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I socialisti che venerano Dio

di Daniele Perra - 14/05/2024

I socialisti che venerano Dio

Fonte: Daniele Perra

Nello studio della Rivoluzione Islamica in Iran, due testi risultano imprescindibili: il primo – che in qualche modo l'ha ispirata – è “Abu Zarr. Khodaparast-e Sosiyalist” (Abu Zarr. I socialisti che venerano Dio); il secondo – perché l'ha causata – è "Political order in changing societies" di Samuel P. Huntington.
Il primo testo è del pensatore radicale egiziano Abd al-Hamid Jowdat al-Sahar e venne tradotto in persiano da Ali Shariati (che della Rivoluzione fu uno dei principali ideologi). Lo stesso Shariati ne pubblicò una sua versione (rivista e corretta) facilmente rintracciabile sulla rete in traduzione inglese con il titolo “And once again Abu Dharr”. Il libello tratta della vita di Abu Zarr, uno dei primi compagni del Profeta Muhammad (con tutta probabilità fu la quarta o quinta persona che aderì al messaggio dell'Islam), che viene definito alla stregua di socialista ante litteram. Il suo socialismo, però, è del tutto particolare, essendo venato di spiritualità e di slancio mistico. Qui si racconta che proprio Abu Zarr sostenne di aver incontrato e pregato Dio tre anni prima di imbattersi in Muhammad. Alla domanda in quale direzione si fosse rivolto per pregare Dio, egli rispose: “Nella direzione in cui Lui mi ha reso consapevole di me stesso”. E ancora: “in questa esistenza priva di confini [il riferimento è alla vita nomade nel deserto della sua famiglia] ho trovato prove dell'esistenza di Dio e del fatto che Lui mi ha guidato. Non c'è alcuna speranza che l'intelletto possa capire la Sua essenza attraverso l'analisi e la discussione. Egli è più grande di tutto questo e non c'è possibilità di comprenderlo”.
Abu Zarr viene dunque definito come “persona primordiale” in cui la logica non ha ancora rimpiazzato la coscienza. Egli, parafrasando René Guénon o Blaise Pascal, conosce Dio col cuore, perché quella è la via della fede. In questo viene presentato come “l'essere umano completo”, forgiato dalla religione che – per Shariati – deve essere sempre forza propulsiva/creatrice (la creazione di Dio non è mai terminata visto che l'universo è in continua espansione), capace di elevare l'essere umano, e soprattutto rivoluzionaria. Ed in base a questa “conoscenza”, Abu Zarr capisce immediatamente che Muhammad è “evento” (è l'heideggeriano “Ereignis”, se volessimo utilizzare una terminologia filosofica moderna). Il suo messaggio è rivoluzionario. Tuttavia, i suoi successori (non tanto Abu Bakr e Omar, che hanno continuato a vivere con umiltà secondo i precetti insegnati dal Profeta) hanno fossilizzato tale messaggio, trasformando l'Islam in una religione di potere e governo. Parlando col governatore di Damasco Mu'awiyya (contro suo figlio Yazid si ribellerà Husayn a Kerbala), Abu Zarr afferma: “Se costruisci questo palazzo [il riferimento è alla lussuosa residenza omayyade meglio nota come “Palazzo Verde”] con i tuoi soldi, è solo stravaganza; se lo fai con i soldi della ummah è tradimento”. La principale accusa che Abu Zarr rivolgeva al terzo califfo Uthman (rappresentante della tradizionale aristocrazia meccana con la quale Muhammad aveva lottato in vita) era quella di aver assunto pose e caratteristiche proprie dei monarchi bizantini e sasanidi. Ma l'Islam è contro la monarchia. Essa è una degenerazione. Un hadith profetico recita: “dopo di me i califfi, dopo i califfi gli emiri, dopo gli emiri i re, dopo i re i tiranni”. E lo stesso Muhammad aveva giudicato il titolo malek al-mamalek (re dei re) come il più detestabile di tutti.
Non a caso, il padre spirituale dell Rivoluzione Islamica in Iran, Ruhollah Khomeini, sosteneva che la monarchia fosse un'istituzione pagana (residuo del politeismo) incompatibile con il vero Islam. I musulmani, a suo modo di vedere, hanno il sacro dovere di opporsi alle monarchie ereditarie (come fecero proprio Abu Zarr, che si esiliò, e Husayn, che si ribellò). Non solo. Non devono mai collaborare con esse, servirsi delle loro istituzioni, pagare i loro burocrati o praticare l'ipocrisia o la dissimulazione per proteggere se stessi. Il dovere del musulmano è attuare la distruzione totale della monarchia, perché l'Islam appartiene agli oppressi e non agli oppressori, alle masse e non ai ricchi. Dunque, dovere del musulmano è combattere contro tutto ciò che lo opprima: ovvero, contro tutto ciò che gli impedisca di divenire un “essere umano completo”, di prendere coscienza di sé per superare il proprio io ed essere al contempo uomo e comunità.
Il secondo testo risulta fondamentale perché nel mezzo dei tumulti socio-economici generati dalla sua “Rivoluzione Bianca”, lo Shah (sbagliando) scelse di attuare per filo e per segno i suggerimenti contenuti nell'opera dello scienziato politico nordamericano, all'epoca imprescindibile per i corsi di laurea sulla modernizzazione politica nei Paesi in via di sviluppo.
Secondo Huntington, una rapida modernizzazione in ambito economico e sociale produce inevitabilmente nuove domande, nuove pressioni e nuove tensioni nell'ambito politico. Di conseguenza, alla modernizzazione sociale segue sempre una certa instabilità politica. In modo da prevenire la rivoluzione, ogni governo avrebbe dovuto creare un “Partito unico” o un “Partito-Stato” che sarebbe servito da legame organico con il Paese, mobilitando la popolazione e trasmettendo ordini dall'alto verso il basso, convogliando gli interessi dal basso verso l'alto e fornendo allo Stato contingenti di fanteria disciplinati e fidati.
