Il kali-yuga dell’arte
di Roberto Pecchioli - 04/06/2023
Fonte: EreticaMente
Secondo la dottrina dei testi sacri Indù, la nostra è un’epoca (yuga) oscura (kali) caratterizzata da innumerevoli conflitti e da un profondo decadimento spirituale. Il concetto del tempo ciclico, tipico della Tradizione, è difficile da capire per una civiltà “lineare”, convinta che il progresso materiale – il regno della quantità di René Guénon – sia l’unico destino dell’uomo. Nella Ginestra o il fiore del deserto, lirica estrema di Giacomo Leopardi, c’è la beffarda inserzione di un mediocre verso di Terenzio Mamiani, consegnato all’immortalità dallo scherno del poeta dell’Infinito, diventato luogo comune: “dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive”.
Il tempo che ci è toccato in sorte è un doloroso, decadente, interminabile (almeno con il criterio temporale dell’esistenza umana) kali-yuga, un evo oscuro che la quantità di mezzi – diventati fini – e la capacità dell’uomo di penetrare molti segreti fisici della natura non riscatta; rende anzi più tormentosa la constatazione del degrado crescente, il cui moto tende all’accelerazione. Un passo dei Visnu Purana, uno dei testi in cui sono narrate l’origine, la manifestazione e la distruzione del cosmo, le divisioni temporali e le quattro ere (varna) del ciclo cosmico, così descrive il kali-yuga.
“Saranno Re di spirito frivolo, con violento temperamento, e sempre dipendenti dalla menzogna e dalla malvagità. Essi infliggeranno la morte a donne, bambini e mucche; si impadroniranno della proprietà dei loro sudditi. […] Le loro vite saranno brevi, i loro desideri insaziabili, e mostreranno poca pietà. […] Allora la proprietà sola conferirà rango; la ricchezza sarà l’unica fonte di devozione; la passione sarà l’unico vincolo di unione fra i sessi; la menzogna sarà l’unico mezzo di successo nelle dispute; e le donne saranno oggetti semplicemente di gratificazione sensuale. La Terra sarà venerata ma solo per i suoi tesori minerali; […] la debolezza sarà la causa della dipendenza; la minaccia e la presunzione sostituiranno l’apprendimento; […] l’accordo reciproco sarà il matrimonio”.
Uno degli ambiti in cui l’oscurità dei tempi si manifesta in maniera plateale è la decadenza delle arti, specchio della volontà di eccellenza, del desiderio di creare e onorare la bellezza, di lasciare traccia della nostra presenza, oltrepassando il tempo, la materia, la caducità. Le arti sono rappresentano la tensione dell’uomo all’ eternità, alla trascendenza, alla perfezione. La bellezza e la proiezione nel tempo sono stati sempre gli obiettivi dell’arte, espressi da ciascun popolo e civiltà. E’ celeberrima l’esclamazione romantica del principe Myskin, l’”idiota” di Dostoevskij, per cui la bellezza salverà il mondo. Non sappiamo se sia vero, né è facile definire il concetto stesso di bellezza, ma è certo che la bruttezza distrugge il mondo, penetrando nella vita quotidiana per sfigurarla, proponendo modelli negativi o addirittura nessun modello. Pensiamo alla sporcizia delle nostre città, ai graffiti e alle innumerevoli scritte, macchie, graffiti che le deturpano, agli edifici senz’anima, ai “nonluoghi” che punteggiano il paesaggio urbano e i simboli concreti della modernità, stazioni, aeroporti, centri commerciali, svincoli, capannoni.
Le arti figurative degradano nell’esclusione o nella deformazione della figura umana, della natura e dei sentimenti; la musica si trasforma in frastuono elettronico, a imitazione del rumore metropolitano da cui siamo circondati. La poesia diventa un esercizio pressoché impossibile, la narrativa si avviluppa nella sciatteria linguistica, in un lessico stereotipato, ridotto al minimo, o, al contrario, in ricerca dell’oscurità indifferente al lettore. L’architettura rinuncia a progettare un modello di convivenza civile, comunitaria, riducendo tutto a pura funzione: orrendi cubi o parallelepipedi, edifici scabri, indistinguibili; su tutto l’evidenza che nulla è fatto per durare, attraversare e sfidare il tempo. E’ forse questa la caratteristica più sconcertante del kali-yuga. Per la prima volta nella sua storia di essere senziente, “civilizzato”, l’uomo non aspira più ad andare oltre, a improntare di sé il suo spazio vitale, tanto meno cercare un senso alla sua avventura esistenziale.
