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Il grande bluff

di Enrico Tomaselli - 05/02/2025

Il grande bluff

Fonte: Giubbe rosse

In molti cominciano a chiedersi: “ma perché Trump spara tante cavolate?”, e finiscono col rispondersi - sbagliando, ma comprensibilmente - che queste devono in qualche modo corrispondere ad un disegno strategico degli Stati Uniti.
Vorrei quindi qui provare ad analizzare criticamente il personaggio Trump, cercando di delineare le (possibili) ragioni del suo comportamento alquanto sopra le righe.
Necessariamente, devo partire da quanto ho già sostenuto precedentemente; l’elezione di Trump alla presidenza è stata una operazione portata a termine da una parte minoritaria del deep state americano, da decenni emarginata dal blocco costituito da neocon e democratici, che ha controllato sia le istituzioni federali che la politica estera degli USA. Per ribaltare la situazione, questo gruppo minoritario ha deciso di sfruttare gli errori commessi dalle varie presidenze dem, e la debolezza ormai strutturale di quel partito, utilizzando come cavallo di Troia un leader populista, capace di catalizzare la rabbia e la frustrazione di una parte significativa degli americani. Oltretutto, Trump offriva da questo punto di vista ulteriori vantaggi. Innanzi tutto, non è un politico ma un imprenditore, e non possiede quindi le malizie di un politico navigato, abituato a muoversi nell’establishment federale. Nel suo primo mandato ha già dimostrato di essere abbastanza pilotabile (tutti i presidenti lo sono, ma lui di più), nonostante il suo ego smisurato - anzi, proprio per quello. E, infine, non è rieleggibile. La sua funzione, quindi, è sostanzialmente quella di demolire le strutture di potere su cui si basa il controllo della parte maggioritaria del deep state. La mission, in un ottica di medio periodo, è rimettere gli Stati Uniti in condizione di affrontare (e vincere) le sfide che vengono poste alla sua leadership mondiale; compito che però è pensato per la (le) presidenza/e successiva/e.
In questa ottica destruens, una personalità esplosiva come Trump risponde abbastanza bene ai requisiti; e non per caso viene affiancata da un altro soggetto non meno dirompente come Musk.
A questo punto, è necessario sottolineare due cose. La prima, è che l’azione di Trump è rivolta principalmente all’interno, e deve rispondere ad un disegno di riforma radicale della struttura di potere degli Stati Uniti. In questo senso, anche quando tratta di questioni internazionali, in realtà si sta rivolgendo al pubblico interno, al quale deve trasmettere quest’idea di un’America che torna grande - un certo orgoglio patriottico, che serve alla mobilitazione politica in sostegno del disegno riformatore.
La seconda, è che Trump - come gran parte degli americani - ha un’idea assai vaga del contesto geopolitico mondiale, e definisce i suoi orientamenti sulla base dei briefing che riceve nello studio ovale. Anche questo ovviamente vale per quasi tutti i presidenti, che comprensibilmente non possono avere cognizione piena ed approfondita di tutti i dossier, ma nel suo caso ciò è amplificato dal fatto che non è la sua materia.
Quando - ad esempio - dà i numeri delle perdite russe ed ucraine nella guerra, è evidente che non ne ha cognizione fondata e diretta, ma si basa su dati che gli vengono forniti. Che poi magari rimaneggia ulteriormente a suo modo, con la furbizia e la spacconeria del tycoon - gli italiani che si ricordano di Berlusconi sanno di cosa si sta parlando.
E così, nel contesto delle riunioni su questioni strategiche, magari riceve l’input che gli USA hanno un gap di presenza nell’Oceano Artico, a cui occorre porre rimedio aumentando la presenza (ed il controllo) militare su aree come il Canada e la Groenlandia, e le trasforma a suo modo lanciando ipotesi provocatorie. Il cui scopo, in ultima analisi, è quello di spiazzare gli interlocutori, aprendo la strada - in modo alquanto grossie - a più seri e sostanziali negoziati.
Questa continua raffica di dichiarazioni esagerate, spesso del tutto prive di senso della realtà, ha oltretutto lo scopo di invadere e saturare l’infosfera, monopolizzando il dibattito politico internazionale, ponendosene al centro. Il che è anche un modo per coprire l’assoluta vacuità di proposte concrete e concretizzabili. Nella sua pretesa di esercitare in modo egemonico il potere, infatti, intende proporsi come l’alfiere di una pax americana, da imporre col mero agitare delle spade (vagheggiando una "pace attraverso la forza", che sa di reminiscenze imperiali romane mal digerite - “si vis pacem, para bellum”).
D’altro canto, è evidente che le crisi più complesse, che si manifestano in giro per il mondo, non sono risolvibili in maniera semplicistica; e soprattutto non possono essere risolte senza che gli Stati Uniti rinuncino alle proprie pretese egemoniche. Queste crisi, infatti, sono il portato diretto della supremazia occidentale, e della pretesa di mantenerlo ad ogni costo. Da questo punto di vista, quindi, non è tanto una questione della capacità personale di Trump nel trovare soluzioni alle crisi, quanto di un impedimento strutturale, che attiene alla posizione USA in sé, e che lascia pertanto al presidente pro-tempore margini di manovra assai ristretti, potendo operare a malapena in un ambito tattico, che non offre (non può offrire) risposte risolutive, ma soltanto cercare accomodamenti temporanei. A questa difficoltà strutturale, Trump aggiunge semmai di suo questa postura spaccona, che rischia di inficiare il suo indubbio pragmatismo.
In ogni caso, spostare il discorso su una dimensione iperbolica, consente appunto di allontanare il focus dalla sostanza delle questioni, incatenandolo alla forma delle sue esternazioni.
Il problema, naturalmente, è la sostenibilità di questo approccio. Che è sicuramente efficace nel dominare il dibattito pubblico, ma molto meno nel favorire il confronto concreto. E soprattutto che, al di là della risonanza mediatica, funziona abbastanza bene con quanti - per le più diverse ragioni - hanno un ruolo subalterno rispetto ai voleri di Washington, ma molto poco, per non dire per nulla, con quanti invece non si sentono affatto soggetti alla pretesa egemonia americana.
Prima o poi, alle chiacchiere ed alle sparate roboanti dovranno seguire i fatti. E quanto più questi si discosteranno dalle prime, tanto più la credibilità dell’America ne risulterà - ancora - sminuita.