Queste idee si diffusero in Iran quando alcuni giovani laureati tornarono dagli Stati Uniti ed iniziarono ad occupare posizioni di rilievo all'interno delle istituzioni e degli organi di governo. Così, nel 1975, lo Shah decise di sciogliere i due Partiti che davano una parvenza di sistema multipartitico all'Iran (il Partito Mardom e l'Iran-e Novin) è proclamò la nascita del Partito unico della Rinascita (Hezb-e rastakhiz). Inoltre, annunciò che tutti gli aspetti della vita politica e civile sarebbero ricaduti sotto il controllo del Partito. Tutti i cittadini avevano il diritto/dovere di aderirvi e chi non lo faceva era quasi certamente un “comunista mascherato” che poteva scegliere tra la prigione o fuggire all'estero (magari direttamente in Unione Sovietica). Tuttavia, paradossalmente, lo stesso Partito della Rinascita operava secondo canoni marxisti-leninisti, come il centralismo democratico, ed i suoi esponenti giuravano che avrebbero stabilito legami dialettici tra il governo e la popolazione, sintetizzando il meglio del capitalismo e del socialismo. Ciò avrebbe permesso al “sole ariano” (colui che, a suo dire, vantava un canale diretto di comunicazione con Dio) di completare la sua “grande rivoluzione”.
Il Partito della Rinascita passò gli ultimi anni di vita della dinastia Pahlavi a cercare di costruire una struttura che coprisse l'intero Stato e ponesse qualsiasi attività sotto la diretta supervisione del monarca (con l'ausilio della Savak). I risultati furono estremamente scarsi. Anzi, con questa mossa, lo Shah riuscì ad inimicarsi ulteriormente la classe media, i religiosi – senza considerare l'enorme quantità di contadini senza terra che, gravemente colpiti dagli effetti nefasti della sua riforma agraria, si erano trasferiti in cerca di lavoro nei principali centri abitati, finendo a vivere in sterminate baraccopoli – ed aprire le porte al processo rivoluzionario.
Appare dunque curioso come Huntington (che successivamente ha teorizzato lo “scontro tra civiltà”, ponendo l'accento sui rischi, per l'Occidente, di un connubio islamico-confuciano) abbia, seppur indirettamente, contribuito a scatenare la Rivoluzione Islamica in Iran.
Questo lungo preambolo ha uno scopo preciso: ovvero, dimostrare la sostanziale inconciliabilità tra società/culture orientali e soluzioni occidentali (a meno che queste non vengano mediate da forme tradizionali, come fanno attualmente i vertici del Partito comunista cinese, legati comunque ad un approccio “orientale” al marxismo, con il confucianesimo). Non solo, esiste anche una altrettanto sostanziale incomunicabilità. Per il semplice fatto che l'Occidente (e gli occidentali) solo in rari casi si sforzano di capire la forma mentis orientale. Ne consegue che il tentativo di imporre modelli estranei a queste culture genera sempre (o quasi) forme di resistenza più o meno violente, la cui radicalità è direttamente proporzionale al radicalismo con il quale si cercano di imporre suddetti modelli estranei.
Ecco che, a prescindere da una buona dose di pragmatismo geopolitico (che comunque non manca), si può iniziare a tracciare un profilo teorico sulla costruzione del cosiddetto “asse della resistenza”, tenendo bene a mente che la stessa Costituzione della Repubblica Islamica dell'Iran prevede di favorire il bene ed impedire il male, così come di aiutare gli “oppressi” del mondo a combattere gli “oppressori”.
In altre parole, invita a resistere e ad aiutare a resistere. Ed invita a farlo utilizzando, come fondamento ideale, il messaggio dell'Islam e la sua giurisprudenza che tornano a rappresentare le basi della dottrina militare. É scritto all'articolo II della Costituzione: “tutte le leggi civili, penali, finanziarie, economiche, amministrative, culturali, militari, politiche e di altro tipo e tutte le normative devono essere fondate sui precetti islamici”.
Ancora, laddove la geopolitica viene stornata dal suo afflato spirituale (caratteristica propria di quella che il pensatore argentino Norberto Ceresole aveva definito come “civiltà del denaro”), la visione e costruzione dell'asse della resistenza riscopre elementi propri della geografia sacra come la salvaguardia e tutela dei luoghi santi (non solo dell'Islam) da quello che è stato definito in altri scritti come il processo di “occidentalizzazione del mondo” o di “desacralizzazione dello spazio”.
In altre parole, parafrasando Carl Schmitt, laddove siamo di fronte ad una secolarizzazione di concetti teologici (ad esempio, il determinismo geografico di certi modelli geopolitici che vedono gli USA come “isola/fortezza” inevitabilmente proiettata verso il dominio talassocratico globale è una semplice secolarizzazione del concetto di “predestinazione”), la risposta della Rivoluzione Islamica è il ritorno al paradigma divino: l'uomo si volge dal “peccato” alla “contrizione” e torna a svolgere la funzione a lui attribuita da Dio, quella di chiamare le cose con il loro nome reale (in virtù di un'origine rivelata del linguaggio) e non con le forme travisate della modernità.