Green Pizza
di Livio Cadè - 24/10/2021
Fonte: EreticaMente
Quando in una società prevalgono forze mortifere che calpestano anche i più fondamentali principi di libertà e giustizia, darsi volontariamente la morte è l’atto di estrema protesta. Nel 1963 un bonzo vietnamita si sedette in mezzo a una via di Saigon; un altro monaco lo cosparse di benzina e gli diede fuoco. Con quel gesto terribile si sperava di indurre un cambiamento nella politica di un governo filo-cattolico che aveva vietato la libertà di culto alla popolazione buddista.
Sconvolge ancora vedere quell’uomo avvolto dalle fiamme mentre siede imperturbabile nella posizione del loto. Il suo cuore fu ritrovato intatto tra le ceneri e ancor oggi è conservato in una teca e venerato. Reliquia preziosa per chi vede nel cuore la sede dell’anima e dell’amore. Ma gli scienziati, che non vi vedono altro che una pompa, non capiranno. In fondo, da questa distinzione dipende il senso che diamo alla vita. Per me, la compassione contenuta nel cuore di quel monaco era tanto potente da far barriera alle fiamme.
In realtà, il buddismo, come il cristianesimo, vieta il suicidio. Togliersi la vita è considerato un grave peccato, atto che provoca una maculazione karmica negativa e una cattiva rinascita. Tuttavia, la dottrina buddista non implica una condanna assoluta e preconcetta del suicidio, perché le manca quell’idea della vita come “dono di Dio” che sembra rendere il suicidio un’offesa al Donatore.
Non è mia intenzione mettere a confronto visioni cristiane e buddiste. Osservo solo come nel buddismo il carattere etico del suicidio sia determinato dalla condizione mentale di chi si uccide. Privarsi della vita è un atto il cui senso e la cui natura morale dipendono dalle sue motivazioni. Werther si uccide per una delusione amorosa, madame Bovary per sottrarsi ai debiti, gli Zeloti a Masada si uccisero in massa per sfuggire ai supplizi dei Romani, Catone si diede la morte per protestare contro la tirannia di Cesare, per coerenza con le sue idee di libertà.
Anche se non è possibile porre questi suicidi su un unico piano, mi pare che in tutti loro si manifesti come impulso fondamentale la riaffermazione di una libertà di fronte all’oppressione di fattori fisici, emotivi, economici, politici. In quest’ultima categoria potremmo comprendere anche il ‘minacciato suicidio’ di Gandhi, che nella sua lotta per l’indipendenza dell’India ricorse più volte allo sciopero della fame.
Il jainismo, religione cui il Mahatma apparteneva, ammette infatti il suicidio mediante il digiuno. L’astensione totale dal cibo svolge tradizionalmente un compito di purificazione psicofisica dell’individuo. In Gandhi il digiuno trascende questa dimensione soggettiva e appare tentativo di purificare un intero sistema nazionale. Questa prassi ha trovato in seguito molti emulatori, diventando emblema della resistenza passiva a un male politico o sociale.
Ma il monaco vietnamita introduce nel sacrificio di sé un più alto valore spirituale; il suo gesto è pervaso infatti da un senso di pietà per i suoi persecutori. Egli non rivolge alcuna critica ai governanti, esprime solo la speranza che si ravvedano, per il loro stesso bene. Non prova ostilità verso di loro, secondo il principio per cui i veri nemici sono dentro di noi.
Nel ’69, imitando l’esempio di quel monaco, alcuni studenti cecoslovacchi si diedero fuoco in pubblico. Il primo, l’unico di cui ricordiamo il nome, fu Jan Palach, un ragazzo di vent’anni. Erano gesti scioccanti contro un regime di cui denunciavano la violenza, la sistematica censura, l’informazione falsificante. Bruciarono con loro quegli aneliti di libertà che la cosiddetta “primavera di Praga” aveva risvegliato e che i militari sovietici avevano brutalmente represso.
Dopo di loro, in vari Paesi del mondo, altri si immolarono tra le fiamme per richiamare l’attenzione su ingiustizie e soprusi. Spinti non dalla disperazione ma dalla speranza di favorire una presa di coscienza nell’opinione pubblica o addirittura una trasformazione politica e sociale. Quasi una forma di anti-terrorismo in cui il suicida non scarica sul nemico il proprio odio, ma sembra attirare su di sé la violenza dell’altro, e consumarla nel suo gesto sacrificale perché divenga visibile a tutti.
Adottare tali strumenti per denunciare l’attuale tirannia, la sua brutalità e falsità, appare tuttavia anacronistico. L’informazione ufficiale è oggi molto più corrotta e manipolata che nella Cecoslovacchia comunista del ’69 o nel Vietnam del ’63. Un gesto di protesta così eclatante verrebbe nascosto o contraffatto. Inoltre, la coscienza collettiva vive in un tale stato di dipendenza dai notiziari di regime e in una così arrendevole osmosi col Sistema che ogni contestazione, anche pacifica, diventa per lei atto terroristico, “odiosa violenza”.
È dunque illusorio sperare, con una breve fiammata o con un lungo sciopero della fame, di inceppare la macchina del totalitarismo che avanza, di far breccia nella coscienza dei media o del Potere. Come fece la first lady vietnamita nel ’63, qualche cinico giornalista o politico potrebbe definire il rogo dell’eroe un “barbecue show”, o pretendere per chi digiuna un TSO. Ogni gesto idealistico, quanto più alto e luminoso fosse, tanto più in fretta verrebbe banalizzato, condannato e dimenticato.
Questo dipende da un drammatico abbassamento della statura morale e intellettuale della società. Siamo infatti circondati da nani la cui bassezza appare ormai misura normale dell’uomo. Questo ha permesso l’imporsi di una nano-dittatura capeggiata da troll, nani particolarmente aggressivi e malvagi, abili nel dissimulare la loro vera natura.
