Il covidismo è un umanismo
di Livio Cadè - 05/07/2021
Fonte: Ereticamente
Come dice Montaigne, una spina punge sul nascere. Così, all’inizio del fenomeno Covid, ne era già perfettamente chiara la natura ‘spinosa’, ovvero il suo carattere di sistematica distorsione della realtà e di violenta emanazione illiberale. Evidente, per quanto sconcertante, l’irruzione di fattori immaginari e psicotici nella vita politica e sociale. Palese l’esistenza di una sottostante drammaturgia, condotta a forza di coup de théâtre conturbanti e traumatici.
Viceversa, le cause e le probabili finalità di questa frattura tra la realtà e la sua rappresentazione restano ancor oggi materia di congetture. Il ‘covidismo’ viene da molti letto come frode internazionale, ramificata corruttela, cinica sperimentazione condotta dall’aristocrazia sulla plebe, nuova forma di dittatura, riassetto socio-economico. Tuttavia a me pare che, nella sua natura più essenziale, corrisponda a una rivoluzione antropologica.
Della rivoluzione presenta gli elementi tipici: il proposito di scardinare un ancient regime; l’emergere della disumanità nell’uomo; il caos programmato e manovrato da una élite sfruttando le pulsioni irrazionali della massa. Come ogni rivoluzione, non si basa sulla disperazione della gente -sentimento che non produce rivoluzioni ma paralisi- ma sulle sue speranze. Perciò deve minacciare le persone con lo spettro della morte, per poi offrir loro una via di fuga. Deve convincerle che sovvertimenti anche violenti siano l’unica via percorribile, inevitabile e necessaria.
La rivoluzione covidista impone nuovi modelli di vita e di pensiero, ridisegna la relazione col mondo. Non si rivolge all’intelligenza dell’uomo ma ne stimola il sistema limbico, eccitando in lui un istinto di auto-conservazione che prevarica ogni altra funzione intellettuale. Si pone quindi in continuità con passate rivoluzioni di carattere scientifico, industriale, culturale e sessuale, che hanno profondamente cambiato il volto dell’uomo; nella linea di una evoluzione umanista cui da secoli corrisponde una progressiva involuzione dello spirito.
‘Umanismo’ va inteso qui come pensiero che confina l’uomo nell’immanenza e nella caducità delle sue forme umane. Questo umanismo, come un femminismo che riducesse l’essere umano alle sue forme femminili, è immagine di un uomo dimidiato, privato del suo fondamento divino. Alla visione umanista va contrapposta, come condizione integrale dell’uomo, la divinoumanità, per usare l’espressione di Soloviev.
Nell’umanismo l’uomo “è misura di tutte le cose”. Questo implica una negazione della dismisura. L’uomo si rinchiude in un etimo angusto – humus – in un esistere terreno non vivificata da aliti divini. L’umanismo è contrazione dell’uomo al pulvis es et in pulverem reverteris, privazione del cielo smisurato che è in lui e del suo orizzonte spirituale.
Al bisogno dell’uomo di dilatarsi verso l’infinito, l’umanismo risponde col ‘cattivo infinito’ del progresso e dell’evoluzione. La sua dismisura originaria si trasforma nella mancanza di senso del limite tipica di una certa scienza, di utopie sociali e tecnologiche.
Nel suo essere, in questa cavità infinita e feconda, non vede che il nulla. Non lo prende quel sentimento di meraviglia cui è debitrice ogni religione e filosofia. Lo coglie invece uno sbigottimento quasi offeso, ferito, per l’assurdità della propria esistenza. Non si sente a casa sua nell’universo ma un ospite estraneo e insofferente. Vaga spaesato lamentandosi dell’essere ‘gettato’ o dell’essere ‘per la morte’.
L’umanista si consola facendo della sua coscienza di sé il perno intorno a cui tutto ruota, il centro del mondo. Non comprende la natura diffusa dell’Essere, la Realtà che lo avvolge, attraversa e oltrepassa. E se anche la coscienza antropocentrica pone al centro di sé Dio o la Natura, non esce con ciò dal limite delle sue misure antropomorfe, dalla sua incapacità di pensare la Dismisura.
Questo centro, in cui l’umano si raggruma, irradia una tensione interiore, una nevralgia dello spirito. L’uomo diviene semplice punto su una mappa cui non corrisponde alcun reale territorio, bloccato nello spazio da confini immaginari. Non sa di esser lui stesso il ‘confine’, la linea dove si incontrano tempo ed eternità, umano e divino.
In tal senso, il covidismo appare oggi come la forma più radicale di un umanismo che ha dimenticato la realtà dell’uomo. Amnesia tanto profonda e tenebrosa da indurlo a considerare l’uomo un mero aggregato di tessuti e organi, di cellule in precario equilibrio.
