Il fantastico mondo dei “dati”
di Pier Paolo Dal Monte - 13/10/2023
Fonte: Frontiere
L’universo è costituito da relazioni che sono espresse con svariate modalità: suoni, luci, colori, peso, pressione, movimento, sapori, linguaggio verbale e così via.
Tutto il vasto universo della conoscenza è formato dalle interazioni tra colui che percepisce ed osserva, e ciò che è percepito ed osservato, gli oggetti che si squadernano in innumerevoli modi, a seconda delle domande che il soggetto percipiente si pone, nei confronti di ciò che è percepito ed osservato. Egli trasceglie gli aspetti e gli attributi di ciò che osserva, interroga la realtà ponendo determinate domande, dalle quali dipendono le risposte che ne ottiene, i risultati delle indagini.
Ogni relazione col mondo comporta un aspetto ontologico: tutto ciò che interagisce con la realtà[1], per ciò stesso la modifica, in misura piccola o grande che sia, ne cambia la natura ed il corso, perché: «Ciò che è stato diventa una indelebile porzione di storia»[2]
Tale aspetto ontologico, seppur declinato con diverse accezioni, si manifesta, in maniera cogente, nel moderno feticismo dei numeri e dei dati, che sono considerati proprietà intrinseche del reale.
La coazione alla “razionalizzazione”, ovvero, il culto della reductio ad mathematicam[3] e della conseguente ablazione delle “qualità secondarie”[4], è gravido di conseguenze, per ciò che riguarda il modo col quale l’immagine del mondo si disvela dinnanzi allo sguardo e, dunque, per la visione del mondo che, nel pensiero, si dipana.
I numeri recano, con sé, un grave peccato originale: dal momento che simboleggiano gli enti reali, accade, assai sovente, ch’essi vengano confusi con gli enti, i fenomeni, gli oggetti, dei quali sono simboli e, nel pensiero e nella prassi, generano una sorta di confusione cognitiva che impedisce di distinguere la realtà rappresentata da quella percepita e, di fatto, la prima, prende il posto della seconda (ciò è particolarmente evidente nella dicotomia valore di scambio/valore d’uso)
Tuttavia, ciò che è rappresentato, non coincide mai, pienamente, con la rappresentazione, anche se, questo concetto, tende a sfuggire, nel momento in cui numeri e dati divengano oggetto di quella sorta di idolatria che si manifesta ai nostri giorni, grazie alla concezione riduzionistica, stereotipata e semplicistica, di cui è, sovente, oggetto la scienza.
Contrariamente a ciò che riteneva Galileo, il linguaggio della natura è molto più complesso per essere ridotto meramente ad mathematicam.
Nell’ambito dell’impresa scientifica, i “dati” vengono confezionati ricorrendo ai criteri operativi di una determinata scienza: se si osserva un oggetto con un microscopio, questo avviene perché i criteri di indagine, per estrapolare determinate caratteristiche dell’oggetto in questione, prevedono l’uso di tale strumento, così se si misura con un metro verranno ottenuti dati diversi che se si usa un termometro.
Tali aspetti sono dei dati (nell’accezione del participio passato del verbo “dare”), ossia, sono autoevidenti, se si rispettano determinati criteri convenzionali, ovvero, decisi tramite un accordo intersoggettivo. Questo, naturalmente, non significa che, se si osserva lo stesso oggetto ad occhio nudo, esso sia falso ma, semplicemente che, tali osservazioni, non possono essere accettate come “dato”, nel senso “scientifico” del termine, ovvero secondo i criteri di indagine di una determinata disciplina.
Nel caso dei “fatti scientifici”, per adoperare un’espressione di Ludwik Fleck[5], i “dati”, a differenza delle percezioni immediate, sono frutto di una costruzione intellettuale.
Il soggetto conoscente si trova costantemente di fronte ad una infinità di “dati”, ovvero di attributi dati (anche se mutevoli) dei fenomeni e degli oggetti, che sono percepiti dagli organi di senso e connessi, tra loro, tramite quello che, gli antichi, chiamavano “senso interno”, che elabora le informazioni ricevute, in modo simile (se si esclude la reductio ad mathematicam) a quello, mediante il quale, una determinata disciplina elabora i dati raccolti da uno strumento di misura.
In entrambi i casi, l’informazione[6] percepita, viene messa a confronto con un modello, che può essere l’idea generale dell’oggetto (in senso platonico), oppure un’elaborazione intellettuale tout court, come nel caso delle scienze strutturate.
