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I classici insegnano la diversità, attualizzarli vuol dire falsificarli

di Eva Cantarella - 20/02/2017

Fonte: Il Corriere della Sera


Il titolo è provocatorio: A che servono i Greci e i Romani? Riferito alla cultura classica, l’uso del verbo «servire» denuncia i danni procurati da una politica legislativa scolastica e una ormai diffusa mentalità che hanno svilito il concetto di cultura (e in particolare quello di cultura classica) trasformandola in qualcosa che deve «servire», nel senso di produrre un’utilità immediata, fondamentalmente di tipo economico. «A che servono i Greci e i Romani?» (pagine 147, euro 12)
Da questa considerazione prende lo spunto il nuovo libro di Maurizio Bettini, uno degli antichisti che negli ultimi anni ha dato alcuni tra i più interessanti contributi alla discussione sullo stato della cultura classica e sulla possibilità della sua sopravvivenza. Dopo aver fondato all’Università di Siena, dove insegna, il Centro «Antropologia e Mondo antico», Bettini ha sperimentato, a livello scientifico e didattico, nuove forme di approccio ai classici, che in questo libro illustra a partire da quello che giustamente ritiene il problema di partenza: come far capire ai giovani la bellezza e l’utilità (esistenziale, non mercantile) della cultura classica, la sua capacità di dar loro quel senso critico che li accompagnerà e li aiuterà nelle scelte di tutta la vita?
La risposta, dice Bettini, non può che consistere nell’introduzione nelle scuole di un nuovo paradigma didattico, che inserisca lo studio della lingua e la letteratura in un contesto più ampio, che consenta ai giovani di far propria quella che egli chiama la nostra «enciclopedia culturale», composta oltre che dal patrimonio culturale «visibile» (quadri, sculture, biblioteche...), anche e forse soprattutto da quello fluido e astratto fatto di beni che non si possono né vedere né toccare ma che ci mostrano la continuità della storia che ci unisce agli antichi: a partire naturalmente da quella della lingua (il latino, ovviamente), che attraverso i millenni abbiamo continuato a leggere e studiare, ereditando, con esso, il mondo e la cultura di chi se ne serviva: dai poeti ai filosofi, dai tragici ai retori, ai «graffitari» che istoriavano i muri di Pompei.
Senonché la memoria, anche quella della nostra «enciclopedia culturale», si perde se non coltivata. Cosa, questa, che impone un adeguamento della scuola ai tempi: che non si realizza peraltro, avverte Bettini, come spesso malauguratamente s’intende, «attualizzando» l’antico (un’Iliade senza dei, ad esempio, come quella di Baricco). Attualizzare i classici vuol dire falsificarli, per la semplice ragione che gli antichi erano diversi da noi. Quando nel Settecento i primi antropologi cercavano di capire i costumi dei popoli allora definiti «selvaggi» paragonandoli agli antichi, avevano capito che la comparazione con i diversi (di un tempo e di oggi) consente di capire l’alterità dei nostri antenati.
Sarebbero tante, davvero tante le altre cose da dire su questo libro, che peraltro chi lo leggerà avrà il piacere di scoprire di persona seguendo le «nuove vie» didattiche illustrate da Bettini. E per finire una constatazione felicemente ottimistica: da settimane e settimane due libri sono in testa a tutte le classifiche di vendita: uno è dedicato alla bellezza del greco, l’altro a quella del latino. Non sono scritti da due nostalgici del buon vecchio liceo, sono scritti da due giovani. Due tra i tanti giovani che intuiscono la bellezza e la ricchezza interiore che la cultura classica darà loro per tutta la vita. Sempre che, beninteso, noi saremo in grado di dar loro quello che aspettano e meritano: una scuola adeguata ai tempi, che è nostro dovere di cittadini impegnarci a realizzare.