I contagi e l’immortalità dell’anima
di Livio Cadè - 14/12/2020
Fonte: Ereticamente
Non capisco perché oggi la gente parli tanto di contagi e quasi mai dell’immortalità dell’anima. Come se un virus fosse più importante della vita eterna. Ma la nostra società, nella sua concretezza mal posta, dà eccessiva importanza ai fatti, ossia ai fenomeni e alle apparenze. I contagi son fatti e in quanto tali ci ricordano che siamo mortali. Potrebbero essere fatti immaginari. Tuttavia, ogni fatto ci ricorda la nostra caducità, sia esso una vecchia sedia, un sogno o un lampo nella notte.
I fatti sono oggetti evanescenti e labili, mentre l’anima è concreta e immortale. E i fatti resterebbero avvolti da una tenebra perenne se l’anima non li illuminasse dando loro un senso e un valore. L’uomo è dunque sospeso tra due mondi, quello dei fatti e quello dell’anima, tra le percezioni incostanti e le essenze immortali, tra il destino precario della carne e la libertà delle idee. E guai alle idee che in lui diventan fatti, concetti induriti dal rigor mortis della saccenza e dell’erudizione.
Dato che la sua natura partecipa tanto dei fatti quanto delle idee, l’uomo è dunque in parte mortale e in parte immortale. Da un lato è soggetto alla necessità dei fatti, dall’altro ne è sciolto. Non potrebbe sapere di essere effimero se non vi fosse in lui qualcosa di eterno. E se può vedere qualcosa della sua natura finita, è solo perché questa poggia sullo sfondo del suo essere infinito. A rigore, si dovrebbe parlare anche di innatalità dell’anima, perché ciò che non può morire neppure può nascere. Nascita e morte sono semplici porte attraverso le quali l’anima entra ed esce dal mondo.
Ovviamente nessuno potrà mai portare prove scientifiche di una realtà che trascende i fatti. La scienza si muove tra fatti e tempo, spazio e causalità. E l’anima non è un cosa o un dove, un quando o un perché. Contiene tutto senza esserne contenuta. Forse solo ai limiti della materia, per paradossi, la scienza ne intuisce le invisibili orme. Ma non solo l’anima è inattingibile alla scienza. Gli stessi fatti le sfuggono, è incapace di spiegarli, perché il più semplice fatto implica un’infinità di nessi e presupposti.
Nonostante le sue molteplici e sommarie descrizioni del mondo, nessuna conoscenza scientifica sarà mai adeguata alla realtà. Le stesse parole, in quanto riflessi di fatti o di relazioni tra fatti, non potranno mai esaurire il significato del reale. Solo l’anima coglie in sé stessa il senso di una totalità e dei suoi valori. Così l’uomo può avere un’intuizione di quello che sta oltre e dietro i fatti. È ciò che chiamiamo, impropriamente, fede.
Purtroppo, la fede nell’immortalità sembra averci abbandonato. Al suo posto nutriamo una fede profonda nei contagi e nella morte. Ci infettiamo così con pensieri e immagini che deturpano il nostro volto originario e offendono la dignità senza tempo dell’anima, il cui scopo è creare bellezza. Il pensiero dell’uomo, i suoi ricordi e la sua coscienza sono la musica dell’anima, e il corpo è come un flauto in cui l’anima soffia. Nascono così opere sublimi, in cui l’anima ama rispecchiarsi e deporre un seme di immortalità.
Ma per la scienza anche le nostre idee più elevate, i nostri sentimenti più profondi, sono mere secrezioni di un sistema nervoso. Come potrebbero scientificamente sopravvivere alla distruzione del corpo? Se il morire ci appare la fine d’ogni cosa è solo perché un mondo abitato non da anime ma dai disegni casuali di atomi e molecole sembra condannarci al nulla. La vita è ridotta a un mandala tracciato sulla sabbia e subito disfatto. Nostro padre è il tempo, quel Saturno che divora i suoi figli, nostra madre è la storia, ovvero una catena di fatti mortali. La morte dell’uomo moderno segna così il trionfo del finito sull’infinito, dell’effimero sull’eterno.
