Il lavoro in Italia: molto, per pochi e poco pagato. La "glebalizzazione"
di Fabrizio Vincenti - 06/02/2019
Fonte: Il Primato Nazionale
Lavorare in pochi, lavorare troppo. L’esatto contrario del sessantontino “Lavorare tutti, lavorare meno”, il cui precursore fu Ezra Pound, da sempre schierato per la giornata di lavoro corta. Si lavora di più e in meno persone. Lo conferma il 2° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale. Nel nostro Paese si creano meno posti di lavoro che altrove e per i giovani c’è un futuro da camerieri o commessi. L’alternativa è non lavorare o andarsene. Di più. Crescono le disuguaglianze retributive tra operai, impiegati e dirigenti. E aumenta lo stress da lavoro.
Secondo quanto emerge dal Rapporto, l’Italia crea meno posti di lavoro degli altri Paesi europei. Negli ultimi dieci anni (2007-2017) il numero di occupati in Italia è diminuito dello 0,3 per cento, nel solito periodo è invece aumentato in Germania(+8,2 per cento), Regno Unito (+7,6), Francia (+4,1). Ne usciamo male anche dal confronto con la media dell’Unione europea: +2,5 per cento. Nel Sud il tasso di occupazione è pari al 34,3 per cento (2,9 punti percentuali in meno di differenza rispetto al 2007), al Centro è al 47,4 (-0,4), nel Nord-Ovest al 49,7 (-1,1), nel Nord-Est al 51,1(-1,3). Creiamo meno lavoro degli altri Paesi e ne distruggiamo di più dove già si fatica a trovarlo, ovvero nel Mezzogiorno.
L’Italia, peraltro, è sempre meno un paese per giovani: nel 1997, i giovani di 15-34 anni rappresentavano il 39,6 per cento degli occupati, nel 2017 sono scesi al 22,1. Ma accanto a questo fenomeno, come molti riscontreranno a fine mese, gli stipendi sono sempre meno remunerativi: il ceto impiegatizio e gli operai sempre più lontani dai dirigenti. Rispetto al 1998, nel 2016 il reddito individuale da lavoro dipendente degli operai è diminuito del 2,7 per cento e quello degli impiegati si è ridotto del 2,6, mentre quello dei dirigenti è aumentato del 9,4. Un altro dato per comprendere quale musica venga suonata? Nel 1998 il reddito da lavoro dipendente di un operaio era pari al 45,9 per cento di quello di un dirigente, nel 2016 è diminuito al 40,9 per cento. Stessa sorte per gli impiegati, passati dal 59,9 per cento al 53,4.
La glebalizzazione è servita
Il tentativo di spazzare via il ceto medio, abbondantemente incoraggiato dai governi degli ultimi quindici anni, quasi tutti a guida Pd, va avanti a grandi passi. Ma il massimo è costituito da una apparente contraddizione: chi lavora, chi ha la fortuna di farlo, lavora sempre di più pur guadagnando meno. Il 50,6 per cento dei lavoratori interpellati, afferma che negli ultimi anni si lavora di più, con orari più lunghi e con maggiore intensità. Sono 2,1 milioni i lavoratori dipendenti che svolgono turni di notte, 4 milioni che lavorano di domenica e nei giorni festivi, 4,1 milioni che lavorano da casa oltre l’orario di lavoro con e-mail e altri strumenti digitali, 4,8 milioni che lavorano oltre l’orario senza il pagamento degli straordinari.
Il tutto con un prezzo da pagare, anche in termini psicofisici: 5,3 milioni di lavoratori dipendenti provano i sintomi dello stress (spossatezza, mal di testa, insonnia, ansia, attacchi di panico, depressione), 2,4 milioni vivono contrasti in famiglia perché lavorano troppo, 4,5 milioni non hanno tempo da dedicare a se stessi (per gli hobby, lo svago, il riposo). Dati impensabili solo venti anni fa. L’ammonimento di Pound – “il tempo non è denaro, ma quasi tutto il resto” – sbatte nel capitalismo selvaggio e sempre più disumano del XXI secolo. I cui effetti, le cui storture passano quasi sottotraccia, quasi come un normale prezzo da pagare per lavorare, anche grazie a un sindacato ormai totalmente incapace di rappresentare le istanze del mondo del lavoro. E la glebalizzazione, per dirla con una riuscita espressione di Diego Fusaro, è servita.