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I punitori di sé stessi

di Livio Cadè - 02/08/2022

I punitori di sé stessi

Fonte: EreticaMente

“Divenne lo spietato carnefice di se stesso”
(D’Annunzio)

Perché tanti dicono di voler esser felici e così pochi lo sono realmente? Cos’è che si intromette tra noi, il nostro ingegno, la nostra volontà, il nostro sapere, e la felicità? Cosa ci lega a una vita piena di dolori? Alcuni vedono in ciò la volontà di Dio o l’effetto del peccato, altri un destino, una disarmonia interiore, il karma, una catena dodecuplice di condizioni che affonda nell’abisso del tempo – com’è nel buddhismo – o fenomeni naturali riconducibili a organi e tessuti nervosi.
Da tempo la nostra medicina cartesiana ci ha ridotti a res extensa, ci ha abituati a considerare il dolore lo scricchiolio d’una macchina, privando anche la sofferenza umano d’ogni natura metafisica, confinandola negli ambiti di interventi tecnici, di problematiche e di riparazioni meccaniche, assegnando al dolore, come alla morte, il carattere di un dato obiettivo e statistico.
Così, non distinguiamo più il dolore come fatto neurologico dal soffrire come valore soggettivo, da un’esperienza interiore che non coincide con la sensazione dolorosa ma la elabora e le dà un senso. La sofferenza è la nostra personale risposta al dolore, e non dipende tanto da variabili soglie di percezione fisica quanto da discrimini morali e spirituali.
Archiviato il vecchio pathemata mathemata, il dolore diventa un assoluto disvalore. Resta in noi solo la necessità analgesica, la propensione a fuggire il dolore senza chiedergli alcun insegnamento. Perciò ricorriamo a farmaci sintomatici non appena si manifesti un malessere qualsiasi, prendiamo sonniferi per dormire, ansiolitici per tranquillizzarci etc. V’è quasi una rivendicazione all’assenza di dolore come a un diritto che lo Stato e la scienza devono garantire.
Evitare il dolore è tendenza naturale quanto il nutrirsi. Due cose ci servono: pane e oppio. E difatti da sempre coltiviamo il papavero non meno del grano – in senso materiale quanto simbolico. Ma gli antichi sapevano che non è possibile sopprimere il dolore senza privare di senso la vita. E il Buddha non approverebbe certo le nostre soluzioni ‘nirvaniche’, il nostro irreale eudemonismo, questo “diletto sanza dolore” che sembra il fine d’una società anestetica e spiritualmente addormentata.
Tuttavia, questa società che consciamente ricusa la sofferenza e la vuol bandire, è paradossalmente intrisa di un sottile masochismo. Si diletta nella retorica del dolore, indugia con stupefazione incantata a contemplarlo, si compiace d’ogni notizia di tragedia, di patimenti, di strazi e di morti. La sua peculiare elaborazione del dolore consiste nell’ingannarlo, nel fuggirlo e nell’amarlo insieme, nel farne una sofferenza piacevole.
Società querula, vittimista, imbottita di antidolorifici, che sempre si lamenta, e che pure gode dei suoi mali; che sembra difendere la vita ma istiga al suicidio, che celebra il progresso mentre sprofonda nel cupio dissolvi. Società in cui prevalgono forze autodistruttive, impulsi necrofili; che ride per nascondere la sua cupezza; dove la politica vuol rovinare il Paese che governa; dove la medicina non si pone più come scopo la salute dell’uomo ma la sua malattia.
Il dolore, elaborato in dato fisiologico, numero e percentuale, diventa un’opaca coscienza di massa, cui è negato d’aver una vera coscienza di sé. Si contraddice il significato intimo e incomunicabile della sofferenza, la sua radicale solitudine, che non si offre alla misurazione e all’analisi ma alla compassione, all’intuizione dello spirito.
Questa banalizzazione del dolore va di pari passo con l’affermarsi di una comunicazione vacua, appiattita su minimi comun denominatori di senso e persa in una generale confusione di valori. L’accettazione del dolore, che è l’essenza d’ogni forza d’animo, viene scambiata per masochismo. E viceversa, non vediamo questa nostra malaticcia debolezza che, mentre s’affanna a sopprimere il dolore, a zittirlo, oscuramente lo invoca e ne gode. Per questo la nostra società può essere insieme masochista e anestetica.
