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I piani di Israele

di Enrico Tomaselli - 13/09/2024

I piani di Israele

Fonte: Giubbe rosse

La situazione mediorientale somiglia sempre più ad una pentola a pressione, che però nessuno ha interesse a far esplodere realmente. Come spesso accade, quando un conflitto deve fare i conti con l’impossibilità di una vittoria sul campo, e con l’incapacità della leadership politica di misurarsi con questa realtà, il rischio maggiore deriva proprio dalla mancanza di una prospettiva chiara, e quindi dal fatto che la guerra – lasciata a sé stessa – finisca per prendere vita propria, scivolando verso la catastrofe senza che nessuno lo voglia effettivamente.
Per quanto ritenga che i rischi effettivi di un ricorso alle armi nucleari siano sempre sopravvalutati (il che, in fondo, è parte della strategia di deterrenza che le caratterizza), bisogna riconoscere che siamo qui di fronte ad una congiuntura assai particolare. Da un lato, infatti, abbiamo uno stato – Israele – impegnato in un conflitto che non è in condizione di vincere militarmente, che non può sostenere a lungo socialmente ed economicamente, e che non può politicamente permettersi di perdere. Dall’altro, abbiamo il governo più estremista e fanatico della storia di questo paese, che sia per interessi ed ambizioni personali (Netanyahu) che per delirio messianico (Ben Gvir, Smotrich), è disposto a tutto.

Sullo sfondo, aleggia l’ombra della semi-segreta e famigerata Direttiva Sansone [1] – una sorta di estensione ancor più delirante dell’ormai ben nota Direttiva Annibale. In base a questa folle clausola, qualora lo stato ebraico percepisse di trovarsi in una condizione in cui la sua stessa esistenza fosse minacciata, e non vi fosse alcuna realistica possibilità di annullare la minaccia, l’intero arsenale nucleare del paese (stimato in circa 300 testate) verrebbe lanciato contro paesi nemici ed amici, col preciso intento di scatenare un conflitto nucleare globale – muoia Sansone e tutti i filistei, appunto – secondo una logica suprematista e razzista, per cui un mondo senza ebrei (in realtà senza sionisti, poiché circa solo la metà degli ebrei vive in Israele) non merita di esistere.
Stiamo ovviamente parlando di una condizione estrema, e presumibilmente ancora abbastanza lontana dalla situazione attuale, ma pur tuttavia presente e – non solo teoricamente – possibile.

Può apparire paradossale, ma la miglior garanzia che il conflitto non scivoli atrocemente verso l’abisso ancora più nero, sta nella probabile esplosione delle contraddizioni presenti nella società israeliana, che il 7 ottobre prima, e la guerra poi, stanno facendo emergere clamorosamente.
La più appariscente è naturalmente quella che si appalesa nelle manifestazioni di piazza (l’ultima, l’8 settembre, sembra che abbia portato in piazza circa 750.000 persone, tra Tel Aviv ed altre città; una cIfra assai considerevole, se si pensa che gli ebrei israeliani sono circa 9 milioni). Rispetto alla quale, però, soprattutto in occidente, c’è il rischio che si sia determinata una serie di equivoci. Un po’ perché i media fanno una comunicazione poco informativa, un po’ perché chi legge/ascolta ha un approccio fugace e superficiale, comunque privo delle informazioni di base necessarie per comprendere ciò che accade.

Le manifestazioni di piazza, infatti, sono cominciate prima del 7 ottobre, ma l’impressione è che non vi sia soluzione di continuità con quelle successive, il che però non è.
Prima della guerra, le manifestazioni rappresentavano la protesta della parte di popolazione più liberal, prevalentemente urbana, preoccupata per alcune misure legislative del governo, ritenute pericolose per la democrazia. Quelle che invece hanno avuto luogo successivamente, e che sono focalizzate soprattutto sulla questione della liberazione dei prigionieri israeliani in mano alla Resistenza, sono animate prevalentemente da coloni, poiché gran parte di questi prigionieri civili provenivano dagli insediamenti coloniali illegali vicini a Gaza. In questo caso, quindi, si tratta in parte della stessa base elettorale della maggioranza di governo. Il grosso degli elettori dell’estrema destra, infatti, è costituito da coloni, soprattutto da quelli insediati nella Cisgiordania [2].