Sono aborti dello spirito, creature grottesche che votano la loro esistenza al tesaurizzare, al capitalizzare, all’accumulo di beni materiali. Per converso, odiano e disprezzano tutto ciò che è spirituale. Esseri avidi, dominati da pulsioni sadico-anali, inclini alla crudeltà e al controllo degli altri. Gli atti più abbietti sono per loro virtù, se creano profitto. Purtroppo il mondo politico e mediatico è sotto il loro controllo.
E non possiamo certo aspettarci che dei troll, la cui anima dimora in antri e cunicoli tenebrosi – a qualcuno potrebbero ricordare le anse di un intestino e masse fecali – amino la purezza e la luce o che riconoscano la nobiltà di un sacrificio. È viceversa naturale che godano nell’infliggere torture sociali, nel diffondere informazioni false e angoscianti, nell’elaborare manovre politiche tese a produrre sofferenza.
Per questo a un troll può sembrare ‘geniale’ affamare e tormentare quelli che non gli obbediscono. Non è certo necessario esser geni per capire che un cane preso a calci guaisce e, lasciato senza cibo, muore. Così, anche un idiota capirebbe che il Green Pass è l’equivalente politico di quel banalissimo ricatto domestico con cui i genitori minacciano di punizioni e privazioni i figli recalcitranti, forma di persuasione violenta che non ha nulla di geniale.
Ma dobbiamo tener presente che la prospettiva di un troll è condizionata da una patologica malvagità. ‘Geniale’ è per lui tutto ciò che stimola la sua libido perversa. Come quel giudice nano cantato da De André, che trovava piacere nel mandare la gente al patibolo. Per questo la logica tortuosa e maligna di un troll può risultare incomprensibile a una persona sana.
Si prenda ad esempio questo paradosso: secondo i troll, chi si ‘vaccina’ ne trae unicamente vantaggi, mentre gli altri non solo si espongono al rischio di ammalarsi e morire ma possono subire anche molte amare conseguenze economiche e sociali. Quindi, a sentire la propaganda troll, il miracoloso elisir non solo garantisce una protezione sanitaria esente da rischi ma consente anche la conservazione di libertà e diritti che altrimenti vengono negati. Inoltre – costo per la collettività a parte – è offerto gratuitamente dallo Stato.
Dunque, seguendo la logica troll, si potrebbe sostenere che chi non si ‘vaccina’ è un folle o un masochista. Invece, sorprendentemente, si dice che è un ‘opportunista’. Cioè, secondo il senso comune, uno che cerchi di trar vantaggio dalle circostanze. Ma quali sarebbero i vantaggi alla base del diniego e della resistenza di milioni di persone che rifiutano ostinatamente il salvifico ‘vaccino’ e tutti i privilegi che comporta? Ufficialmente non ve ne sono.
E chi non si ‘vaccina’ non ritiene certo di trar profitto dalla ‘vaccinazione’ degli altri, dato che la considera inutile e pericolosa. Definirlo ‘opportunista’ ha quindi senso solo se ammettiamo che il vantaggio consista nel non ‘vaccinarsi’. Verità forse sfuggita per un lapsus, in un rigurgito di cattiva coscienza. E ciò spiega perché i troll studino vessazioni sempre più pesanti, ricatti sempre più odiosi per scoraggiare l’opportunismo di chi cerca di sottrarsi ai “danni da vaccino”, ovvero chi tenta di frustrare i loro piani e la loro crudeltà.
Del resto, ogni epoca ha conosciuto forme di tirannia, dittature violente e persecuzioni sociali. Ma nella loro malvagità i tiranni hanno a volte qualcosa di grandioso. Noi invece siamo dominati da nani. È come esser divorati non da una tigre ma da un branco di ragni. Presi in una ragnatela di menzogne, imprigionati in bozzoli, avvelenati da una moltitudine di aghi ipodermici, come minuscole zanne. Evidentemente è la tirannia che ci meritiamo, fatta su misura per noi.
Sento infatti che un italiano su due è favorevole al green pass. Chi vede il bicchiere mezzo pieno si consolerà. Chi lo vede mezzo vuoto, si lamenterà del fatto che mezza Italia soffra di nanismo morale o cognitivo. Una mia rudimentale indagine statistica porta a risultati ancor più sconfortanti. Quando qualcuno mi parla della sua scelta di ‘vaccinarsi’, immancabilmente – nel 100% circa dei casi – ricorre infatti una comune motivazione: poter uscire la sera a mangiar la pizza con gli amici o la famiglia.
Altre ragioni vengono in genere taciute, forse perché meno rilevanti, o ritenute ovvie. Di fatto, mentre chi non si ‘vaccina’ lo fa perché “incosciente e irresponsabile” – questa è la formula canonica – i ‘vaccinati’ sembrano aver deciso sulla base di un’irrefrenabile impulso a recarsi in pizzeria. Pronti a farsi dieci dosi pur di procurarsi l’agognato lasciapassare per la Margherita o la Quattro Stagioni.
Perciò, chi meditasse di darsi alle fiamme, di fare scioperi della fame o di emulare tragici gesti alla Yukio Mishima o alla Dominique Venner, sperando di mostrare a questa società la sua abiezione, di svegliarla dal suo sonno mediatico, lasci perdere. Il valore simbolico del suo sacrificio sarebbe pari alla sua inutilità pratica. Al massimo, dopo aver deprecato la violenza di quei no-vax che prendono a testate i manganelli della polizia, la gente farebbe qualche battuta sulla follia di chi preferisce il suicidio a una buona pizza.