In realtà, la morte ha poteri limitati. Dissolve l’esistenza dei fatti come neve al sole. Ma non può interrompere la vita delle Idee, che sono eterne, e non può cancellare ciò che hanno impresso nel cuore dell’uomo. Gli uomini un tempo possedevano l’istinto dell’immortalità, che mostrava loro le cose sub specie aeternitatis. Millenni di guerre, carestie e pestilenze non hanno mai tolto all’uomo la certezza della sua eternità. Poche generazioni di positivismo scientifico sono bastate invece per creare in lui un’aridità disperata. Oggi, mentre con ansia e avidità consuma la sua vita come una riserva di fatti esauribile e non rinnovabile, l’uomo si sente egli stesso consumare dal suo nulla. Avendo perso lo sguardo dell’anima, vede ogni cosa sub specie temporis.
L’anima e la sua immortalità divengono miti, retaggi antropologici da lasciare a quelle discipline umanistiche e vaghe, come la filosofia o la religione, che diffondono una debole luce su certi oscuri campi del vissuto, surrogati di una vera conoscenza, in attesa che la scienza abolisca ogni mistero. Nell’opinione comune, infatti, solo le teorie scientifiche si fondano su affidabili criteri di verità. Solo loro possono disperdere la notte dell’ignoranza. Così la società attuale non vede che l’insonnia della ragione l’ha resa folle, le ha fatto partorire mostri più orrendi di ogni antica superstizione. La scienza, assimilata al senso comune, a una visione del mondo, ha atrofizzato il senso del divino nell’uomo. Persino le Idee, persa ogni dignità metafisica e poetica, sembrano oggi epifenomeni di natura fisica o chimica, fatti come altri.
Siamo stregati dalle rappresentazioni esteriori e oggettive del mondo. Crediamo solo nei fatti e nella loro effettività. Siam giunti così a fondare una religione e un culto dei fatti, una fede che si rifugia nel finito e cerca la propria salvezza nei numeri e nelle cose. La stessa psiche diventa un fatto da scomporre e misurare. Inseguiamo il miraggio di una rappresentazione scientifica del mondo, di una teoria che ne descriva esattamente le dinamiche. Così, in questa illusione di concretezza, in cui riduciamo la vita ai fatti, ci perdiamo nelle nostre astrazioni.
Non riconosciamo più quella Presenza a sé stessi, quel nucleo interiore in cui la caducità dei fatti e delle esperienze si fonde col mondo eterno delle idee, condividendone la natura immortale; l’anima che ricompone la parzialità delle cose nell’unità del tutto, riconcilia l’essere col divenire. L’angustia spirituale della modernità ha eroso l’antica saggezza degli uomini, ha chiuso la mente a ogni trascendenza. Così l’uomo guarda nella propria morte come in uno specchio nero, una superficie opaca che non riflette più la sua immagine eterna. Per questo il suo narcisismo, ridotto alla contemplazione dei fatti e delle loro ombre, è diventato una malattia mortale.
Occorre una forza fuori del comune, o una non comune stupidità, per osservare questa vuota voragine senza cadere nella disperazione o nella follia. La società moderna ha ingenuamente pensato di poter combattere questo virus nichilistico, che infetta la nostra cultura, rimuovendo il pensiero della morte. Tutta la nostra società si è impegnata a evacuarne la presenza, a celarla o mistificarla. Questa immensa rimozione ha sepolto e incatenato il pensiero della morte nelle profondità remote della mente, come un Titano impotente. L’ha trasformato in un mostro degli abissi, bloccato ai ceppi di una cultura superficiale, ai suoi dogmi edonisti e mercantili.
In tal modo sembrava che il Nulla non potesse nuocere. E di fatto il Titano giace, sedato dalle formule della scienza e dalle favole dei media. Non si ricorda della morte, non vi pensa mai seriamente, non l’ha mai meditata. Abbiamo fatto della morte l’eterna assente, il convitato di pietra che non accetterà mai l’invito. Ma ciò che a forza si reprime prima o poi ritorna a galla. Così, quando ha sentito vicino a sé uno strascico di passi mortali, il Titano ha sollevato le pesanti palpebre, ruotato d’intorno gli occhi turbati. Come un possente leviatano, si è scrollato di dosso le catene, ha scatenato intorno a sé onde e gorghi di paura, sollevato flutti di isteria. Dai pori gli sono usciti fiumi di purulenta angoscia, come un’infezione a lungo nascosta e accumulata sotto la pelle.
Forse entità infere si nutrono di questa grassa paura e ne banchettano in orge di potere. Perché chi controlla la paura degli uomini diventa loro padrone. Infatti, l’uomo impaurito è naturalmente sottomesso, pronto a far qualsiasi cosa, per quanto stupida o malvagia, se gli si promette in cambio protezione. Non vuole l’amore, non vuole la libertà o la felicità, vuol essere difeso. Sopporta fatiche, pene e umiliazioni, per garantirsi l’illusione della sicurezza. È pronto a rinunciare alla vita pur di non correre rischi. Infine, muore per paura di morire.
