Il buco nero che stravolge tutto e non cambia niente
di Marcello Veneziani - 14/04/2019
Fonte: Marcello Veneziani
Ecce Buco. Abbiamo visto l’universo dal buco nero della serratura cosmica. Finalmente l’abbiamo visto, incandescente e cupo, come un alone che circonda il Dio Ignoto, come la corona della Madonna, o più modestamente come la bandiera dell’Europa – tante stelle intorno e un buco al centro. E siamo andati a dormire con la sua immagine negli occhi e l’animo perturbato e commosso.
La leggenda cosmopolitana intorno al Buco Nero si è finalmente fatta visione. Abbiamo la sua icona, la sua foto tessera per il documento d’identità. Abbiamo fatto qualche passo avanti? Qual è l’effetto che il Buco Nero può avere su di noi, sulla nostra vita, sulla nostra mente, sui rapporti con il nostro passato e il nostro futuro? Cosa cambia? A dir la verità non cambia nulla e non perché sia una scoperta trascurabile o irrilevante ma il contrario, troppo grande per toccarci, e noi troppo piccoli per essere toccati. Non scalfisce la più piccola delle nostre abitudini e convinzioni e non aggiunge né toglie nulla alla scommessa su Dio. Perché Dio non è finito nel Buco Nero, resta un mistero il perché si formano, e dunque nulla ci dice la fisica della metafisica, e l’astrofisica non è una riposta scientifica alla teologia. La scoperta è pura contemplazione, purissima speculazione, necessaria e inutile come tutte le grandi scoperte. Eccita le mente ma è una visione allo stato puro, uno spettacolo mondiale senza tempo e senza luogo, è una vertigine estetica, un brivido del cosmo senza ripercussioni sulla nostra vita, se non la conferma della nostra assoluta inanità. Siamo peli superflui dell’universo, virgole del cosmo appese a una frase chiamata sistema solare che è appena una riga nel libro infinito dello spazio. Nulla di nulla di nulla… e potrei continuare all’infinito di nulla in nulla.
L’aveva capito Einstein, dicono i giornali; si ma l’aveva intuito prima Leopardi, un ragazzo di provincia che disponeva di un modesto osservatorio, la siepe, in un centro spaziale chiamato “natio borgo selvaggio”. Ma anche lì, da Recanati, vide l’Infinito e fu preso da quella Nostalgia del Buco Nero di cui presentiva il sovrumano, interminato spazio e l’imperscrutabile lontananza. Cinquantacinque milioni di anni luce, ma che vuol dire, in pratica, mi chiedo io che sono venuto alla luce nel cinquantacinque? Niente, è la pazzia. Avevano ragione i greci a fuggire terrorizzati davanti all’illimitato, evocavano il senso del limite, cercavano i confini per ripararsi. E quando sento che quello individuato è il punto di non ritorno, la soglia estrema dove il tempo e lo spazio finiscono in un turbine, ho l’idea che meglio di Stephen Hawking l’avesse visto Dante, quando nel XXVI canto dell’inferno narra di Ulisse che volle ripartire dalla sua Itaca per seguir “virtute e canoscenza” e arrivò al Punto di Non Ritorno che allora aveva un nome mitologico, “Le colonne d’Ercole”. Dante si rivolse ai due che sono “dentro a un foco”, su “lo maggior corno della fiamma antica”: E si lasciò raccontare da Odisseo il suo ultimo viaggio “dov’Ercule segnò li suoi riguardi, acciò che l’uom più oltre non si metta…Di retro al sol, del mondo senza gente” per osare il “folle volo”. Si vedevano tutte le stelle dell’altro polo, sotto era il lume della luna, ma poco durò l’ebbrezza e lo stupore che “un turbo nacque” e tre volte li fece girare “con tutte l’acque”, e la prua della nave andò giù “come altrui piacque” fin a che il mare si chiuse sopra di loro. Ecco l’esperienza del buco nero narrata da Ulisse, che aveva voluto varcare il punto di non ritorno.
Leggendo le descrizioni dei media e degli scienziati vieni colto da una vertiginosa ignoranza, ti senti quasi un 5stelle perduto nell’universo. Non capisci quel che dicono, i loro numeri e le loro espressioni, non sai tradurle in parole sensate, corrispondenti alla realtà. Di fronte alle correnti gravitazionali non riesci a citare nulla oltre Franco Battiato nella Cura – “supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare”.
Secondo gli astrofisici in principio fu l’Urlo, poi un brivido percorse i cieli suscitando le onde gravitazionali. È vero, gli scienziati che hanno scoperto il Buco nero o il Big Bang da cui prese origine l’universo, meriterebbero il Premio Nobel. Ma non il Nobel della fisica, quello della Letteratura. Perché hanno raccontato uno straordinario, emozionante Mito di Fondazione del Cosmo, l’Avventura delle Origini, la fusione di spazio e tempo. E l’hanno favolosamente datato a 13,8 miliardi di anni fa, mese più mese meno. Non sto affatto dicendo che quegli scienziati siano dei ciarlatani o astrovendoli. Non dubito del loro rigore, reputo eccezionale la loro ricerca e mi inchino deferente davanti alla scoperta. Ma quando si pretende d’aver stabilito una volta per tutte, come dicono i media, l’origine del cosmo e certificata perfino l’anagrafe, con tanto di data di nascita, a me viene da ridere. Quanto durerà questa scoperta, quando accadrà che verrà smentita, superata da altre scoperte? E cosa saranno quelle scoperte se non scientifiche illazioni, toccanti ipotesi che eccitano la fantasia? La relatività regna sovrana e divora se stessa.
E allora torno coi piedi per terra e gli occhi al cielo, sento la musica delle sfere celesti, seguendo Pitagora e Beethoveen col suo plenilunio. Resto sorpreso e stregato come un bambino a capire cosa, chi, perché emise quell’Urlo primordiale e formò quel Buco, da dove scaturì. E un brivido di stupore percorre la mia schiena, figlio di quel brivido dell’universo che ci mise al mondo. E m’illumino d’immenso, anzi no, m’elimino d’immenso, mi cancello davanti all’infinito, affacciato a quel balcone incandescente che si sporge sul Buco Nero. E mi arrendo, come Dante, Leopardi e i primitivi, al suo Mistero.