Questo modello o prototipo (tipo) è caratterizzato dal fatto di essere “generale” e, quindi, applicabile a molteplici casi specifici (individui), perché è una sorta di “fattore unificante” (o massimo comune denominatore) dei “dati” che vengono estrapolati dagli oggetti.
In sintesi, i “dati” costituiscono uno dei punti di partenza del processo di oggettivazione[7], vuoi perché riconosciuti tali dal sensus communis, vuoi perché frutto di un accordo sui criteri operativi e strumentali per definire qualcosa come dato scientifico.
Ogni disciplina scientifica investiga la realtà, secondo determinati criteri di osservazione, allo scopo di giungere ad una descrizione intersoggettiva, della “realtà”, secondo le metafore proprie. Da questo punto di vista, si può ben comprendere il concetta di “relatività” delle cosiddette “verità scientifiche”, perché esse sono sempre da porre in relazione ad un determinato contesto che è, non solo, epistemico, ma anche storico e culturale.
A questo punto, è importante avere contezza del rapporto tra rappresentazione (metafora, modello) e realtà. I dati non sono altro che aspetti della realtà, rappresentati secondo metafore quantitative (le “qualità primarie”). Come abbiamo detto più volte, questi dati vengono “creati” secondo i criteri e le metafore peculiari ad ogni specifica scienza ma, alla fine, quello che si ottiene, sono numeri che, in virtù del feticismo quantitativo che permea di sé l’età moderna, non sono solo considerati come sineddoche di aspetti della realtà, ma, finanche, una sorta di asseverazione del reale.
Qui, il cosiddetto “pensiero razionale” si trasforma pienamente in “pensiero magico” e riesce a creare un mondo parallelo, un fantasma fatto di numeri, del quale, la realtà è considerata immagine imperfetta e al quale si ritiene che la realtà debba conformarsi.
In questo contesto, i numeri non sono più uno strumento cognitivo, ma diventano uno strumento poietico.
Ci spiegheremo meglio con un esempio, che riguarda il “concettoide” chiamato “temperatura percepita”. Accade, sempre più spesso, di sentir dire che, se la “temperatura percepite” è al di sopra di una certa soglia, allora è bene non esporsi a tale calore. È bene chiarire, una volta per tutte, che il sintagma “temperatura percepita”, non rappresenta un “dato”[8], in quanto è frutto, appunto, di una percezione soggettiva e individuale, e non di un’operazione di misurazione condotta con determinati strumenti e determinati criteri e, dunque, può essere definita, tuttalpiù, un “datoide”[9] .
Allo stesso modo, non è un “dato” il valore indicato, da un ipotetico paziente, sulla “Scala Visuale Analogica” del dolore, in quanto il dolore percepito è qualcosa di meramente soggettivo e non “oggettivabile” in alcun modo (non esiste un “algometro” o un “dolorimetro”, che dir si voglia). Benché tale percezione possa costituire un’informazione di una certa utilità clinica, essa non può essere considerata un “dato” scientifico[10].
Solo raramente, nel mondo realmente esistente, i numeri sono dotati di quel significato “assoluto” e, per certi versi, magico, del quale sono ammantati, nonostante i continui riferimenti alle “evidenze scientifiche”.
Questo avviene perché, la loro caratteristica più importante, non è quella veritativa, ma quella “funzionale”, ossia la loro capacità di diventare qualcosa di “reale”: una realtà che si inserisce nel mondo, in maniera “imprescindibile”, acquistando, magicamente, un’“essenza ontologica”, e, con essa la capacità poietica di modificare il reale, in quanto, determinano decisioni ed azioni.
Siccome quei numeri e quei dati sono generati da esperti “accreditati”, che adoperano criteri e metodi “riconosciuti” dalla Scienza, essi diventano qualcosa di dato, un “dato di fatto”, e così prendono parte alla creazione della realtà rappresentata, del sensus communis e, per dirla con William James, vengono ad acquisire un «valore di mercato»[11].
D’altra parte, potrebbe forse esistere un mercato privo di numeri e, dunque, di titoli di valore?
Una volta che siano stati ammantati dall’asseverazione degli “esperti, i numeri diventano una sorta di articolo di fede, che configura una nuova realtà, la quale impone scelte ed azioni. Alla fine, il risultato di questo feticismo numerico, non costituisce un ritratto più accurato della realtà ma genera tutta una teoria di vincoli, ai quali, scelte e decisioni devono sottostare, perché “lo dice la Scienza”.