E’ un tempo che grida ma non parla, tanto meno dialoga e fa introspezione: si limita a correre. Paul Virilio la chiamava dromocrazia, il dominio della velocità, senza meta o traguardo. Paul Rimbaud, poeta, usò una splendida espressione “l’uomo dalle suole di vento”. Il degrado dell’arte, l’oblio della bellezza, non sono solo esilio dello spirito; istillano il male di vivere, l’indifferenza per il ben-essere, ridotto a ben-avere, restringono il cuore e chiudono gli occhi, poiché l’uomo è, tra le altre cose, un essere “estetico”.
L’arte per Benedetto Croce è intuizione lirica compiutamente espressa. Non una mera costruzione intellettuale, bensì lirica, ovvero fatta di calore, intensità, sentimenti, capace di trasfigurare, eternizzare, elevare a simboli, momenti, sensazioni, moti dell’animo. In più, deve essere compiutamente espressa, ossia rispondere alle regole più elevate dell’ambito in cui agisce, musica, parola, figurazione. Quasi nulla di tutto questo sopravvive. Il fenomeno è antico, risale all’ultimo tratto del XIX secolo, l’epoca dell’ottimismo “positivo”, del primo entusiasmo scientista. Tuttavia, se dovessimo indicare una data di avvio del kali-yuga nell’arte, sceglieremmo il 1917, annus horribilis della rivoluzione bolscevica, dell’avvio del secolo americano con l’intervento nella Prima Guerra Mondiale, l’inizio della fine degli Imperi.
In campo artistico, fu l’anno in cui Marcel Duchamp presentò la sua “installazione” – parola che diventerà chiave nel cambio di paradigma del concetto di arte – a New York, dopo aver messo i baffi alla Gioconda di Leonardo. La “cosa” di Duchamp era un orinatoio, elevato a opera d’arte. Volgarità e bruttezza, le opache bandiere della modernità, diventavano cifra intellettuale del tempo. Esausta, l’arte cessava di raffigurare l’uomo, i suoi sentimenti, la natura, per definire “arte” qualsiasi cosa. La sentenza di Duchamp era più terribile di quella pronunciata nove anni prima da Adolf Loos sull’architettura (l’ornamento non soltanto è opera di delinquenti, è esso stesso un delitto) . “ A partire da adesso, chiunque può essere artista; e qualsiasi cosa, un’opera d’arte”. Uguaglianza retorica verso il basso, riduzione del superiore all’inferiore, lo sguardo non più puntato verso l’alto, l’eccellenza schernita, la bizzarria e talvolta la degenerazione elevate all’altare.
Tutti i soggetti diventavano equivalenti, le differenze accidentali. Nel 1915 Kazimir Malevic, russo, colui che decretò “la pittura è finita, quel pregiudizio del passato”, dipingeva, o meglio realizzava, il Quadrato nero su sfondo bianco, seguito dal Quadrato bianco su sfondo bianco. È suonata l’ora finale dell’arte; restano proscritte le belle arti, concluse Duchamp. L’ espulsione della bellezza, ossia la bruttezza, diventava il filo conduttore dell’arte successiva, il suo kali-yuga. L’ingenuo ottimista Myskin non vide l’altra faccia della luna: non è la bellezza a salvare il mondo, è la bruttezza a distruggerlo. Camminiamo per strade sporche, muri di edifici, monumenti sfregiati da ogni tipo di graffito, perfino le fiancate dei treni sono aggredite da ghirigori e scarabocchi senza senso, ascoltiamo musica banale, ripetitiva, convulsa. Vediamo rappresentazioni dette artistiche senza capo né coda, spesso prodotte – anche l’arte è produzione seriale, aveva ragione Walter Benjamin – solo per stupire e ritagliarsi un mercato. Prendi i soldi e scappa, è il motto di galleristi corrivi e critici a fattura.