Abbiamo quindi, intanto, due diverse linee di frattura: una, che potremmo definire fisiologica, di natura squisitamente politica (semplificando: destra vs sinistra), ed un’altra, di natura specifica e contingente, che invece è trasversale, ed attraversa soprattutto il campo governativo. Quest’ultima è particolarmente significativa non solo perché, appunto, si spinge sin dentro il governo, ma anche perché quello dei coloni è – di fatto – un movimento assai importante nella società israeliana. Non solo, ovviamente, per ragioni storiche (la tradizione dei kibbutz), quanto soprattutto perché è significativamente numeroso (circa 800.000 coloni), e sostanzialmente organizzato come una milizia (tutti i coloni sono armati).
Fondamentalmente, i coloni hanno più di una questione aperta, col governo. C’è, come si è detto, la questione dei prigionieri [3], ma c’è anche la questione dei 100.000 coloni che hanno dovuto abbandonare gli insediamenti lungo il confine con il Libano. I quali scalpitano per tornare e, quindi, premono per una guerra aperta con Hezbollah.

Non da ultimo, il governo israeliano si è visto costretto ad emanare un provvedimento che va, ancora una volta, contro una parte non irrilevante della propria base elettorale. Per la prima volta nella storia del paese, infatti, gli haredim, ovvero gli ultra-ortodossi dediti allo studio delle sacre scritture, non saranno più esonerati dal servizio militare obbligatorio – cosa che sta già portando a sua volta a manifestazioni, scontri con la polizia e renitenza alla leva in massa.
Tutte queste, peraltro, sono questioni critiche e divisive, che però agiscono prevalentemente all’interno della società e, almeno per ora, rimangono contenute nell’ambito di una naturale dialettica politica, anche se sempre più dura.
Assai più significativa, invece, è la frattura che si è delineata – e che tende ad approfondirsi – tra il governo da un parte, e le forze armate dall’altra.

Come spesso accade, infatti, i militari (e anche gli uomini degli apparati di sicurezza) hanno le idee molto più chiare dei politici, in ordine a ciò che si può fare e cosa no. E se in un primo momento il clima di vendetta, susseguente al 7 ottobre, ha prevalso – insieme al desiderio di rivalsa, di ripulirsi la faccia dall’onta della sconfitta di quel giorno – man mano che il conflitto è andato avanti è emersa la consapevolezza dei limiti di una strategia politica che imponeva obiettivi irrealizzabili [4]. Ed è questa, al momento, la contraddizione insanabile, quella che può fermare il disastro. Ovviamente non si parla di un golpe, o anche solo di un pronunciamento militare – impensabili nella società israeliana – quanto piuttosto del fatto che, ad un certo punto, i vertici dell’IDF dovranno dire un “no” chiaro e deciso. Resta solo da capire qual’è la soglia oltre la quale non sarà più possibile dire “si”.

La questione non è affatto semplice, anche perché l’IDF – oltre ad avere un dovere di lealtà verso il proprio governo – ne è in parte complice, avendone inizialmente assecondato il disegno impossibile. Sotto questo punto di vista, la figura di Yoav Gallant, attuale ministro della difesa, è estremamente rappresentativa. Gallant, infatti, che è anche un generale, quindi un militare di carriera, subito dopo l’avvio dell’operazione Al Aqsa Flood fu tra i più determinati sostenitori di una campagna violentemente aggressiva su Gaza, vagheggiando quasi esplicitamente lo sterminio dei palestinesi (definiti “animali umani”). Ed è lo stesso Gallant che oggi, e in effetti già da un po’, si trova costantemente in contrasto con Netanyahu proprio sulle prospettive del conflitto. In questo suo duplice ruolo, di responsabile politico e alto ufficiale, porta sulle spalle l’ideazione, la messa in atto e la gestione di una campagna militare a dir poco fallimentare, il cui unico esito concreto è l’avvio di un genocidio – un regalo, peraltro, proprio ai suoi avversari politici all’interno della compagine governativa.

