Il piano generale del lebensraum di Israele per Gaza, copiato dallo spopolamento dei ghetti ebraici da parte dei nazisti, è chiaro. Distruggere le infrastrutture, le strutture mediche e i servizi igienici, compreso l’accesso all’acqua potabile. Bloccare l’invio di cibo e carburante. Scatenare una violenza indiscriminata per uccidere e ferire centinaia di persone al giorno. Lasciare che la fame – le Nazioni Unite stimano che più di mezzo milione di persone stia già morendo di fame – e le epidemie di malattie infettive, insieme ai massacri quotidiani e allo sfollamento dei palestinesi dalle loro case, trasformino Gaza in un obitorio. I palestinesi saranno costretti a scegliere tra la morte sotto le bombe, le malattie, lo stare all’addiaccio, la fame e l’allontanamento dalla loro terra.
Presto si arriverà ad un punto in cui la morte sarà così onnipresente che la deportazione – per coloro che vogliono vivere – sarà l’unica opzione.
Danny Danon, ex ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite e stretto alleato del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, ha dichiarato alla radio israeliana Kan Bet di essere stato contattato da “Paesi dell’America Latina e dell’Africa che sarebbero disposti a farsi carico dei rifugiati dalla Striscia di Gaza“. “Dobbiamo rendere più facile per i gazesi partire per altri Paesi“, ha detto. “Sto parlando di migrazione volontaria da parte dei palestinesi che vogliono andarsene“.
Il problema per ora “sono i Paesi disposti a farsene carico, e stiamo lavorando su questo“, ha detto Netanyahu ai membri della Knesset del Likud.
Nel ghetto di Varsavia, i tedeschi distribuivano tre chilogrammi di pane e un chilogrammo di marmellata a chiunque si registrasse “volontariamente” per la deportazione. “A volte centinaia di persone dovevano aspettare in fila per diverse ore per essere ‘deportate'”, aveva scritto Marek Edelman, uno dei comandanti della rivolta del Ghetto di Varsavia, in “The Ghetto Fights“. “Il numero di persone ansiose di ottenere tre chilogrammi di pane era tale che i trasporti, che partivano due volte al giorno e che avevano una capienza di 12.000 persone, non potevano accoglierle tutte”.
I nazisti inviavano le loro vittime nei campi di sterminio. Gli israeliani costringeranno le loro vittime ad andare in squallidi campi profughi in Paesi al di fuori di Israele. I leader israeliani stanno anche cinicamente pubblicizzando la pulizia etnica da loro proposta come volontaria e come gesto umanitario per risolvere la catastrofe che loro stessi hanno creato.
Questo è il piano. Nessuno, soprattutto l’amministrazione Biden, intende fermarlo.
La lezione più inquietante dopo essermi occupato per vent’anni di conflitti armati è che tutti noi abbiamo la capacità, con pochi stimoli, di diventare volenterosi carnefici. Il confine tra vittima e carnefice è sottilissimo. Le oscure brame di supremazia razziale ed etnica, di vendetta e di odio, di sradicamento di coloro che condanniamo come incarnazione del male, sono veleni che non sono circoscritti da razza, nazionalità, etnia o religione. Tutti possiamo diventare nazisti. Basta davvero poco. E, se non vigiliamo perennemente sul male, il nostro male, diventiamo come i responsabili delle stragi a Gaza, dei mostri.
Le grida di coloro che muoiono sotto le macerie di Gaza sono le grida dei ragazzi e degli uomini giustiziati dai serbi di Bosnia a Srebrenica, degli oltre 1,5 milioni di cambogiani uccisi dagli Khmer Rossi, delle migliaia di famiglie tutsi bruciate vive nelle chiese e delle decine di migliaia di ebrei giustiziati dagli Einsatzgruppen a Babi Yar in Ucraina. L’Olocausto non è una reliquia storica. È vivo, in agguato nell’ombra, in attesa di appiccare il fuoco al suo feroce contagio.
Eravamo stati avvertiti. Raul Hilberg. Primo Levi. Bruno Bettelheim. Hannah Arendt. Aleksandr Solzhenitsyn. Avevano compreso gli oscuri recessi dello spirito umano. Ma questa verità è amara e difficile da affrontare. Preferiamo il mito. Preferiamo vedere nella nostra specie, nella nostra razza, nella nostra etnia, nella nostra nazione, nella nostra religione, virtù superiori. Preferiamo santificare il nostro odio. Alcuni di coloro che avevano testimoniato questa terribile verità, tra cui Levi, Bettelheim, Jean Améry, l’autore di “At the Mind’s Limits: Contemplations by a Survivor on Auschwitz and Its Realities,” e Tadeusz Borowski, che aveva scritto “This Way for the Gas, Ladies and Gentlemen“, si erano suicidati. Il drammaturgo e rivoluzionario tedesco Ernst Toller, incapace di convincere un mondo indifferente ad assistere le vittime e i rifugiati della guerra civile spagnola, si era impiccato nel 1939 in una stanza del Mayflower Hotel di New York. Sulla scrivania della sua stanza c’erano foto di bambini spagnoli morti.
