Il lavoro è l’unica risposta alla disperazione della realtà
di Pietrangelo Buttafuoco - 06/06/2019
Fonte: Il Fatto quotidiano
Chi diventa anziano se lo ricorda quell’orizzonte di strade nei paesi con negozi faticosamente appesi al 27 di ogni mese – il giorno dello stipendio con cui i clienti del ceto impiegatizio avrebbero saldato i conti – e di quella volta che una ragazza, invitando gli amici per il proprio compleanno, confidò di aver corso il rischio di essere battezzata col nome di Ventisette, giusto giubilo del proprio papà deciso a omaggiare la data dell’allegrezza.
Ogni tanto fa capolino la realtà. È quella di un coetaneo – ultracinquantenne – che chiede lavoro, reclama aiuto, cerca perfino l’umana comprensione perché lo spavento immediato è quello di ritrovarsi senza soldi, di non avere più forze e di non sapere cosa dare a se stesso.
Lavorava, meglio: aveva un impiego. Adesso non più. Sono venuti meno i soldi pubblici, l’azienda chiude e questo coetaneo – ultracinquantenne – è senza più stipendio. E come lui, in tanti. In tante altre aziende inventate apposta per dare pane a tutti.
Con la morte del pubblico impiego l’emergenza sociale, al Sud, è conclamata.
La povertà forse, come dice Luigi Di Maio, è cancellata ma la disperazione – oggi – è sempre più forte.
La cancellazione del ceto medio ha determinato un mutamento sociale e antropologico. Quella di questo coetaneo non è neppure la vita agra dell’esodato; è bensì quella del “cancellato”.
Un tempo qualcuno, comunque, faceva qualcosa: lo stradino, il netturbino, l’impiegato in qualsiasi ente di parastato, di partecipata o di municipalizzata. E a ciascuno – specchiandosi in ognuno, nel presepe chiamato Meridione – era allora riconosciuta la dignità di un “posto”.
Il reddito di cittadinanza di una volta era il “pane del governo”, quasi come una lotteria generosa con tutti, forse troppo, in ogni modo necessaria – e se ne faceva carico la politica, il famoso ammortizzatore sociale – per risarcire quei territori svuotati di anime dalla Grande Emigrazione.
Chi ha superato i cinquanta ed è di paese (e poteva restarci), i primi viaggi turistici se li faceva andando a far visita ai coetanei andati via: a Milano, a Torino, a Stoccarda.
Quella dei cinquanta – e figurarsi di più – è anche l’età in cui tantissimi si ritrovano soli.
Privati della famiglia d’origine, atomi a-sociali, molti si ritrovano gettati nel troppo tardi per costruirsi una vita, nel troppo presto per confinarsi nell’apnea della pensione.
Troppo vecchi per seguire il destino dei più giovani – cui è negato il futuro nei luoghi dove si è nati – troppo indietro rispetto alle competenze, troppo in periferia se tutte quelle donne e tutti quegli uomini non hanno un santo vicino cui votarsi.
Non c’è, dunque, qualcuno che possa assegnare il “pane del governo”. La “politica” non ha più radicamento nel territorio e quando fa capolino la realtà – quando se ne sente la voce, dalle lontananze dei luoghi – c’è sempre quest’assenza a gravare su tutto.
Chi chiede aiuto non ha un indirizzo – c’erano una volta le segreterie politiche – dove destinare la propria speranza, fosse pure quella clientelare. E la disperazione è più forte della povertà perché la politica è ormai un feticcio usurato.
Il mio coetaneo – un amico di sempre – mi parla e mi ricorda i giorni e gli anni in cui si disegnavano il mondo e il futuro con l’attivismo, l’impegno e la socialità. Echi d’illusioni. Chiamati a far capolino sulla realtà.