Questa è, in fondo, un’operazione di teologia politica:
«un rituale, che una società “moderna e razionale” deve intraprendere allo scopo di aiutarsi ad individuare e strutturare la propria azione nel mondo. Il numero, in se stesso, è il sacro prodotto di un rituale, un simbolo totemico il cui valore è salvaguardato e protetto dalle norme scientifiche condivise che governano lo svolgimento del rituale, norme che, a propria volta, rivestono il numero della legittimità che consente che venga organizzata tanta attività attorno ad esso»[12].
In molti casi, questi totem assumono la funzione di tabù; questo accade, in specie quando i numeri siano frutto di operazioni pseudoscientifiche (anche se ammantate come “vera “Scienza”), nelle quali l’asseverazione è frutto del solo principium auctoritatis, oppure, più semplicemente, di un flatus vocis (purché esso sia sufficientemente reiterato), alla cui origine non è agevole risalire.
Il discorso sul feticismo dei numeri, ci consente di citare, brevemente, due argomenti, oggi alla ribalta.
Il primo riguarda il discorso pubblico, circa la cosiddetta pandemia da virus Sars-cov2, riguardo al quale è stato possibile soltanto un atteggiamento di accettazione fideistica, perché il mettere in dubbio la narrazione ufficiale e, dunque, sottoporre a critica i dati epidemiologici, le misure di prevenzione, le linee guida terapeutiche (peraltro, quali?), ossia le cure prescritte o proscritte poteva esporre a sanzioni o, comunque, alla stigmatizzazione sociale.
Il secondo è il dibattito sull’altrettanto cosiddetto “riscaldamento globale” (o “cambiamento climatico”), per il quale rimandiamo a quest’articolo.
Questi fenomeni riguardano il carattere ontologico dei numeri che, quando vengono “immessi” nel mondo (e opportunamente divulgati ed imposti), costituiscono un imprescindibile “dato”, un termine di confronto al quale comparare la realtà: una ratio, una misura di conformità, un criterio di verità che segna il confine tra osservanza ed eresia.
Ancorché ciò possa sembrare paradossale, oggigiorno, è la realtà che necessita di essere asseverata dai numeri, non viceversa, dunque, possiamo fare un sontuoso funerale al metodo sperimentale, onde celebrare adeguatamente il caro estinto.
Durante la cosiddetta pandemia, ad esempio, sono state adottate determinate misure, che sono state determinate da criteri che sono stati spacciati come “evidenze scientifiche” e, quindi, come “verità assoluta”, ossia qualcosa che non può essere messo in discussione, che non può legittimamente costituire oggetto di dubbio o di critica.
Poco importa se, in realtà, le “verità scientifica” siano, per loro natura, sempre transeunti e falsificabili, dal momento che, avendo ricevuto l’asseverazione, degli “esperti”[13], ossia di coloro che certificano la verità, per ciò stesso, diventano verità ontologiche. E neppure importa se cotesti esperti, sullo stesso argomento, abbiano asserito innumerevoli, verità diverse tra loro, e nemmanco se queste verità cambiano di giorno in giorno.
“Non avrai altra scienze all’infuori della mia”, ossia quella stabilita da un principium auctoritatis, confezionato da un sistema di informazione e di potere che basa le proprie tecniche di governo su un determinato “regime di verità” nella quale è necessario credere, altrimenti l’intero impianto si liquefarebbe come neve al sole.
Uno dei punti cruciali di quest’operazione è quello di conciliare la contraddizione tra il dogmatismo dei “dati” e la loro fallacia intrinseca (o, se vogliamo, la loro “falsificabilità”[14]). Per cercare di sciogliere questo nodo è necessario sfatare alcune favolette che riguardano direttamente il concetto di “ragione”, nella sua accezione di “pensiero calcolante”.
Ebbene, nonostante si ritenga universalmente il contrario, il pensiero calcolante è caratterizzato da un dogmatismo estremo, che è quello originato dal feticismo dei “dati” che permea, non solo, l’impresa scientifica, ma anche, tutti gli aspetti della vita collettiva.
Innanzitutto, sarebbe doveroso affermare che i dati non dovrebbero mai essere considerati come “fatti scientifici” o come “evidenti”. In realtà non vi è nulla di “autoesplicativo” nei dati: non sono automaticamente “consequentia rerum”. Tuttavia, essi, vengono, sovente, usati come se fossero qualcosa di indiscutibilmente dato e, specialmente, quando si tratti dell’uso strumentale della scienza (ne esistono forse altri?), essi divengono un mezzo per affermare il principium auctoritatis.