“La maggior parte delle persone non ha immaginazione”, aveva scritto Toller. “Se potessero immaginare le sofferenze degli altri, non le farebbero soffrire così. Cosa separava una madre tedesca da una madre francese? Slogan, che ci hanno talmente assordato da non farci sentire la verità”.
Primo Levi si era scagliato contro la falsa narrazione moralmente edificante dell’Olocausto che era culminata nella creazione dello Stato di Israele – una narrazione abbracciata dal Museo dell’Olocausto di Washington D.C. La storia contemporanea del Terzo Reich, scriveva, potrebbe essere “riletta come una guerra contro la memoria, una orwelliana falsificazione della memoria, una falsificazione della realtà, una negazione della realtà”. Si era chiesto se “noi che siamo tornati” eravamo “riusciti a capire e a far capire agli altri la nostra esperienza”.
Levi ci ha visto riflessi in Chaim Rumkowski, il collaborazionista nazista e tirannico leader del ghetto di Łódź. Rumkowski aveva venduto i suoi compagni ebrei in cambio di privilegi e potere, anche se era stato poi inviato ad Auschwitz durante il trasporto finale, dove i Sonderkommando ebrei – prigionieri costretti ad aiutare a portare le vittime nelle camere a gas e a disfarsi dei loro corpi – in un atto di vendetta, secondo quanto riferito, lo avevano picchiato a morte fuori da un forno crematorio.
“Tutti noi ci specchiamo in Rumkowski”, ci ricorda Levi. “La sua ambiguità è la nostra, è la nostra seconda natura, noi ibridi plasmati da argilla e spirito. La sua febbre è la nostra, la febbre della civiltà occidentale, che ‘scende all’inferno con trombe e tamburi‘ [1], e i suoi miseri ornamenti sono l’immagine distorta dei nostri simboli di prestigio sociale”. Noi, come Rumkowski, “siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra essenziale fragilità. Volenti o nolenti scendiamo a patti con il potere, dimenticando che siamo tutti nel ghetto, che il ghetto è murato, che fuori dal ghetto regnano i signori della morte e che nelle vicinanze il treno ci aspetta”.
Levi insiste sul fatto che i campi “non possono essere ridotti ai due blocchi delle vittime e dei persecutori”. Sostiene: “È ingenuo, assurdo e storicamente falso credere che un sistema infernale come il nazionalsocialismo santifichi le sue vittime; al contrario, le degrada, le rende simili a se stesso”. Racconta quella che aveva definito la “zona grigia” tra corruzione e collaborazione. Il mondo, scrive, non è bianco o nero, “ma una vasta fascia di coscienze grigie che sta fra i grandi del male e le vittime pure”. Tutti noi abitiamo questa zona grigia. Tutti possiamo essere indotti a far parte dell’apparato di morte per motivi banali e per misere ricompense. Questa è la terrificante verità dell’Olocausto.
È difficile non essere cinici riguardo alla pletora di corsi universitari sull’Olocausto, data la censura nei confronti di gruppi come Students for Justice in Palestine e Jewish Voices for Peace, imposta dalle amministrazioni universitarie. A cosa serve studiare l’Olocausto se non a comprendere la sua lezione fondamentale: che quando si ha la capacità di fermare un genocidio e non lo si fa si è colpevoli? È difficile non essere cinici nei confronti degli “interventisti umanitari” – Barack Obama, Tony Blair, Hillary Clinton, Joe Biden, Samantha Power – che parlano in rime santificanti della “Responsabilità di proteggere” ma tacciono sui crimini di guerra, quando parlare minaccerebbe il loro status e la loro carriera. Nessuno degli “interventi umanitari” che avevano sostenuto, dalla Bosnia alla Libia, si avvicina alla sofferenza e al massacro di Gaza. Ma la difesa dei palestinesi ha un costo, un costo che non intendono pagare. Non c’è nulla di morale nel denunciare la schiavitù, l’Olocausto o i regimi dittatoriali che si oppongono agli Stati Uniti. Significa solo che voi difendete la narrazione dominante.
L’universo morale è stato stravolto. Chi si oppone al genocidio viene accusato di sostenerlo. Chi compie un genocidio viene giustificato perché avrebbe il diritto di “difendersi”. Porre il veto ai cessate il fuoco e fornire a Israele bombe da 2.000 libbre che lanciano frammenti di metallo per migliaia di metri è la strada per la pace. Rifiutarsi di negoziare con Hamas libererà gli ostaggi. Bombardare ospedali, scuole, moschee, chiese, ambulanze e campi profughi, insieme all’uccisione di tre ex ostaggi israeliani, spogliati fino alla vita, che sventolavano una bandiera bianca improvvisata e chiedevano aiuto in ebraico, sono normali atti di guerra. Uccidere oltre 21.300 persone, tra cui più di 7.700 bambini, ferirne oltre 55.000 e rendere quasi tutti i 2,3 milioni di abitanti di Gaza senza casa, è un modo per “deradicalizzare” i palestinesi. Niente di tutto questo ha senso, come si rendono conto i manifestanti di tutto il mondo.
