Il ceto intellettuale semicolto
di Daniele Perra - 02/11/2023
Fonte: Daniele Perra
Mi sono recentemente imbattuto in un articolo a firma Elena Loewenthal (scrittrice e traduttrice ebreo-italiana) in cui si afferma che il “peccato originale” del conflitto arabo-israeliano sarebbe stato il rifiuto arabo di fronte alla proposta ONU del 1947 di spartizione del territorio della Palestina sotto mandato britannico in due Stati, uno ebraico e l'altro arabo. Bene. Sorvolando sul fatto che non si capisce esattamente perché gli arabi avrebbero dovuto accettare una risoluzione che prevedeva l'attribuzione a quella che allora era una minoranza di oltre la metà del territorio palestinese (ricordiamo, inoltre, che l'Agenzia ebraica, nel 1946, possedeva solo il 6% del territorio della Palestina mandataria e che, dopo il 1948, i profughi palestinesi sono stati dichiarati per legge israeliana “proprietari assenti” e le loro case e terreni confiscate), accettiamo per un istante il punto di vista della Loewenthal. E allora, visto che lei stessa afferma che suddetto conflitto è ricco di sfaccettature, se è vero che la risoluzione ONU 181 sanciva la nascita di uno Stato ebraico in Palestina, è altrettanto vero che da lì in poi Israele ha violato in modo continuo e reiterato ogni singola risoluzione ONU (in particolare le risoluzioni 242 del 1967 e quella 461 del 1980 che stabilivano la restituzione dei Territori Occupati dopo la guerra del 1967). La Loewenthal, ancora, non sembra ricordare che proprio nel 1948, oltre ad aver violato gli accordi sulla tregua rifornendosi di armi, gruppi terroristici sionisti arrivarono ad assassinare l'emissario ONU in Palestina (il conte Folke Bernadotte). E non sembra neanche ricordare che già prima del rifiuto arabo del 1947, l'Haganah aveva approntato un progetto di espansione sui territori che la risoluzione ONU attribuiva ai palestinesi (noto “Piano Dalet”). Non a caso, durante la guerra vennero distrutti qualcosa come 418 villaggi palestinesi (emblematico, in questo senso, il massacro di Deir Yasin).
Interessante anche il passaggio in cui la Loewnthal afferma che sostenere la causa palestinese sia una forma di “colonialismo intellettuale” indiretto che rifiuta o nega le “ragioni di Israele”. Forse, se volessimo ricercare il reale “peccato originale” del conflitto arabo-israeliano dovremmo ricercarlo nell'infausta Dichiarazione Balfour del 1917; quella sì pura espressione della mentalità coloniale occidentale. Di fatto, questa, garantendo diritti nazionali agli ebrei in una terra non loro (se non per astruse elucubrazioni sul “mito del ritorno”) li negava alla popolazione indigena alla quale veniva promesso un vago rispetto dei diritti civili e religiosi. Questo, perché tale dichiarazione era imbevuta dell'idea civilizzatrice del “fardello dell'uomo bianco” e di preconcetti che vedevano i popoli arabi allora sottoposti a dominio ottomano impreparati alla “statualità” (concetti ben espressi da Edward Said nel suo saggio sull'“orientalismo”). Eppure, già prima della Dichiarazione Balfour esistevano in Palestina (niente affatto una “terra senza popolo”, altro “mito coloniale”) riviste e centri culturali in cui gli intellettuali si domandavano quale sarebbe stato il loro destino. Ne cito due. Nel 1911, Najib Nassar pubblicò sul giornale “al-Karmil” (stampato ad Haifa) un articolo dal titolo Il sionismo: la sua storia, i suoi obiettivi, la sua importanza. Sempre nel 1911, comparvero sulla rivista “Filistin” (pubblicata a Giaffa) una serie di articoli sul pericolo sionista in cui il movimento fondato da Theodor Herzl veniva profeticamente definito come “il presagio del nostro esilio futuro dalla nostra patria e del nostro andar via dalle nostre case e dalle nostre proprietà”. Ma queste cose al pubblico occidentale ed al suo “ceto intellettuale semicolto” (come lo definiva il compianto Costanzo Preve) non interessano.