I love life, with dignity
di Francesco Mazzucotelli - 24/02/2025
Fonte: Francesco Mazzucotelli
Non è possibile comprendere pienamente il significato, la liturgia, il senso delle immagini e dei testi scelti per i funerali odierni di Hassan Nasrallah e Hashem Safieddine senza prima aver compreso il concetto del martirio nella tradizione sciita, e in particolare il modello ideale rappresentato dall'imām Husayn nella battaglia di Karbalā'.
È il senso stesso di vittoria e di sconfitta che viene capovolto nella rilettura rivoluzionaria del paradigma di Karbalā: Husayn, militarmente sconfitto sul campo e trucidato dalle truppe di Yazid, è in realtà considerato vittorioso perché si è eroicamente rifiutato di sottomettersi alla tirannia e all'oppressione.
In questa narrazione e in questo sistema di riferimenti simbolici così intensi, l'uccisione di Hassan Nasrallah si inserisce pienamente in quella che viene chiamata la "processione di Husayn": una storia di ribellioni e di sconfitte dove però ciò che conta è la scelta morale di non accettare l'ingiustizia.
Alla luce di queste considerazioni, che sono basate su una bibliografia accademica assai ampia, si potrà intuire quanto siano sciocche le dichiarazioni di alcuni ministri e funzionari della propaganda militare israeliana che hanno ironizzato proprio sul tema della vittoria e della sconfitta. In realtà, la morte come "martire" trasforma Hassan Nasrallah nell'icona perfetta di Hezbollah: un'immagine che incarna le idee e la visione del mondo del "partito di Dio". Era un'icona da vivo, ma lo sarà ancora di più da morto, nelle circostanze in cui è morto, che permettono di rafforzare la metanarrazione storica e teologica di Hezbollah.
È un'icona che peraltro arriva dopo anni in cui proprio quella metanarrazione era andata in crisi, tra accuse di clientelismo e connivenza con il sistema politico libanese, inefficiente e corrotto.
Certamente Hezbollah ha subito un durissimo colpo dall'uccisione del suo capo carismatico, dai bombardamenti dello scorso autunno, dalle falle nel suo sistema di sicurezza che hanno permesso l'esplosione dei cercapersone, dalla caduta del governo di Bashar al-Assad in Siria, e infine da un nuovo assetto politico interno al Libano che vede il partito in una posizione molto più defilata e una tensione nemmeno più nascosta con l'esercito governativo libanese.
Il nuovo segretario generale Naim Qassem ha scelto una linea apparentemente moderata per quanto riguarda i rapporti con le istituzioni statuali libanesi, in attesa di riorganizzare la struttura e l'organigramma del partito.
È probabile che all'interno di Hezbollah ci siano in questo momento strategie differenti e forse qualche netta divergenza. Eppure il partito ha dimostrato oggi di esserci ancora e di essere in grado di mobilitare, perlomeno in una liturgia di massa, più di un milione di persone.
Alla fine del 2006, un'assai famosa agenzia pubblicitaria internazionale coniò il motto "I love life" per sostenere la coalizione di partiti avversi a Hezbollah nello scenario libanese.
La frase evidentemente alludeva all'idea che i partiti avversi a Hezbollah amassero la bella vita spumeggiante di Beirut, mentre al contrario quelli di Hezbollah amavano solo la morte.
La campagna fallì miseramente quando il partito sciita e i suoi alleati risposero con una controcampagna "I love life, with dignity", alludendo sia al tema della povertà economica sia a una nozione di vita che non si riducesse soltanto al divertimento diurno e notturno.
Mi viene in mente quello che Vasilij Grossman fa dire al generale Andrej Erëmenko quando parla dei soldati sovietici prima della battaglia di Stalingrado: "Compagno giornalista, morire non ci piace e a morire non ci divertiamo, ma non cederemo mai Stalingrado".
Sulle idee, sulle scelte e sulla parabola politica di Hezbollah si potranno avere molti differenti giudizi, ma una cosa per me è certa: non si può capire alcunché quando si banalizza la nozione di martirio, che non corrisponde in alcun modo al suicidio o al divertimento di andare a morire.