Vi si agita forse una pulsione di morte, un decadimento naturale, il destino d’una civiltà che s’estingue, degenerando in barbarie, secondo ineluttabili corsi storici. Forse un inconscio sensus finis stimola tanto l’autolesionismo dei singoli individui quanto collettive procedure di auto-distruzione. V’è tuttavia nel masochismo un elemento invariabilmente umano, che prescinde dall’epoca e dalle crisi storiche.
Chi ha mai tratto beneficio da dottrine, manuali, analisi e terapie, che vorrebbero insegnarci come essere felici? Così, dopo aver visto tante menti ingegnose, audaci e piene di buona volontà fallire in quest’arte, mi son persuaso che l’uomo ami più il dolore che la felicità e che, nonostante lo neghi, abbia un’invincibile riluttanza ad abbandonare la propria sofferenza.
Quest’argomento lascia increduli e quasi offende. Tutti odiano il dolore, com’è possibile amarlo? Ma se anche i poeti ammettono la possibilità di odiare ciò che si ama, perché non potremmo amare ciò che odiamo? Amiamo la gabbia nella quale ci chiudiamo, che ci imprigiona ma ci protegge, forse ci salva da un dolore più grande.
Nessuno ammette d’esser masochista. Ma non è difficile, per un osservatore imparziale, vedere i meccanismi che spingono gli altri nei vicoli ciechi di comportamenti frustranti e dolorosi. Sembriamo l’Heautontimorumenos, il terenziano punitore di se stesso. Solo, non ricordiamo la colpa che dobbiamo espiare. Senza saperne la ragione, l’uomo vuol esser punito. Forse perché su di lui incombe un’ombra penitenziale e l’angoscia del castigo l’opprime. Perciò si punisce da sé.
Questo bisogno d’espiazione è il perno su cui ruota il nostro senso morale e scandalo per la nostra razionalità. Di fatto, il masochismo è incomprensibile finché ci identifichiamo con un io cosciente e razionale. Il punto è che ubbidiamo alle istigazioni di un’involontaria volontà, se così si può dire. Non è forse questa stessa volontà  che crea in noi incubi e sogni? Il nostro demone ci conduce lungo strade che non conosciamo, ci fa inciampare in ostacoli imprevisti, malattie e incidenti, ma tutto ciò ci par dovuto al caso o a leggi di natura.
Quante volte i nostri desideri hanno effetti indesiderati? Ma quando, nelle nostre consapevoli intenzioni, si insinua un’ombra sabotatrice, se mentre miriamo alla felicità qualcosa ci urta e ci fa mancare il bersaglio, ne diamo la colpa alla sorte o a una nostra inettitudine. Se la mente ci infligge pensieri torturanti o il nostro corpo sviluppa mali auto-immuni, responsabili saranno gli altri o la genetica. Non siamo disposti a riconoscervi il nostro genio masochistico che nella sua oscura volontà ci trascina con sé. L’io non vede il magma su cui galleggia. Non pensa che il dolore sia l’eco di un desiderio sussurrato, inudibile, che la vita gli rimanda forte e moltiplicata.
Non dico che tutto il male nasca dal nostro masochismo. Sarebbe un’utopia, un ideale di perfetta giustizia: nessuna sopraffazione, nessuna violenza esterna. Saremmo noi, con leggi inerenti alla nostra anima come quelle della digestione lo sono per il corpo, a decidere delle nostre colpe e delle pene, giudici e carnefici di noi stessi. Riceveremmo dal destino solo quello che abbiamo chiesto, e saremmo per questo ancor più da compatire.
Dico solo che dalla nostra frequente intimità col dolore dovremmo inferire che lo amiamo. Infatti le cose che si amano si attraggano e si uniscono. Per essere felici basterebbe allora applicare quel salutare principio: «se non la amate, la sofferenza vi abbandonerà», ma non ne siam capaci. Catene troppo strette, legami di torbida passione ci legano al dolore, come in certi amori tragici e maledetti.
L’inconscio desiderio di soffrire è il segreto che la nostra psiche difende più gelosamente. Dove ne affondano le radici s’alza una densa caligine. Forse le cause prime s’annidano tra una madre e il suo bambino, quando tutto è ancora immerso nella tenebra degli istinti. O forse prima, nel grembo, o ancor prima. Cosa c’è nella nostra vita che non sia un regressus in infinitum? Quindi, accontentiamoci di vaghe congetture e di circoscrivere il problema.