Il monito evangelico “non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima”, ormai privo di senso, viene rimpiazzato da quel sentire viscerale per cui “se c’è la salute c’è tutto”. Da questo il covidismo trae conclusioni aberranti, immolando sull’altare della salute fisica ogni altra realtà. Un virus è ora il diabolus che insidia la nostra non più eterna ma effimera vita. Perciò i virologi sembrano demonologi ed esorcisti.
Il covidismo è di fatto un umanismo contratto, rattrappito. Figura di un corpo vitruviano che riempie il cerchio dell’essere come semplice disegno anatomico, crisalide senza farfalla, involucro del nulla. I nomi che il covidismo adotta come manifesto del suo umanismo – virus, pandemia, contagio, misure di sicurezza, vaccini ecc. – esprimono l’angoscia di un umanismo che non ha più riferimenti all’essere oltre il proprio corpo.
È una sincope della coscienza collettiva, svenimento prodotto dai vapori tossici dell’informazione. La percezione del mondo reale dilegua in un viluppo di fantasie oniriche. I covidisti vagano nella vita come i cavalieri nei palazzi magici del mago Atlante, tra immagini senza corpo, prigionieri di un incantamento. È una rivoluzione ipnotica, che sancisce in modo definitivo e forse irreversibile il potere dei media di influenzare la popolazione, facendo molti più danni di qualsiasi virus.
Sulla falsariga di Scoto Eriugena, potremmo dunque riconoscere nel covidismo quattro distinti soggetti:
chi non è ipnotizzato e ipnotizza (i Demiurghi e le loro dirette emanazioni)
chi ipnotizza ed è ipnotizzato (media, medici e politici)
chi è ipnotizzato e non ipnotizza (massa passiva e ubbidiente)
chi non ipnotizza e non è ipnotizzato (qualche raro ribelle)
Vi sono indizi nel comportamento, nel parlare, fin nella fisiognomica, che suggeriscono una suddivisione secondo principi tassonomici. Ma queste distinzioni restano comunque problematiche, specialmente nel caso della seconda categoria. Di sicuro, politici, giornalisti, medici, esercitano un’autorità psicologica che ha il potere di manipolare l’opinione pubblica e indurre nella gente stati ipnotici. Difficile è capire chi tra loro sia solo una volgare prostituta dei Demiurghi, ruffiano reclutato per circuire la gente, e chi agisca in trance.
Occorre fidarsi del proprio intuito. Ma anche un’auto-diagnosi resta dubbia, dato che chi è in stato di ipnosi non sospetta di esserlo. Ogni parola, ogni dato, ogni comunicazione dell’ipnotizzatore, assume ipso facto per lui carattere di verità. D’altro canto, per chi ipnotizza falsità o verità son concetti privi di senso, riferibili solo alla loro efficacia in relazione al risultato che si vuole ottenere.
Questa fascinazione ipnotica diventa centro focale del pensiero, ne provoca un restringimento, una rigida fissità che si converte in atti inconsci e automatici, guidati da una volontà esterna. Chi oggi crea e controlla le formule di questa ipnosi, le sue parole d’ordine, crea e controlla la realtà. Stabilisce un Principio d’ordine che regge la nostra vita e ne fonda la centralità.
Ogni umanismo ha infatti un centro che coincide con il suo valore fondamentale: Dio, la patria, la famiglia, il denaro… Questo centro gode di una supremazia gerarchica cui vanno sacrificati i valori periferici, in certi casi la vita stessa. L’Ordine covidista presuppone come valore centrale la ‘Cura’. Ne fa un Bene metafisico per il quale è giusto rinunciare alla cultura, al lavoro, all’arte, alla libertà e ogni altro valore.
La Cura è da sempre un concetto cruciale per l’essere umano. È sia l’affanno doloroso che lo tormenta (le “torme delle cure”), sia il rimedio al suo dolore. Questa duplice Cura prende storicamente caratteri spirituali, intellettuali, morali, formando l’ossatura di ogni sistema religioso o filosofico.
Nel covidismo ha però un significato puramente fisico. Da un lato è un costante assillo sanitario, nutrito di scrupoli maniacali, dall’altro una catarsi farmacologica. Tutto l’umanismo passato, con la sua ricchezza di valori e di significati, si incaglia in questo collo di bottiglia, stretto pertugio attraverso cui passano solamente i fantasmi del virus, del contagio e dei vaccini.
