I populisti fanno paura e la BCE libera lo spread
di Alessandro Montanari - 04/11/2017
Fonte: Interesse Nazionale
Con la pigrizia intellettuale che la contraddistingue, la stampa italiana pare essersi rassegnata ad un compito di mera registrazione degli umori dei mercati, eccitadonsi per ciò che li eccita e preoccupandosi per ciò che li preoccupa. Credo che questa strana empatia abbia due disastrose conseguenze nella diffusa difficoltà a cogliere malizie, conflitti d'interesse e finalità recondite della speculazione finanziaria e nella desolante attitudine a bollare come complottista chiunque esca dalla fredda cronaca per azzardare interpretazioni un po' meno idealistiche della realtà. D'altro canto oggi i poteri finanziari riescono ad abbattere e condizionare i governi e sarebbe ora che noi giornalisti ci dividessimo apertamente, davanti all'opinione pubblica, tra chi giudica normale e legittimo che ciò possa accadere e chi, come il sottoscritto, lo considera invece un attentato alla sovranità popolare.
Sarà forse per questa personale propensione a preferire l'autonomia della politica dalla finanza all'autonomia della finanza dalla politica che proprio non riesco a condividere l'acritico entusiasmo per le ultime decisioni della Bce, nelle quali scorgo molte più ombre che luci.
Lo dico subito. Io non penso che un accanito sostenitore della cessione delle sovranità nazionali quale è Mario Draghi abbia prolungato il quantitative easing per difendere gli Stati; credo, al contrario, che Draghi abbia fatto questa scelta per difendere se stesso dai risultati fallimentari di un programma che, dopo due anni e mezzo, stava per chiudersi senza aver centrato nessuno degli obiettivi dichiarati. L'inflazione al 2% resterà infatti un lontano miraggio anche per il 2019 (quando, secondo le stime, toccherà l'1,5%) mentre, almeno in Italia, ancora non v'è traccia di un significativo miglioramento della solvibilità dei prestiti a famiglie e imprese altrimenti non si spiegherebbe l'allarme, che circola tra Francoforte e Bruxelles, intorno ai crediti inesigibili (npl) di vecchia, ma anche recente, erogazione.
Temo dunque che la notizia per noi rilevante non stia tanto nel prolungamento del Quantitative Easing, ma semmai nell'entità e nei tempi della sua riduzione che, piuttosto curiosamente, finiranno per assottigliare lo scudo della Bce sul debito italiano alla vigilia delle elezioni politiche.
Concepito come una protezione per i Paesi più vulnerabili alla speculazione, il programma di acquisto mensile dei titoli di Stato verrà infatti dimezzato, da 60 a 30 miliardi, a partire da gennaio 2018. Ciò che sorprende è che mentre tutti esaltavano l'ennesima vittoria di Draghi sulle resistenze tedesche – peraltro già frustrate, in patria, da una sentenza della Corte Costituzionale di Karlsruhe -, nessuno abbia notato lo sciagurato, o forse perfetto, tempismo di una scelta che esporrà l'Italia alle oscillazioni dello spread per tutto il trimestre che precederà il voto di marzo. Che sarà un voto di eccezionale importanza dal momento che, per la prima volta dacché ci sono l'euro e l'Unione Europea, assegnerà due possibilità su tre (vittoria del Movimento5Stelle o del centrodestra dei “populisti” Salvini e Meloni) all'eventualità di insediare a Palazzo Chigi un governo tendenzialmente ostile al rigore, all'euro e ai vincoli capestro dei trattati europei.
Vi sembro complottista? Allora stiamo ai fatti, ai protagonisti e ai precedenti che già conosciamo. Cominciando da Draghi. Fu proprio alla vigilia di altre elezioni politiche, quelle del 2013, che il governatore della Bce decise di intervenire pubblicamente per rassicurare i mercati, turbati dalla prospettiva che a Monti potesse succedere un premier populista, con la famosa formula del “pilota automatico”. Con quella dichiarazione, così stentorea e rivelatrice, Draghi intese comunicare al mondo finanziario, ma indirettamente anche ai politici e ai cittadini italiani, che chiunque avesse vinto le elezioni sarebbe stato comunque vincolato all'agenda dell'austerity e dei “compiti a casa” dai meccanismi forzosi già approntati a tale scopo dalle tecnocrazie europee politiche e monetarie.
