Il fallimento di una classe dirigente: la Storia presenta il conto
di Fabrizio Pezzani - 02/08/2022
Fonte: Fabrizio Pezzani
Anthony Giddens della LSE (London School of Economics) ricordava impietosamente come l’Italia tendesse sempre a fare la fine della rana nella pentola portata ad ebollizione; la rana non percependo le variazioni termiche, se messa a freddo in una pentola sul fuoco a bollire, finisce cotta senza avvertire il rischio mortale se non quando è troppo tardi.
Al tempo in cui Giddens esponeva la metafora sembrava solo volere dimostrare la supponenza che gli inglesi hanno spesso avuto nei nostri confronti, ma oggi sembra proprio che quell’immagine di insipienza rappresenti fedelmente il fallimento di una classe dirigente sempre più inadeguata ad affrontare il cambiamento epocale che ci è imposto dalla Storia. Anche loro però stanno facendo la stessa fine, ma questo non rallegra.
Così oggi ci troviamo ad affrontare un vuoto culturale e di pensiero nella realtà di tutti i giorni rappresentato dalla rinuncia a pensare in modo creativo, ad affrontare con lucidità ed un pathos vero e ricco di solidarietà il vuoto dell’egoismo e della solitudine quotidiani, il tutto sigillato appunto dal grigiore di una classe dirigente ossificata e fallita al tribunale della “Storia“. Da quarant’anni non produciamo più cultura vera, ma viviamo di quella della rendita a tutti i livelli che brucia ricchezza ma non la crea ed il debito pubblico, fuori controllo, ne è la palese dimostrazione.
Tutti evocano l’importanza del merito ma quello dell’appartenenza che si sposa, appunto, con la cultura parassitaria della rendita che porta ad un abbattimento delle competenze professionali e morali a tutti i livelli. Abbiamo pensato di continuare ad essere i cinesi d’Europa fino a quando quelli veri ci hanno riportato alla realtà ed alla necessità di ripensare un modello di sviluppo che sia coerente con la nostra storia, la nostra identità ed in linea con un mondo che cambia, smettendo di farci colonizzare da modelli culturali che non sono nostri e che sono già falliti dove sono stati pensati.
L’economia reale, l’artigianato, il commercio, la manifattura, il mondo agricolo, le medie e piccole imprese (95% degli occupati) sono la nostra storia e da lì dobbiamo ripartire per dare speranza e fiducia ai giovani. Siamo leader nel mondo in diversi settori manifatturieri, nonostante tutto, ma avviare una semplice attività imprenditoriale oggi sembra più difficile che mandare un razzo sulla Luna.
Allora come facciamo a creare posti di lavoro se non riprendiamo un cammino creativo che ha fatto la storia del paese? Va incentivato e favorito questo mondo di libera creatività imprenditoriale per competere in modo nuovo su un mercato globale – una fantasia che ci è riconosciuta e deriva da secoli di artigianato che non ha pari nel mondo – e non imbrigliato da una burocrazia ottusa e da una finanza locusta che come le sirene di Ulisse ci ha fatto perdere il contatto con la nostra storia.
La politica nel senso più nobile, come la pensavano gli antichi Greci- “polis – ethos“-, dovrebbe aiutarci ad uscire da un guado in cui rischiamo di rimanere, ma anch’essa è più ridondante di slogan che di idee innovative e coraggiose in grado di rispondere ad un mondo nuovo, una sfida che non possiamo affrontare con la retorica ma con il pensiero. Non si sente un politico fare un pensiero compiuto che abbia un suo senso espositivo ed una sua logica strutturale; alcuni di questi farebbero fatica a superare un test di ammissione all’asilo se ci fosse; una possibile riforma? In questa confusione non si riesce più a capire cosa è giusto e cosa no, cosa e come fare e cosa e come non fare e tutto finisce nel dramma delle inutili e dannose accuse reciproche.
