Il mio sistema immunitario se la sta prendendo comoda: la Russia e il covid
di Alessio Trovato - 13/01/2021
Fonte: Alessio Trovato
Il mio sistema immunitario se la sta prendendo comoda.
Mi sarei aspettato una battaglia all’ultimo sangue con febbre e sudate fino alla resa incondizionata, e invece i miei linfociti pare ci abbiano fatto amicizia con questi stronzetti del SARS-CoV-2.
Tipo “Voi non toccate i polmoni, noi vi lasciamo le vie respiratorie superiori”. E giù con i tarallucci e il vino. E così siamo alla terza settimana. Solo che ridendo e scherzando alla fine il virus ha trovato il modo di rendersi fastidioso forte anche senza entrare in zona polmoni. Ho sempre sofferto di una sorta di sinusite, seni paranasali spesso infiammati e intasati. Soprattutto in Inverno e soprattutto qui in Russia. Ecco quindi che il 6 gennaio mi ritrovo con tutto il naso intasato. Ma intasato non come al solito. È tipo un blob della consistenza di una colla da piastrellista che mi invade il naso. Si respira solo con la bocca, dal naso non passa nulla. Il giorno dopo andiamo anche peggio e non si dorme. Il sospetto che quella sostanza cementizia aliena possa scendermi in gola e bloccare anche il resto inizia a provocarmi una certa ansia claustrofobica per cui mi decido a richiamare un’altra volta il 122.
Stranamente mi rispondono subito e, ancora più stranamente, dopo appena un’ora mi mandano un’altra dottoressina. Deduco che nel momento in cui sei segnalato come paziente ‘Covid’ si entri in una sorta di corsia preferenziale. In altro modo non mi spiego come sia possibile tanta solerzia in una città con 15 milioni di abitanti. Tra l’altro è il giorno del Natale ortodosso e la mia assicurazione medica non è null'altro che quella obbligatoria e gratuita cui si ha diritto con il permesso di soggiorno.
Insomma arriva la terza dottoressina, in tuta da ghostbuster ma con il bavero abbassato e difesa di fatto da una semplice mascherina medica che mi fa capire che se l’è già preso anche lei. Occhi a mandorla, origini deduco Asia interiore ex sovietica, mi conferma quasi ridendo “Sì, sì, l’ho già preso”, come a dire, “ma da un pezzo”. E comunque, nonostante la giovane età, mi visita, tranquillizza e consiglia delle medicine che già la sera inizieranno a farmi effetto. Mentre prescrive le arriva una telefonata. È una specie di dispatcher che la avverte “Il prossimo è un uomo di 36 anni, ha precedenti penali e una storia di droga, tutte le complicazioni che puoi immaginare, se vedi che qualcosa non ti convince tu non entri. Chiami la polizia medica e basta. Tutto chiaro?”.
So che chiederlo è inutile perché hanno precise istruzioni in merito, ma i figli degli immigrati dell’Asia centrale spesso provengono da famiglie piuttosto povere per cui provo direttamente a metterle in mano una banconota da mille rubli scusandomi ma chiedendo se gentilmente la può accettare visto il mio apprezzamento. Ringrazia ma la banconota non la guarda nemmeno. Sarebbero potuti essere anche cinquemila. La mia stima per questi ragazzi e ragazze è totale.
Tuttavia devo osservare che questo metodo qui in Italia non sarebbe imitabile. Il nostro è un sistema, in tutti i settori, basato su eserciti di tenenti, maggiori, colonnelli e generali, ma pochissimi soldati. In tempo di pace tutto bene, ma in caso di guerra, e in campo medico una pandemia è appunto una guerra, si vedono i limiti. È chiaro che non sei contagioso quando stai bene e vuoi farti un giro in bicicletta o mangiarti una pizza, sei contagioso quando stai male perché il virus si sta moltiplicando dentro il tuo corpo. Se in quelle condizioni ti ritrovi costretto ad andartene in giro alla ricerca di un dottore, un ospedale, un laboratorio o una farmacia, con o senza mascherina stai tranquillo che impesterai tutto e farai danni. Quindi è nel secondo caso che dovresti startene rinchiuso, come di fatto hanno rinchiuso me. Giustamente. Per tenerti rinchiuso quando sei pericoloso tuttavia serve un sistema di soldati. A migliaia. Perché non è che io non esco per paura delle multe, non esco soprattutto perché non ce n’è bisogno. Finora hanno fatto tutto loro. Il motivo per cui, rispetto alla prima ondata, qui in Russia adesso ci sono meno restrizioni, fondamentalmente deve essere questo. Si sono organizzati. Inutile mettere tante restrizioni che di poco abbassano la curva, meglio agire sui fattori veri che la alzano. Quindi lavorare sugli infetti, e non rompere più di tanto i coglioni ai sani. In Italia questa cosa però purtroppo non la si può fare, perché noi siamo il Paese in cui c’è il numero chiuso alle università e migliaia di aspiranti ai concorsi con mezzo posto da infermiere. Da noi i medici possono fare ottime carriere, certo, ma sono pochi quelli che queste carriere riescono ad iniziarle. Poi, in caso di pandemia, ti ritrovi con dottori di famiglia di sessant’anni costretti a correre da un paziente all’alto finché non si prendono anche loro il virus. Il problema è che pigliarselo a sessant’anni non è come pigliarselo a venti, mentre fai il tirocinante, hai un sistema immunitario che te lo schianta in una settimana, e poi te lo metti anche nel curriculum.
Le nostre difficoltà ad agire sulla causa, cioè su quelli come me che il virus lo producono finché ancora ammalati, ci costringe ad agire sull’effetto, cioè arginare quelli che non l’hanno ancora preso. Quindi restrizioni, crisi, economia a rotoli. Solo che se fai una botta di conti alla fine vedi che, per lo meno in questo caso, forse sarebbe costato di meno un sistema sanitario diffuso con migliaia di bravi ‘soldati’ in più.