Gran parte di ciò che è chiamato creazione artistica è in forma di “installazione”, senza che risulti chiaro il significato del termine. L’opera letteraria è pensata per diventare best seller, ossia soddisfare le attese di un pubblico sempre meno numeroso e più frettoloso. I contenuti scritti sono sconfitti dall’immagini e per salvarsi sono costretti alla sintesi brutale, a non diventare mai approfondimento. Il termine stesso repelle alla contemporaneità, che odia la profondità e ama l’estensione. Ancora il regno della quantità. Molti dicono apertamente di volere la non-arte pur continuando a spacciarsi per artisti: “un’opera è fatta per essere brutta, repellente, senza alcun significato per lo spirito e i sensi. Le opere non sono fatte per essere belle, ma affinché, osservandole, non si comprenda che ciò che rappresentano e si abbia voglia di strapparla o di passare tra di esse correndo” (C. Oldenburg).
L’obiettivo di diffondere la bruttezza, ossia abbrutire la vita, l’umanità e la comunità, è pienamente raggiunto: la chiave per giudicare un’intera epoca. È abolita, altro triste successo egalitario, la distinzione tra plebe ricca e plebe povera – la fulminante definizione di Gòmez Dàvila – ambedue incapaci di riconoscere il bello e provare il “brivido davanti al sacro” di cui parlava Goethe. L’epoca più ricca è anche la più sterile, di sentimenti, di cuore, un indizio in più che benessere e civiltà seguono sentieri divergenti. Viene da applaudire Piero Manzoni, che inscatolò le proprie feci e le vendette come Merda d’artista. Capì che l’arte – nel senso di abilità – era èpater le bourgeois, stupire i ricchi istupiditi, facendosi pagare a peso d’oro la produzione non dell’intelletto, ma dell’intestino.
Rimbaud, alla ricerca insonne della bellezza come universalità e trascendenza, colse dolorosamente il tormento creativo: “una notte ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. E l’ho trovata amara. E l’ho insultata”. Per amore però, non per odio come nella contemporaneità, in cui arte e bellezza somigliano al rapporto della volpe di Esopo con l’uva: il disprezzo per ciò che non si riesce a raggiungere. La dura verità è che la bellezza sorge solo se nell’anima si annida “un’inquietudine, un impulso, qualcosa che, dandogli le ali, la faccia volare, la slanci più in là” (J.Rùiz Portella).
Sì, arte e bellezza sono il frammento, la cattura di un “oltre”, di una volontà di alzare l’asticella e spiccare il volo. Come è possibile l’arte nel tempo della materia, del mercante e della compravendita di tutto? Senza un’estetica, senza sottrarre qualcosa alla tirannia del prezzo, nessun volo d’aquila o canto d’usignolo sono possibili: solo il passo pesante e le ali atrofizzate delle galline, il gracchiare dei corvi in attesa di rovinare il raccolto, mirabile, faticosa opera del contadino.
Presto sperimenteremo l’impatto sull’arte dell’Intelligenza Artificiale. Per adesso, l’ I.A. può solo imitare, riprodurre i modelli sui quali ha allenato se stessa. Tuttavia, la macchina lavora usando dati che è capace di rielaborare, ossia può generare contenuti autonomi. Altra cosa è imitare il processo creativo, momento essenziale dell’arte. Quale relazione avrà l’I.A. con la bellezza? Secondo gli intellettuali che collaborano con gli scienziati informatici, potrà diventare uno strumento per ricercare e mettere insieme idee, ovvero per aiutare quel processo indicibile che chiamiamo ispirazione e Croce intuizione.
Avremo una creatività differente dal passato. Ma avremo ancora l’arte, l’I.A. ambirà alla bellezza, ne comprenderà l’ineffabilità e la necessità per la creatura umana a cui è indifferente? Gusto, estetica, sensibilità: parole destituite di valore, deprivate del senso. L’economia sovrana ha le sue colpe, ma più grande è la responsabilità di una visione del mondo da cui sono state espulse le domande di senso. L’uomo non crede più a un destino, a un porto cui tendere. La morte di Dio, Nietzsche lo capì prima e con ben altra acutezza di Max Weber, ha portato al disincanto del mondo. Spenta quella luce, non poteva che andare in crisi anche il Dio surrettizio della Ragione umana.
Se nulla più guida i nostri passi, neanche la bellezza e l’arte hanno senso. Perciò giacciono abbandonate dopo essere state vilipese, decostruite, bollate come inutili, detronizzate e gettate nel magazzino dei rifiuti da conferire alla discarica. Sapeva già tutto Theophile Gautier: nulla di ciò che è bello è indispensabile alla vita. Di veramente bello c’è soltanto ciò che non può servire a nulla: tutto ciò che è utile è brutto. È così, nel kali-yuga.