L’operazione Iron Swords, infatti, è apparsa subito come caratterizzata più da un desiderio irrazionale di vendetta, che da una pianificazione militare razionale, volta al conseguimento di obiettivi raggiungibili. Nella migliore delle ipotesi, la strategia sottesa all’operazione israeliana si basava su una spaventosa sottovalutazione e misconoscenza del nemico. Del resto, a quasi un anno dall’inizio dei combattimenti, i risultati conseguiti da quello che millantava essere uno degli eserciti migliori al mondo sono, sotto il profilo militare, pressoché nulli.
In un’area di appena 360 chilometri quadrati (Roma ne conta 1.285…), ed impiegando una quantità di bombe stratosferica (80.000 tonnellate…), l’IDF non è stato in grado di infliggere una sconfitta, anche solo parzialmente strategica, alle forze della Resistenza. I combattenti delle varie formazioni palestinesi hanno ripianato le perdite arruolando nuovi militanti; la rete dei tunnel è quasi interamente intatta, e soprattutto sconosciuta; la gran parte dei prigionieri del 7 ottobre, a parte quelli scambiati, o sono stati uccisi dalle bombe israeliane o sono ancora in mano alla Resistenza; addirittura, lo scorso mese di agosto – l’undicesimo – è stato uno dei più sanguinosi per l’IDF.

Probabilmente l’errore più grande commesso dagli israeliani è stato quello di affrontare il conflitto con una modalità all’americana, come se si trattasse di sconfiggere un esercito (meno potente) e non una serie di formazioni guerrigliere. L’idea di sconfiggere la Resistenza palestinese attraverso una campagna di bombardamenti terroristici (stile Serbia o Libia) era infatti assolutamente insensata. Ma non solo. Scatenando tutto il proprio potenziale militare sin dalla prima fase del conflitto, ad esclusione appunto dell’opzione nucleare, le forze armate israeliane si sono precluse la possibilità di premere in modo graduale sul nemico, esercitando eventualmente una escalation nell’intensità dei combattimenti. Una volta trovatisi di fronte ad un impasse, è diventato necessario trovare qualcosa che – se non altro attraverso un prolungamento del conflitto [5] – consentisse di evitare il collasso politico del governo.

Essendosi quindi bruciati la possibilità di escalare aumentando l’intensità della guerra, ai comandi israeliani non restava altro che farlo aumentando l’estensione della guerra. In questo senso, spostare il focus dell’azione da Gaza alla Cisgiordania, risponde esattamente a questa esigenza, che è eminentemente mediatica e politica. Ma, ancora una volta, Israele commette un errore strategico.
Innanzi tutto, perché le formazioni armate della Resistenza della West Bank sono più fresche, mentre l’IDF è logorato da undici mesi di guerra. E la durata del conflitto logora assai più le forze israeliane che quelle palestinesi. Ma, ancor più importante, questa scelta – ripeto, assolutamente politica, non militare – contraddice un principio fondamentale. L’inasprirsi dei combattimenti in Cisgiordania, infatti, non corrisponde ad un ritiro da Gaza, o quanto meno da una stabilizzazione nella Striscia. Ciò che sta facendo l’IDF, pertanto, è disperdere le forze su più fronti. Invece di concentrarle nel tentativo di risolverne uno. Sembra quasi, concettualmente, una replica dell’operazione ucraina su Kursk.

Da questo punto di vista, quello che sappiamo sui progetti militari israeliani, sembra inscriversi perfettamente nel solco di questi errori strategici.
Fondamentalmente, infatti, il governo Netanyahu ha un disegno su Gaza, ed uno più ampio, che riguarda i paesi vicini.
Per quanto riguarda la Striscia, l’obiettivo che stanno attualmente perseguendo è quello di restringere il cerchio. Tutto il confine tra il territorio palestinese e Israele sarà rafforzato, soprattutto allargando una fascia di sicurezza (all’interno del territorio di Gaza), mentre l’IDF stabilirà il suo controllo stabile su due assi strategici: il corridoio Filadelfia, al confine con l’Egitto, ed il corridoio Netzarim, al nord.

Il primo dei due corridoi, che comprende il valico di Rafah, è una striscia di terra di circa 14 chilometri e larga 100 metri, e va dall’estremità nordoccidentale sul Mediterraneo, a quella sudorientale del valico di Kerem Shalom. Laddove tocca il mare, il villaggio di Al Qarya as Suwaydiya è stato raso al suolo ed è diventato una base militare israeliana. La decisione di occupare questa fascia di confine in effetti violerebbe gli accordi di Oslo, in base ai quali il controllo spetterebbe all’Egitto – il quale, peraltro, non vede di buon occhio una presenza militare israeliana ai suoi confini. E, ovviamente, incontra la totale contrarietà della Resistenza.
L’intento sarebbe quello di tagliare il cordone ombelicale della Striscia, che si ritroverebbe completamente circondata da territorio sotto controllo israeliano.