Sta nascendo un nuovo mondo. È un mondo in cui le vecchie regole, più spesso onorate dalla violazione che dall’osservanza, non contano più. È un mondo in cui enormi strutture burocratiche e sistemi tecnologicamente avanzati portano avanti, sotto gli occhi di tutti, vasti progetti di sterminio. Le nazioni industrializzate, indebolite e timorose del caos globale, stanno inviando un messaggio minaccioso al Sud globale e a chiunque possa pensare di ribellarsi: vi uccideremo senza pietà.
Un giorno saremo tutti palestinesi.
“Temo che viviamo in un mondo in cui la guerra e il razzismo sono onnipresenti, in cui i poteri di mobilitazione e legittimazione del governo sono potenti e crescenti, in cui il senso di responsabilità personale è sempre più attenuato dalla specializzazione e dalla burocratizzazione, e in cui il gruppo di riferimento esercita enormi pressioni sul comportamento e stabilisce norme morali”, scrive Christopher R. Browning in Ordinary Men, che racconta di un battaglione della riserva della polizia tedesca nella Seconda Guerra Mondiale, responsabile dell’uccisione di 83.000 ebrei. “In un mondo del genere, temo che i governi moderni che desiderano commettere omicidi di massa raramente falliranno nei loro sforzi di indurre gli ‘uomini comuni’ a trasformarsi nei loro ‘volenterosi carnefici'”.
Il male è proteiforme. Muta. Trova nuove forme e nuove espressioni. La Germania aveva orchestrato l’assassinio di sei milioni di ebrei, oltre a più di sei milioni di zingari, polacchi, omosessuali, comunisti, testimoni di Geova, massoni, artisti, giornalisti, prigionieri di guerra sovietici, persone con disabilità fisiche e intellettuali e oppositori politici. Nel dopoguerra si era subito impegnata a espiare i propri crimini. Aveva abilmente trasferito il suo razzismo e la sua demonizzazione sui musulmani, e la supremazia razziale era rimasta saldamente radicata nella psiche tedesca. Allo stesso tempo, la Germania e gli Stati Uniti avevano riabilitato migliaia di ex nazisti, soprattutto dei servizi segreti e della comunità scientifica, e avevano fatto ben poco per perseguire i responsabili dei crimini di guerra nazisti. La Germania è oggi il secondo fornitore di armi di Israele dopo gli Stati Uniti.
La presunta campagna contro l’antisemitismo, in pratica qualsiasi dichiarazione critica nei confronti dello Stato di Israele o di denuncia del genocidio è, in realtà, la difesa del potere bianco. È per questo che lo Stato tedesco, che ha di fatto criminalizzato il sostegno ai palestinesi, e i suprematisti bianchi più retrogradi degli Stati Uniti giustificano la carneficina. La lunga relazione della Germania con Israele, che comprende il pagamento di oltre 90 miliardi di dollari dal 1945 in risarcimenti ai sopravvissuti dell’Olocausto e ai loro eredi, non riguarda l’espiazione, come scrive lo storico israeliano Ilan Pappé, ma il ricatto.
“L’argomentazione a favore di uno Stato ebraico come risarcimento per l’Olocausto era un’argomentazione potente, così potente che nessuno ha ascoltato il netto rifiuto della soluzione delle Nazioni Unite da parte della stragrande maggioranza del popolo palestinese”, scrive Pappé. “Ciò che emerge chiaramente è il desiderio europeo di espiare. I diritti fondamentali e naturali dei palestinesi dovevano essere messi in secondo piano, messi in secondo piano e dimenticati del tutto in nome del perdono che l’Europa cercava dal neonato Stato Ebraico”. Era molto più facile correggere il male fatto dai nazisti trattando con un movimento sionista che affrontare gli ebrei del mondo in generale. Era meno complesso e, cosa più importante, non implicava affrontare le stesse vittime dell’Olocausto, ma piuttosto uno Stato che pretendeva di rappresentarle. Il prezzo di questa assai più conveniente espiazione era stato quello di privare i palestinesi di ogni loro diritto fondamentale e naturale e di permettere al movimento sionista di fare pulizia etnica senza temere alcun rimprovero o condanna”.
L’Olocausto è stato strumentalizzato fin dalla fondazione di Israele. È stato imbastardito per servire lo Stato dell’apartheid. Se dimentichiamo le lezioni dell’Olocausto, dimentichiamo chi siamo e cosa siamo capaci di diventare. Cerchiamo il nostro valore morale nel passato, piuttosto che nel presente. Condanniamo gli altri, compresi i palestinesi, ad un ciclo infinito di massacri. Diventiamo il male che aborriamo. Consacriamo l’orrore.
[1] La frase è ripresa da Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin N.D.T.
Fonte: chrishedges.substack.com
Link: https://chrishedges.substack.com/p/israels-genocide-betrays-the-holocaust
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org
Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per 15 anni per il New York Times, periodo in cui è stato capo ufficio per il Medio Oriente e capo ufficio per i Balcani. In precedenza aveva lavorato all’estero per il Dallas Morning News, il Christian Science Monitor e la NPR. È il conduttore del programma “The Chris Hedges Report.”