Il covidismo è quindi un esistenzialismo sanitario. Non solo l’essere è ridotto alla sua humanitas, ma la stessa humanitas è limitata alle forme di un’esistenza fisiologica, di totale e assoluta competenza dei medici. Dati statistici sui ‘positivi’, indici di mortalità, trattamenti farmacologici, sono il fondamento dubbio e traballante di tutto il suo umanismo.
È un umanismo mammifero, indifferente a ogni visione dell’uomo che esuli dalla dimensione animale. Si basa su una “concretezza mal posta”, astrazione che pretende di eleggere le funzioni biologiche a sostanza dell’essere. La sua Weltanschauung si riduce a una prassi medico-farmaceutica che sembra rifiutare ogni metafisica. In realtà è una meta-metafisica, aperta a ogni ideologia politica, fede religiosa o teoria filosofica che favorisca i guadagni dell’industria sanitaria.
Ma questo apparente umanismo biologico, con l’essoterismo delle sue ‘cure’, è solo una maschera. Uno strato di ipocrisia e di moralismo ricopre la natura esoterica del covidismo, il volto di un umanismo che si riassume nelle “parole incrollabili” di Alceo: «l’uomo è il suo denaro». Ma anche questo volto è una maschera. L’umanismo bio-economico nasconde un sostanziale demonismo, l’azione di forze non umane il cui obiettivo è confinare l’uomo nella sua fisiologia, separandolo da ogni trascendenza e libertà personale.
A ciò si arriva con un metodico lavaggio del cervello, o ipnosi. Il suo scopo è convincere l’uomo che la sua umanità non si realizza nell’aderire liberamente a un ideale etico o spirituale, ma nel suo conformarsi a un Ordine tecnico-scientifico. Per essere autenticamente umano l’uomo deve decidere della sua esistenza secondo i dettami della Cura. Questa decisione, che teoricamente rende l’uomo ‘auto-determinante’ e lo investe di responsabilità, non dipende dalla sua libera scelta ma dal suo ubbidire a una ‘necessità obiettiva’, al carattere coatto di leggi biologiche.
L’uomo può quindi diventare ‘autentico’ e rispettabile solo rispettando norme avallate da una maggioranza di scienziati e quindi democraticamente ineccepibili. La Cura diviene omologante e vincolante per tutti. Ogni anelito di libertà va censurato, in quanto espone la Verità scientifica ai dubbi di un pensiero critico, alle incertezze di chi vuol capire e orientarsi autonomamente. Così, quella che ogni persona sana di mente giudicherebbe una dittatura, si ammanta di una nobiltà morale per cui l’Obbligo rappresenta il bene fondamentale della società.
L’uomo non è più “condannato a essere libero” ma a essere curato, vaccinato, sottoposto a controlli clinici dalla culla alla tomba. La Cura diventa curatela di inetti, la cui vita dipende dall’intervento coercitivo di un tutore scientifico, di una medicina sempre più meccanica e violenta. Le forme di ‘renitenza’ a questo Ordo legis son viste come una ribellione intollerabile, che offende la natura stessa dell’uomo.
Abbiamo così un umanismo che impone apparati di controllo non umani, subordinando l’uomo alla macchina. Un esistenzialismo che promuove forme di esistenza sub-umane e trans-umane. Non solo l’idea del divino, anche quella di umanità viene cancellata, rendendo l’uomo schiavo di forze infere. Non più essere spirituale, aperto e multidimensionale, l’uomo è declassato a ente fisico-chimico, chiuso in un’unica opprimente dimensione. Residuo di processi economici, cavia di esperimenti scientifici, vittima ignara di manipolazioni mediatiche o cibernetiche, inquietante premonizione dell’uomo-automa, del golem.
Il covidismo fonda la sua persuasività su percentuali di morte, costantemente aggiornate ed esibite. A questa lugubre ossessione possiamo contrapporre un calcolo semplicissimo: il 100% della gente muore. Questo dato non può essere modificato da nessuna cura. Il neo-umanismo ipocondriaco dirà che proprio per questo si deve cercare di vivere il più a lungo possibile, lottando contro la natura e il destino; che questo è il senso della vita, l’obiettivo da raggiungere ad ogni costo. Reprimendo così un impulso più profondo della vita stessa, che preferisce la morte alla mancanza di libertà.
Il covidismo è dunque un umanismo in cui la natura spirituale dell’uomo è obliterata; una Cura che rende l’uomo incurabile, lo sprofonda in un incubo dogmatico-sanitario. Per svegliarlo dovremo forse cantare la bellezza della morte, lo sprezzo della vita, come antichi guerrieri. Dovremo cercare non nei farmaci ma in noi stessi l’Essere che ci guarisce. Ossia riannodare quel legame tra umano e divino che salva l’uomo da un fallimentare umanismo e dai suoi curatori.