Il Netzarim, invece, si trova a circa due terzi della Striscia, subito a sud di Gaza City, ed è un asse che separa longitudinalmente il territorio, e va dal confine di Israele al mare, spezzando la continuità territoriale. Anche questo corridoio dovrebbe diventare, nelle intenzioni, zona militare. Non è ancora del tutto chiaro se l’intenzione sia quella di sgomberare completamente l’area a nord – quindi la città di Gaza ed i sobborghi – per annettersi questa parte di territorio (nel qual caso il corridoio Netzarim diventerebbe il confine settentrionale della striscia). In ogni caso, in quest’area verrebbero costruiti degli insediamenti coloniali e, come già in Cisgiordania, la militarizzazione del territorio e la rete stradale di collegamento tra gli insediamenti diventerebbero uno strumento di frammentazione del territorio.

A proposito di questo piano, è utile ricordare che Israele aveva già assunto il controllo militare della Striscia in passato, così come vi aveva insediato dei coloni. Finché, nel 2005,  ritirò le sue truppe e i novemila coloni che vivevano in 25 insediamenti. E ciò fu fatto non certo per improvvisa generosità, ma perché l’occupazione si era rivelata controproducente. 19 anni dopo, con la Resistenza molto più forte, pensare che le cose vadano diversamente è quantomeno ingenuo. Tra l’altro, le truppe israeliane dispiegate lungo il Netzarim sono già adesso colpite praticamente ogni giorno dai combattenti palestinesi. Ma, nella migliore delle ipotesi, la realizzazione di questo piano comporterebbe un significativo aumento dello schieramento militare permanente; non più solo a difesa del perimetro della Striscia, ma di due importanti assi all’interno del territorio ostile, e degli insediamenti coloniali.
In buona sostanza, il piano israeliano per Gaza sembra rispecchiare più le ambizioni politiche del governo (e la bramosia di territorio dei coloni), che non un sano realismo militare.

Per quanto riguarda il nuovo teatro di guerra aperto dall’IDF – o meglio, nel quale ha deciso di alzare il livello di scontro – a parte quanto già detto c’è da rilevare che l’idea (sarebbe meglio dire l’illusione) sembra essere quella di ripetere il modello Gaza [6], resa però estremamente più complicata proprio dal fatto che la politica coloniale degli ultimi cinquant’anni e passa si è fondata sulla leopardizzazione del territorio palestinese, frammentandolo in innumerevoli porzioni di territorio divise da insediamenti e reti stradali off-limits.
Anche se le ambizioni, nemmeno nascoste, sono quelle di annettere questi territori allo stato ebraico, ciò richiederebbe preventivamente la capacità di sgominare la Resistenza armata, cosa che allo stato attuale appare improbabile. Il controllo del territorio, da parte delle Brigate della Resistenza, appare così fermo ed evidente da testimoniare inequivocabilmente come l’IDF si trovi a fronteggiare una guerra di popolo.

Per quanto riguarda, infine, il fronte libanese, la situazione non sembra affatto più favorevole. Gli scambi di fuoco con l’esercito di Hezbollah vanno avanti, a fasi alterne, da quasi un anno, con perdite da entrambe le parti. Ma, quel che più conta, mentre l’IDF preferiva dedicarsi soprattutto agli omicidi mirati ed ai bombardamenti dei villaggi libanesi, i combattenti di Nasrallah si sono concentrati sulla distruzione sistematica della rete di difesa israeliana lungo il confine: impianti di sorveglianza, sistemi di difesa aerea e anti-missile, caserme. Forte del proprio senso di superiorità, infatti, l’esercito israeliano ha costruito questa rete ponendola prevalentemente sulle alture dominanti, mentre invece Hezbollah ha predisposto la propria in tunnel e caverne nelle montagne.
Del resto, a restituire il quadro esatto della situazione c’è un dato inequivocabile: mentre gli israeliani parlano da mesi della volontà di ricacciare Hezbollah al di là del fiume Litani (cioè 10/20 km più indietro della linea di confine), sono stati i libanesi a costringere Israele ad evacuare la sua popolazione dalle aree confinanti.