Dunque, i “dati” non sono mai qualcosa di “vero” (o di falso), a priori ed in senso assoluto ma sono frutto di operazioni, sui cui criteri esiste un accordo intersoggettivo e dipendono, in larga misura dal contesto nel quale essi vengono “confezionati” ed esibiti. Tale contesto è informato da molteplici influenze, nonché, cosa più importante, dalla visione del mondo prevalente che costituisce l’identità principale del sistema.
Pertanto, è doveroso, considerare le influenze culturali, politiche ed economiche che si manifestano nel processo di “produzione” dei dati e dei “fatti scientifici”, influenze che sono particolarmente presenti nelle istituzioni nelle quali i dati vengono “prodotti” e, pertanto, è lecito pensare che esse possano confliggere con l’obiettivo nominale di perseguire la “verità” scientifica o, per usare un’espressione meno pomposa, con la veridicità dei “dati e dei risultati. Data l’importanza e la pervasività di queste influenze, è lecito pensare che l’ostentata e decantata “obiettività scientifica” sia, in larga misura, una fola, nella quale conformismo, opportunismo, fede e conflitti d’interesse, di vario genere[15], danno origine ad una congerie di fallacie.
Dunque, non vi è nulla di dato, nei “dati” ma, come ogni cosa umana, la loro “realtà” è frutto di una rappresentazione.
[1] Ovviamente anche la relazione osservatore/oggetto di osservazione.
[2] Günther Anders, L’uomo è antiquato I, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p.273.
[3] “Ragione” è termine che traduce il latino “ratio”, che significava “calcolo”, computo”. Questo potrebbe farci pensare che il significato possa coincidere puntualmente con quello del sintagma “pensiero calcolante”.
In realtà le cose sono un poco più complesse. Se seguiamo il Benveniste scopriamo che il termine descriveva l’operazione di calcolo secondo il modo di contare degli antichi, che consisteva nel mettere uno sopra l’altro i “pezzi” da contare fino ad ottenere la summa (la “cifra che sta sopra”). L’espressione usata dai romani per le operazioni di calcolo era “rationem ducere”, che suggerisce l’atto di “radunare” gli oggetti per contarli, e quindi “connetterli” secondo “calcolo” o “proporzione”.
[4] Galileo indicò quali dovessero essere le caratteristiche, dei fenomeni, da prendere in considerazione. Egli descrisse questi ultimi come “accidenti reali”, che sono quelli che, secondo lo scienziato pisano, rappresentano gli attributi intrinseci o propri dei fenomeni e non quelli semplicemente percepiti in maniera soggettiva. Questi “accidenti reali” costituiscono le “qualità primarie” dei fenomeni, che sono quelle caratteristiche che possono essere misurabili mediante appositi strumenti, pertanto, riducibili a quantità numeriche o, per meglio dire, notazioni numeriche (reductio ad matemathicam).
Galileo suggerì che, nell’ “indagine scientifica” si dovessero eliminare, dall’indagine, le caratteristiche non quantificabili dei fenomeni e “trasformarli” completamente nella loro metafora numerica. Tuttavia, siccome essi sono comunque esperiti dai soggetti umani, mediante infinite caratteristiche, individuò un’altra classe di attributi che definì “qualità secondarie” che, diversamente dalle “qualità primarie”, non rappresentano gli attributi che “appartengono” propriamente ai fenomeni, ma sono frutto delle percezioni soggettive riguardo ad essi.
[5] Cfr. Fleck, L., The Genesis and Development of a Scientific Fact, University of Chicago Press, Chicago 1979.
[6] La percezione, nel caso dell’informazione personale, il dato estrapolato dagli strumenti, nel caso della conoscenza scientifica
[7] Intendendo, con questo termine, sia la “costruzione” degli “oggetti scientifici”, sia il processo di intersoggettivazione.
[8] Secondo la definizione di dato che abbiamo cercato di esporre fin qui.
[9] In analogia col termine “fattoide”, coniato da Norman Mailer in Marilyn: A Biography, Grosset & Dunlap, 1973,
[10] Nonostante esso venga sovente riportato nelle pubblicazioni scientifiche.
[11] W. James, Pragmatism’s Conception of Truth (Lecture 6), in W. James, W.Pragmatism: A New Name for Some Old Ways of ThinkingLongman Green and Co, New York 1922, pp. 197-236.
[12] Sarewitz, D., Op. Cit., p.140.
[13] E neppure importa se cotesti esperti, sullo stesso argomento, hanno asserito innumerevoli verità diverse tra loro, e nemmanco se queste verità cambiano di giorno in giorno.
[14] In senso popperiano.
[15] A volte, anche frode conclamata.