Quello di cui parlo non è il masochismo classico, ovvero la ricerca dell’eccitazione e della soddisfazione sessuale attraverso vessazioni fisiche e morali. Né quel masochismo con cui gli asceti si impongono privazioni e mortificazioni disumane, come quelle di una Santa Rosa da Lima, sofferenze ed espiazioni sacre, che la scienza non può capire.
È piuttosto un masochismo morale, che si esprime nei sensi di colpa e di inferiorità, nel pessimismo, nella tendenza a svalutarsi, a rimproverarsi e auto-accusarsi, nel sentirsi votati all’infelicità etc. Son cilici che nascondiamo sotto le vesti, autoflagellazioni, un fosco rimuginare di cui ci serviamo per tormentare noi stessi e le persone vicine.
Ma quando le gocce di innumerevoli masochismi individuali si fondono in un unico fiume, un impetuoso masochismo sociale ci travolge, la latente aggressività del masochista esce e dilaga, diventa un flagello comune. Un caso a tutti noto è il recente Grand Guignol della pandemia, questa sinistra evocazione di fantasmi masochistici, perversa elaborazione collettiva del dolore. Tenebrosa fantasia in cui è caduto non solo chi ingenuamente crede alle ombre cinesi dei virus e dei vaccini ma anche tanti che, pur non lasciandosi ingannare, godono nell’immaginare scenari apocalittici, catastrofici e luttuosi.
Quel che sembra un problema sanitario è in realtà una sconcertante regressione infantile. V’è da un lato un ambiguo Sistema-Madre che impone le sue cure al cittadino-bambino, simulando atteggiamenti apprensivi e protettivi con un’invadenza del tutto eccessiva nei confronti della sua libertà, e insieme esercita su di lui un’autorità irrazionale e violenta, ne frustra l’autonomia e la legittima curiosità, interdice, censura, minaccia.
Dall’altro v’è un bambino-cittadino preso nella sua antinomia sentimentale, diviso tra desiderio di indipendenza e adattamento opportunistico, tra l’impulso e l’inibizione a ribellarsi, passività e aggressività. Se la paura e il bisogno prevalgono, diventa un ‘bravo bambino’ docile e sottomesso, che non osando contraddire l’Autorità ne segue scrupolosamente le regole. E odia, o forse invidia, i’bambini cattivi’, gli spiriti non domati.
Piegandosi, mutilandosi, umiliandosi, rivolge su di sé la sua rabbia. Punisce da sé il suo impulso a rompere i vincoli di dipendenza. Questo alleggerisce la sua angoscia, ma segna il suo spirito con una profonda cicatrice, un solco rugoso di odio e sottomissione. Idealizza la ‘Madre’, le concede una speciale devozione, per negare la sua ostilità verso di lei. Ma il suo è un amore malato, bloccato nel pantano del rancore e di soffocanti compromessi affettivi.
Infine, questa sua elaborazione del dolore, la sua interna sofferenza, diventa per lui una seconda natura. Rimuove il suo conflitto e lo seppellisce così a fondo che sia impossibile per lui vederlo. Perciò ogni allusione al suo autolesionismo gli suona assurda e oltraggiosa. Ma noi, senza poterne conoscere la causa, ne vediamo gli effetti.
Ad esempio, lo stile lagnoso tipico del bambino-cittadino masochista. Il tono lamentoso e dolente di chi ha imparato ad attirare le attenzioni e le cure degli altri soffrendo. Quel frequente recriminare, il rivendicare pieno d’accuse e di ricatti morali, l’amaro “tu non mi ami” che solo il masochista sa esprimere con tanta intima convinzione. E insieme quel compiacente, servile “io sono come tu mi vuoi”. Anche angariato da uno Stato-Madre, il masochista soffre in silenzio, ne accetta la violenza, ne condivide la follia, cede ogni dignità e rispetto di sé stesso. E s’illude di compiere così giusti sacrifici e rinunce.