Ovviamente, il sogno dell’intera leadership israeliana sarebbe quello di trovare il modo per liberarsi di questa spina nel fianco, ma – soprattutto dopo la batosta subita nel 2006, quando la Resistenza Islamica libanese era assai più debole – sa bene che si tratta di un’impresa quasi proibitiva. Per questo, idealmente, cercano di trascinare gli Stati Uniti in un conflitto di questo genere, che dovrebbe eliminare l’intero Asse della Resistenza, Iran compreso.
Ma, nonostante tutto ciò che si possa pensare, gli USA non sono affatto disposti a superare una certa soglia, nel sostegno ad Israele, e ciò perché – nonostante la potenza della lobby ebraica statunitense – devono comunque far prevalere i propri interessi strategici, qualora questi divergano da quelli di Tel Aviv.
In particolare, è abbastanza evidente che al Pentagono, diversamente che nell’IDF, hanno ben presente la necessità della concentrazione delle forze [7], ed è pertanto assai difficile che si facciano distrarre da qualcosa di così impegnativo.

Del resto, non mancano le indicazioni evidenti in tal senso. Solo negli ultimi giorni, i messaggi si sono moltiplicati [8]; da ultimo, Kamala Harris, nel suo dibattito tv con Trump (nel quale semmai la gara era a chi fosse più filo-israeliano) ha detto chiaramente “darò a Israele la sicurezza e gli strumenti di cui ha bisogno per difendersi dall’Iran”. Cioè vi aiuteremo a difendervi (che è significativamente qualcosina meno di “vi difenderemo”…). Peraltro, come era prevedibile, questo impegno difensivo statunitense è già in fase di ridimensionamento: secondo la radio israeliana, due portaerei americane in Medio Oriente hanno ricevuto l’ordine di lasciare la regione [9].
Ma soprattutto, fatto tanto evidente quanto sottovalutato, c’è un elemento storico, che testimonia come il rapporto tra Washington e Tel Aviv, per quanto saldissimo, sia allo stesso tempo assai ambiguo e conflittuale, quasi da parenti serpenti. Non è forse singolare che gli Stati Uniti, che hanno circa 800 basi militari sparse in ogni angolo del mondo, non ne abbiano neanche una in Israele?

È comunque evidente che a Tel Aviv, USA o meno, pensino a come affrontare il problema. Secondo quanto pubblicato sul sito di Al-Akhbar, un quotidiano libanese [10], sarebbe appunto trapelato un piano israeliano per un’invasione del Libano, alla quale l’IDF si starebbe addestrando. Alcuni inviati occidentali, citati dal giornale libanese, avrebbero detto che, vista la situazione, “Israele si troverà costretto a realizzare una grande operazione militare per raggiungere questi obiettivi, qualcosa i cui indicatori stanno crescendo giorno dopo giorno, e nessuno al mondo può impedire a Israele di intraprendere questa guerra” [11].
Il disegno strategico sarebbe quello di isolare Hezbollah dall’Iran, tagliando le sue linee di rifornimento, così da poterne avere ragione; il piano operativo per conseguire questo obiettivo prevederebbe un’operazione di terra per invadere il Libano meridionale e la Siria sud-occidentale, “avanzando verso est verso il cuore del Libano per tagliare la rotta tra la Bekaa e il sud” [12]. Nel piano sarebbe previsto di attaccare anche le forze armate siriane, e di fare ricorso – a tal fine – anche alle forze di opposizione siriana. Insomma, le SDF (curdi, islamisti, Al Qaeda…).

Si tratta, con ogni evidenza (e qualora sia sostanzialmente reale) di una mossa a dir poco avventata. Anche ammesso che gli Stati Uniti siano disposti a dare luce verde (mettendo ad altissimo rischio gli uomini dell’U.S. Army in Siria), ed a garantire una difesa aerea-missilistica, è chiaro che a mettere root on the ground dovrebbe essere l’IDF.
Da un certo punto di vista, l’idea di penetrare dapprima in Siria, per poi colpire il sud del Libano da est, può apparentemente avere un senso, visto che la situazione è abbastanza precaria per Damasco, e le sue forze armate non godono di buonissima salute. Ma va tenuto comunque conto che nella Bekaa sono presenti unità militari di Hezbollah, probabilmente anche unità delle milizie irachene, e certamente l’IRGC iraniano. Per non parlare delle forze russe, che recentemente hanno posto dei punti di osservazione sul Golan.

