico negativo è semplice, semplicissimo: basta una politica che crei lavoro, benessere, prospettive per il futuro; e non licenziamenti, disperazione e, appunto, emigrazione.
Ma – aggiungo – il nocciolo del problema non è tanto chi pagherà le nostre pensioni, quanto piuttosto che cosa saranno le nostre pensioni. Giacché è chiaro che le “riforme” imposteci dai poteri forti mirano semplicemente a cancellare il sistema previdenziale fino a pochi anni fa vigente in Italia (e in Europa) ed a sostituirlo con un trattamento di sopravvivenza, buono tutt’al più per accompagnarci alla tomba nel più breve tempo possibile. E, ad abbreviare al massimo la durata di questo “assegno di accompagnamento”, penseranno le varie spending revue e, in genere, le “riforme che l’Europa ci chiede”: prima fra tutte, quella del sistema sanitario (riduzione di tutte le spese, chiusura di ospedali, liste d’attesa poliennali, aumento vertiginoso dei costi per l’utenza, eccetera).
La verità è che l’unico sistema decente di previdenza era quello di una volta: quello del “metodo retributivo” che, al raggiungimento di una decente soglia d’età (solitamente attorno ai 60 anni) assicurava un trattamento il più possibile vicino all’ultima retribuzione. I torquemada della macelleria sociale, invece, hanno inventato un altro sistema, il “metodo contributivo”, secondo cui il pensionato riceverà “quello che ha versato” durante la sua vita contributiva: cioè – soprattutto in tempi di globalizzazione economica – poco più che niente.
E a quei discolacci di sovranisti che chiedono che lo Stato emetta moneta per assolvere ai suoi còmpiti ineludibili (compreso quello di assicurare a tutti una pensione decente) viene risposto che, così facendo, si contravverrebbe alle “regole del mercato”. Quello stesso “mercato” che – mi permetto di aggiungere – è il nemico dichiarato degli Stati e dei Popoli. Popoli che si vogliono affamare, strangolare, ridurre in miseria, privare di ogni centesimo di denaro che ecceda le risorse strettamente necessarie alla sopravvivenza. Il resto deve essere drenato dagli Stati con la fiscalità; e, gli Stati – a loro volta – devono reinvestire tutto il denaro eccedente l’indispensabile nel pagamento degli interessi di un debito pubblico in costante crescita.
L’immigrazione di massa è uno degli elementi essenziali per la realizzazione di un tale perverso disegno. E non soltanto perché deve distruggere l’identità (e l’anima) dei Popoli, ma perché deve sostituire il maggior numero possibile di lavoratori dei paesi progrediti (organizzati, sindacalizzati, coscienti di avere dei diritti) con manodopera d’importazione la più povera, la più miserevole, disposta a lavorare senza tutele non soltanto per il presente, ma anche per il futuro.
Ciò dovrebbe consentire – a breve scadenza – di poter ulteriormente “perfezionare” il nuovo sistema pensionistico “contributivo”, adeguandolo definitivamente ai livelli medi africani.
Quanto alla “platea” dei pensionati di domani ed a chi pagherà i relativi contributi, ci viene in soccorso una recente previsione statistica dell’ISTAT, l’Istituto Centrale di Statistica (non un qualche pericoloso organismo populista), secondo cui fra meno di cinquant’anni, nel 2065, più di un terzo della popolazione italiana sarà costituito da “immigrati residenti”: 20 milioni di stranieri su un totale di 54 milioni di abitanti. Questo – naturalmente – se gli italiani continueranno ad affidare il futuro dei loro figli alle forze politiche immigrazioniste.
Ecco, dunque, ciò che sta a monte della seconda bugia dei buonisti. A pagare quel simulacro di pensioni che ci ritroveremo saranno i lavoratori italiani; soltanto che i “lavoratori italiani” del 2065 potrebbero per un terzo chiamarsi Jussuf o Alì.
Ma questo sarebbe niente. Perché le pensioni del nostro futuro potrebbero essere pari a quelle che Jussuf o Alì percepirebbero nel loro paese. Solo che, grazie alle “riforme” oltre che alla “accoglienza”, quelle pensioni potrebbero essere diventate anche quelle di Giovanni o di Filippo.
Questo – ripeto – se il popolo italiano e tutti gli altri popoli europei non troveranno il coraggio di mandare in pensione – è proprio il caso di dire – chi progetta per loro un futuro del genere.