Ovunque, nel lavoro, nell’amore, nella fede religiosa, nelle nostre patologie, fin nella nostra morte, possiamo cogliere indizi di un fondamentale masochismo, di quel potere in noi che boicotta e contraddice le nostre coscienti aspirazioni. Basta superare il banale preconcetto che fa della felicità lo scopo della vita, o quell’idea illuminista che vede la felicità nazionale come fine precipuo di un buon governo. Capiremmo allora che il masochismo, l’espiazione della colpa, sta alla base del nostro ordine sociale e delle comuni opzioni morali.
Prendete l’uomo che ansima faticosamente indossando una mascherina, imponendo ai suoi polmoni un inutile supplizio. Guardate quello che alla prima dose di vaccino ha avuto una grave reazione anafilattica, alla seconda una paresi dell’arto superiore sinistro, e dopo la terza una settimana di forti febbri e atroci mal di testa – e tutto questo senza trarne un minimo beneficio. Ebbene, lo vedrete attendere con ansia la quarta dose. Osservate quell’altro, pronto a sopportare, senza alcuna sensata ragione, estenuanti isolamenti, penose separazioni dalle persone care.
Questi uomini non sono folli o stupidi, son masochisti. Non cercano il benessere, vogliono punirsi e soffrire. Si adattano a un paradigma masochistico condiviso dalla maggioranza della gente. Non è un modello liberamente scelto ma il risultato di un lungo e inconsapevole processo di adattamento. Se il masochista potesse vedere la violenza senza scopo che si infligge, il suo animo verrebbe scosso da onde sismiche di rabbia, da magmatiche eruzioni di libertà. Vedrebbe la natura corrotta dei valori, dei  sensi di colpa, delle idee di responsabilità e di dovere cui si è sempre conformato.
Se milioni di masochisti si destassero, sarebbe una rivoluzione senza eguali nella storia! Ma la nostra società non corre un simile rischio. Anzi, la gente contribuirà a perpetuare e consolidare il vigente Ordine Masochistico. Soprattutto oggi che il grande Mistero pandemico ha unito tutti in nuovi, sconosciuti e orrendi abissi di autolesionismo, stringendo in un amplesso doloroso l’uomo e la Medicina, il Bambino e la Madre più terribile, la Morte.
Masochismo ormai sclerotico e irreversibile. Il ‘bambino bravo’ non si ribellerà. Ha fiducia, ubbidisce e subisce senza lamentarsi, senza fare domande inopportune, senza dubitare. Sapendo che se anche proverà una sofferenza, è “per il suo bene”, che la sofferenza stessa è un bene. Il circolo masochistico si chiude su sé stesso, impenetrabile. E sulla maschera tragica della persona, a celarne l’umanità, si pone una disumana mascherina, tormento delle vie respiratorie, usato come un sanitario cilicio.
Dovremmo dunque chiamala masocherina, simbolo dei Vaccinanti, di questi moderni flagellanti che assaporano la frusta della Disciplina con gemiti di piacere, invocando il loro viatico di dolore. Si inginocchiano davanti ai medici chiedendo d’esser puniti, d’espiare le loro colpe. Rispettano le leggi più rovinose, credono agli inganni più abietti. Far la conta di morti e malati li eccita, s’avvolgono voluttuosamente in gramaglie. Tutto va sempre peggio e ne godono. Assecondano supinamente le voglie sadiche del Potere. Nel fallimento delle varie misure, nella frustrazione delle loro attese, trovano un motivo per accettare sempre nuove sofferenze.
A un essere paradossale com’è l’uomo, farsi del male può sembrare un diritto. Ma quando si fa piaga sociale il masochismo sembra diventare un dovere di tutti, la folla reclama per tutti dolore ed espiazione. E nessuno  pare più colpevole e punibile di chi, ancora guidato da un sano istinto, da sentimenti e intelligenza incorrotti, rifiuta il comune delirio autolesionista.
Se il masochismo morale si accaniva sull’individuo, quello sociale colpisce un’intera comunità. Inutile cercare allora comprensione o indulgenza, perché, sebbene dissimulata e ritorta, è una perversa crudeltà a spingere gli uomini. Perciò, quando vedo i Vaccinanti rigirarsi nel loro astioso vittimismo, inveire contro gli uomini liberi, con gemiti in cui si confondono dolore, rabbia e piacere, penso: “ecco dei degni seguaci di Masoch!”. E capisco quanto sia difficile per l’uomo amare il suo prossimo, visto che tanto poco ama sé stesso.