Un attacco sul sud del Libano, passando per la Siria, non sarebbe affatto una passeggiata, nemmeno per un esercito in piena forma, e con uomini freschi e riposati. Mentre l’IDF è duramente provato da quasi un anno di guerra (il leader dell’opposizione israeliana, Yair Lapid, afferma che l’IDF ha perso 12 battaglioni da ottobre [13]), deve comunque disperdere le sue forze tra Gaza, la Cisgiordania ed il confine libanese, e affrontare poi formazioni militari esperte e motivate, ben riposate e che operano sul proprio territorio. E tutto questo, richiederebbe oltretutto una quantità considerevole di uomini e mezzi [14], perchè ovviamente una manovra che cerchi di prendere sul fianco est lo schieramento di Hezbollah, e di tagliare le sue linee di rifornimento con l’Iran, non può prescindere dal fatto che, a sua volta, presterebbe il fianco ad una controffensiva, e dovrebbe mantenere il controllo del territorio siriano per evitare il flusso degli aiuti.
E tutto questo, senza tener conto di quel che farebbe l’Asse della Resistenza.

Difficile immaginare che Hezbollah non riverserebbe una pioggia di missili sui siti militari e sulle retrovie israeliane. Difficile pensare che gli yemeniti di Ansarullah non farebbero altrettanto. Che i centomila e passa uomini delle milizie di Baghdad restino a guardare. Che l’Iran lasci minacciare direttamente i suoi più stretti alleati senza intervenire. E, non da ultimo, che la Russia possa restare a guardare.
Insomma, se un invasione del Libano attuata attaccando direttamente da Israele sarebbe un azzardo, una operazione di così ampia portata, nelle condizioni date, sembra più una follia, o un sogno bagnato.
E qui torniamo alla questione centrale. Come si risolverà, lo scontro tra vertici militari e vertici politici israeliani? Quando e come (e soprattutto se) esploderà?

Tanto per cominciare, bisogna tenere presente che i generali israeliani sono sionisti, e quindi la sopravvivenza di Israele è per loro più importante dei dissidi col governo. Dal loro punto di vista, quindi, la questione non è se le indicazioni governative sono possibili e/o giuste, o meno; la questione è quali sono le alternative. Se, cioè, un eventuale rifiuto di mettere in atto una decisione assunta dal governo sia più o meno pericoloso, per Israele, del metterla comunque in atto. In concreto – ad esempio – se sia più destabilizzante attaccare il Libano e la Siria, con tutto quel che ne consegue, e col rischio concreto di subire una dura sconfitta, oppure provocare una crisi istituzionale che spacchi il paese in modo profondo. E questo, ovviamente, è qualcosa a cui non è facile rispondere, perché molto dipende dalle circostanze complessive del momento in cui la scelta si dovesse porre.