Così oggi, per dominare gli uomini, è bastato liberare il pensiero della morte, che giaceva assopito nei fondali della coscienza collettiva. Le trombe della propaganda mediatica e del terrorismo pseudo-scientifico l’hanno destato dal suo sonno ottuso e sognante, sciolto dalle catene del tabù. Un’umanità distratta ha visto all’improvviso emergere dalle profondità marine il Titano risvegliato. Di colpo il miraggio di una vita tranquilla e sicura si è dissolto tra le spire del mostro; tra immagini di bare e di orrori, tra lugubri campane e sirene ululanti.
Un’intera società, impietrita, ha soffocato ogni vita spirituale, spento in sé ogni ardore di giovinezza per difendere un mondo di fatti consunti e malati; si è avvinghiata alla decrepita carne per non cadere nel vuoto che i profeti del nulla le hanno aperto sotto i piedi. Sotto la maschera sorridente del progresso si è visto il vero volto della società moderna, questi occhi percorsi da una fredda angoscia, agitati da una crudele follia. Perché la nostra civiltà non solo teme la morte, ma ne è morbosamente affascinata. Nei suoi spasimi si mescolano spettri necrofobi ed estasi necrofile.
La morte si stupirebbe di tanta virulenta passione. Ha tenuto la solita ordinaria amministrazione della vita. Leggi e decreti non possono certo vietarle di fare il suo lavoro. La morte si può solo nascondere, come la canizie dell’età. Adesso invece, chissà perché, la esibiscono a ogni ora del giorno e della notte. Te la mostrano lì dove mai l’avresti immaginata, nell’abbraccio di un amico, nel bacio di un figlio, nell’aria che respiri; ne diffondono ovunque l’odore per spaventarti, ti snocciolano senza pudore la sua quotidiana contabilità.
Evocato, il Titano risale in superficie e arrotola i suoi tentacoli intorno alla società civile, la vuol trascinare negli abissi; ora sembra che allenti la presa, ora stringerla sino a spezzarla; la flagella con le spumeggianti ondate dei contagi. Forse sono onde della fantasia. Ma una paura immaginaria è assai più potente di un timore reale. Ingranaggi fobici e visionari costringono la società a mulinare su sé stessa, in un moto perpetuo e inarrestabile, nella morsa di mostri immaginari, prossimi al naufragio, lanciando accorati SOS verso immaginari soccorsi.
E il Potere soffia sul fuoco, attizza le fiamme che bruciano nel petto del Titano, di questo gigante puerile che si lascia tirare qua e là come un pupo dai fili del puparo. Il suo cuore immaturo trascolora, dal giallo impallidito, al corrusco arancione, fino al rosso infernale. La Sibilla della scienza gli rivela ogni giorno l’incombente minaccia. Lo sgomenta con divinazioni di lutti e contagi che ricordano le previsioni del tempo: tra una settimana pioveranno tanti morti e tra un mese cadranno a frotte come fiocchi di neve.
La nostra vita dipende da modelli matematici che strologano il futuro come antichi vaticini. Misteriosi fattori R, algoritmi ambigui decidono che la paura della gente verrà tarata sullo 0,8 o sull’1,2, e che la sua libertà sarà ridotta in proporzione. E già all’orizzonte appare Colui che ci donerà la salvezza, se prostrandoci lo adoreremo. Il Dio Farmaco che incatenerà ancora il Titano nel fondo del mare, chiudendolo tra sbarre di cui Lui solo avrà la chiave.
Alcuni sperano di uscire da tale follia grazie a congiunzioni planetarie favorevoli, interventi militari o un’epifania di salvatori da altri pianeti. È l’antica abitudine di demandare ad altri la soluzione dei nostri problemi. A me pare invece che, se la paura ci ha fatto cadere in questa trappola, debba essere il coraggio a tirarci fuori. Se è stata l’immaginazione a creare questo incubo, è necessario svegliarsi. E in fondo, se abbiamo bisogno di credere in qualcosa, è meglio credere nell’anima che in un virus. È certo che moriremo prima o poi. Non sarà un virus a deciderlo, ma il nostro destino. Che importa? L’anima conosce la morte quanto il Sole conosce la notte. Lasciamo dunque perdere i contagi e pensiamo all’immortalità dell’anima.