Così siamo eternamente nella saga delle riforme-non riforme, tutte eteree e lontane dal risolvere i problemi, pressati dall’urgenza di fare alla svelta, “presto e bene non si conviene“ ma pensare costa fatica, tempo e non paga subito e allora via con il nulla. Abbiamo subito un modello fatto di contatti fulminei, virtuali con un numero limitatissimo di parole, basato sull’effetto annuncio fatto di twitter, facebook, selfie e tutto l’armamentario che allontana dal pensiero vero.
Questa non-cultura scivola sull’onda, come un “surf“, più velocemente del tempo che sarebbe necessario per andare in profondità e provare a capire chi siamo, da dove veniamo e dove e come vogliamo andare così finiamo per complicare i problemi, perdere la bussola e diventare prigionieri di giochi più alti ed esterni a noi. Ancora una volta, infatti, si affrontano i problemi a valle e non quelli a monte rischiando di andare in loop per l’asimmetria creata tra paese reale e quello istituzionale continuando a ragionare sui mezzi quando è giunto il tempo di mettere in discussione i fini. Senza una visione più lucida dello scenario a tendere per risolvere un problema si complica il tutto.
Paradossalmente, nonostante il “rigore“ imposto dal novembre 2011 ad oggi, il debito è cresciuto del 25%, nonostante le “lacrime e sangue“, il crollo degli interessi sul debito grazie allo spread- chewingum con un peggioramento complessivo che dimostra l’inadeguatezza della classe dirigente.
Le agenzie di rating che ci avevano colpito ai quei tempi per l’inadeguatezza della tenuta politica oggi, che tutto è peggiorato, vedono meglio il nostro futuro con un opportunismo strumentale che ci fa capire quanto siamo ostaggio di interessi superiori che muovono le pedine a seconda dei loro interessi e dimostra quanto la razionalità dei mercati da tempo sia solo “mitologia“.
E’ lecito o no domandarsi se c’è qualcosa che non va nel modello di governance del paese e nella sua classe dirigente o dobbiamo ignorarlo presi dalla frenesia del cambiare senza capire verso dove andare o dove ci stanno spingendo? E’ necessario smettere di perdere tempo in un dibattito inutile ed ozioso sul funzionamento tecnico delle istituzioni che può essere migliorato, ma non sposta i termini del problema; non staremo meglio con un senato elettivo, non elettivo, senza senato, con due senati se non ci sono gli uomini; altrimenti siamo al cambiare tutto per non cambiare niente. Con una classe dirigente responsabile, onesta, di buon senso e non fatua e piena di slogan le riforme istituzionali non sono un problema come ci hanno dimostrato i padri costituenti che hanno rimesso in carreggiata un paese dissolto dalla guerra. Il dibattito sulle eventuali riforme deve ripartire da un serio ed approfondito esame di “autocoscienza“ sui valori fondanti una società. Come dicevano i nostri anziani: “non si mette il vino nuovo nelle botti vecchie“ o potremmo dire: non si cuoce il pane con le riforme del senato o le altre senza una visione di dove vogliamo andare.
Non abbiamo ancora deciso quale assetto istituzionale – centrale o federale – deve avere questo paese e siamo sempre in mezzo al guado con un patto di stabilità asimmetrico al paese e pensato su Marte. La situazione del paese è da manuale per la rappresentazione del ciclo di vita delle società che cominciano a collassare quando le élite al potere perdono la capacità di affrontare le sfide nuove imposte dalla Storia ed affidano la loro legittimazione all’occupazione del potere, ma questo nei secoli è sempre l’inizio della fine.”La loro decadenza non dipende da una paralisi delle loro facoltà mentali, ma dal collasso della loro eredità sociale che inibisce ogni esercizio delle loro inalterate facoltà in un’efficace e creativa azione sociale e culturale“ (A. Toynbee, Le civiltà nella Storia, 1947).
Le responsabilità, sia pure a livelli diversi, sono di tutti e nessuno si può sottrarre agli errori commessi, la presa di coscienza dei problemi morali è, direbbe Kant, un imperativo categorico perché non possiamo tradire i sacrifici dei nostri vecchi e le speranze dei nostri giovani e fare la fine della rana nella pentola.