1 – La Direttiva Sansone è stata rivelata per la prima volta dal famoso giornalista Seymour Hersh nel suo libro del 1991 “The Samson Option: Israel’s Nuclear Arsenal and American Foreign Policy”. Cfr. Wikipedia
2- Una ragione, non la più importante ma nemmeno l’ultima, per cui l’IDF ha inasprito gli interventi nella West Bank, è proprio quella di tenere buoni gli elettori di Smotrich e Ben Gvir, mostrando di assecondarne le mire espansionistiche.
3 – In questo caso, siamo in presenza di una ulteriore contraddizione, stavolta interna al movimento dei settler; se, infatti, da un lato reclamano una trattativa con la Resistenza per uno scambio di prigionieri, anche a costo di una tregua, dall’altra sono per la completa espulsione/eliminazione dei palestinesi, e per l’annessione dei loro territori allo stato di Israele.
4 – Secondo uno studio del think tank israeliano BeSa Center for Strategic Studies, all’indomani del 7 ottobre i vertici politico-militari hanno adottato un concetto di sicurezza massimalista, che ha sostituito l’idea della totale sconfitta del nemico a quella di deterrenza, mettendo però a nudo la totale dipendenza israeliana dalle armi americane, e l’incapacità di garantire la sicurezza su più fronti. Cfr. “The Long War Phenomenon: Is a New Security Concept Required After October 7?”, Col. (res.) Gur Laish, Besacenter.org
5 – Anche in questo caso, come si è già visto in Ucraina – ma in effetti già in Afghanistan – quando un esercito occidentale si trova in una situazione in cui è impossibile prevalere, si passa ad una strategia di rinvio: prolungare la guerra non per arrivare alla vittoria, ma per ritardare la sconfitta.
6 – Netanyahu: “Costruiremo una recinzione sul nostro confine orientale (con la Giordania) e faremo in modo che non ci siano infiltrazioni”. Israel Katz (Ministro degli Esteri): Israele “deve affrontare la minaccia esattamente come si affronta l’infrastruttura terroristica a Gaza, compresa l’evacuazione temporanea dei civili palestinesi e ogni altra misura necessaria”.
7 – Nell’ambito di un più generale riorientamento delle strategie USA, che puntano a focalizzarsi sulla Cina e quindi sul quadrante Indo-Pacifico, è evidente che il Dipartimento della Difesa sta pianificando (anche per ragioni economiche) una modifica significativa della presenza globale delle forze armate statunitensi, che va ben al di là dal già delineato sganciamento dal conflitto ucraino. Nei prossimi anni, assisteremo certamente ad una ridefinizione della proiezione strategica globale americana, attualmente caratterizzata da un’ampia dispersione, che passerà anche attraverso una riduzione-ottimizzazione delle rete di basi militari. Il ritiro concordato con il governo iracheno, ad esempio, da concludere entro il 2026, ed al quale farà molto probabilmente seguito quello dalla Siria (paesi nei quali la presenza USA è sotto costante attacco), comporterà un ridislocamento delle truppe nell’area, concentrandosi nei paesi più sicuri e/o più rilevanti strategicamente (EAU, Qatar, Gibuti). È probabile che un fenomeno dello stesso tipo si vedrà in Europa ed in Turchia.
8 – Haaretz, riportando dichiarazioni di un funzionario occidentale, ha scritto che “l’amministrazione statunitense ha messo in guardia Israele dal lanciare un’escalation su larga scala o una guerra totale con il Libano”. In una dichiarazione rilasciata dal Pentagono, si dice: “stiamo monitorando attentamente la situazione in Medio Oriente e siamo pronti a sostenere Israele, garantendo nel contempo la protezione delle forze e delle risorse statunitensi nella regione”. Ancora una volta, sostenere Israele, ma dobbiamo garantire i nostri interessi nella regione.
9 – Notizie ufficiali del Pentagono confermano l’ordine di rientro per la USS Theodore Roosevelt (e la sua squadra). Fonti ufficiose confermano anche che l’amministrazione americana sta cercando di trattare con Ansarullah, in modo da poter ritirare le sue navi dal mar Rosso, visto il fallimento della missione Prosperity Guardian.
10 – “Fughe di notizie sulla presunta guerra israeliana: un attacco di terra in e dalla Siria… e la separazione della Bekaa dal sud”, Ibrahim Al-Amin, Al-Akhbar
11 -Ibidem
12 -Ibidem
13 – Ovviamente, è improbabile che l’IDF abbia perso per intero 12 battaglioni. Sicuramente parliamo di unità che hanno perso la capacità di combattimento, a seguito delle perdite subite (morti, feriti, mezzi distrutti e/o danneggiati). Normalmente, si considera che questa condizione si verifica quando l’unità ha perso tra il 10 ed il 30% della sua forza. Le cifre ufficiali parlano, al momento, di 10.000 feriti circa, e 700 morti. Questo è un bilancio francamente poco credibile, se consideriamo che il rapporto standard tra morti e feriti, è di 3/4:1, mentre in questo caso avremmo un rapporto di un caduto ogni 14 feriti; anche considerando che la Resistenza non ha aviazione né artiglieria pesante (ma Hezbollah si…), rimane incredibilmente squilibrato. Assai più probabile che siano almeno 1.300/1.500, con un rapporto comunque di 7:1. Possiamo quindi stimare il numero totale delle perdite in circa 11.400. Assumendo che le unità IDF mantengano l’efficienza operativa sino al 30% di perdite, ciò significa che le formazioni della Resistenza palestinese e libanese hanno messo fuori combattimento 16 brigate. Molte più di quelle di Hamas che l’IDF sostiene di aver sgominato.
14 – Già a luglio, l’esercito ha evidenziato la scarsità di carri armati a propria disposizione a causa dell’elevato numero di mezzi danneggiati e messi fuori uso nel conflitto. Cfr. “IDF delays tentative pilot program for female tank troops by another year”, Emanuel Fabian, Times of Israel