Quello del 2013, peraltro, non fu il primo intervento di Draghi nelle vicende della democrazia italiana. Il primo, tuttora molto discusso, era avvenuto nel 2011 quando l'allora neo-governatore firmò, insieme all'uscente Jean-Claude Trichet, la famosa lettera con cui la Bce commissariava di fatto Berlusconi, dettandogli per filo e per segno tutto ciò che avrebbe dovuto fare se proprio avesse voluto intestardirsi a non abbandonare l'incarico.
Detto di Draghi, bisogna ora dire delle agenzie di rating che da qualche tempo si intromettono con fenomenale puntualità in ogni tornata elettorale - italiana, europea od internazionale - nella quale un partito anti-sistema abbia concrete chance di giocarsi la vittoria. E anche questa volta le “tre sorelle” stanno già assaggiando il campo di gioco con giudizi di affidabilità che, al di là delle apparenze, appaiono del tutto convergenti nel descrivere l'esercizo, libero e democratico, del voto come ciò che minaccia la ripresa economica. Continuiamo ad ancorarci ai fatti e alle parole ufficiali.
Agli inizi di ottobre Moody's conferma il rating italiano al livello Baa2 ma decretando un outlook negativo in ragione delle “considerevoli incertezze sulle priorità politiche del prossimo governo e sul ritmo delle riforme economiche e fiscali nei prossimi anni”. Il 20 ottobre anche Fitch, pur riconoscendo all'Italia un'economia “diversificata e ad alto valore aggiunto”, un sistema pensionistico “sostenibile” e un “moderato” indebitamento privato, sceglie di mantenere il rating italiano al livello BBB adducendo, indovinate un po', il “rischio di un Governo debole e di partiti populisti ed euroscettici che influenzino le politiche dopo le elezioni di marzo”. La scorsa settimana, infine, c'è stata la sorpresa, celebratissima dal premier Gentiloni, della promozioncina accordataci da Standard&Poor's: da BBB/A3 a BBB/A2. Ma la polpetta, al solito, appare avvelenata. La conferma della promozione suona infatti condizionata a come decideremo di votare: “l'incertezza politica legata all'esito delle prossime elezioni generali – scrivono gli analisti di S&P's - potrebbe pesare sulla performance economica dell'Italia e sulle condizioni del settore finanziario...”.
Insomma: con la carota della persuasione o con il bastone della dissuasione, le agenzie di rating sono nuovamente scese in campo per mettere pressione sul voto. Ma ciò che è peggio è che, prima di loro, anche le portaerei della finanza avevano già puntato il cannone su di noi. Ai primi di ottobre l'americana Bridgewater, il fondo speculativo più grande al mondo, ha fatto sapere di avere incardinato una scommessa al ribasso sull'Italia del valore di un miliardo e 300mila dollari, puntando 700 milioni contro le nostre banche e 600 milioni contro gli asset strategici di Enel e Eni. E siccome la speculazione tende a muoversi in branco una volta fiutata la preda, è probabile che altri fondi decidano di scommettere contro l'Italia potendo così cogliere due comodi piccioni con la stessa fava: lucrare facili guadagni e condizionare le scelte politiche.
Ecco perché sarebbe stato non solo opportuno, ma doveroso, che la Bce posticipasse la riduzione del Quantitative Easing di altri tre mesi. In questo modo avrebbe impedito ai croupiers della globalizzazione finanziaria di partecipare alle elezioni italiane sterilizzando, almeno in parte, l'impatto materiale, ma anche psicologico, delle loro manovre sul mercato. La mia personale e desolata sensazione, invece, è che la Bce gli abbia vidimato la scheda.