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Il mistero del linguaggio secondo Ernst Jünger

di Alessio Mulas - 01/09/2017

Il mistero del linguaggio secondo Ernst Jünger

Fonte: L'intellettuale dissidente

Nel suo opus magnum, laddove Margherita e Faust dialogano sulla fede religiosa, Goethe fa pronunciare all’incauto protagonista queste parole: Name ist Schall und Rauch. “La parola è rumore e fumo”, e ciò significa che essa annebbia, copre, vela, è mero suono offuscante. Così è, primo tra tutti, il nome dell’infinito, il nome di Dio; per quanto lo si possa nominare, Egli mai potrà essere strappato al mistero, poiché è l’eterno che la temporalità non può cogliere, l’infinito non traslabile nel finito. L’affermazione goethiana ebbe, nel secolo successivo, due risposte identiche da due pensatori vieppiù distanti. Franz Rosenzweig, nel capolavoro del pensiero ebraico del Novecento, La stella della redenzione, scrive che il nome è parola e fuoco, a discapito delle pretese dell’ostinata vuotezza dell’incredulità. Allo stesso modo, per Ernst Jünger i nomi non sono affatto suono e fumo. Il letterato di Heidelberg, che della prosa cristallina fu perfetto demiurgo, non evitò il confronto con il linguaggio, consapevole che ciò che viene ritenuto dal senso comune un mero mezzo non è mai soltanto qualcosa di strumentale – ciò vale anche, ed è la sua grande lezione, per la tecnica moderna. E lo fece in Tipo, nome, forma (reso disponibile in traduzione dalla casa editrice Herrenhaus), uno scritto indubbiamente sottovalutato, talvolta ignorato dagli stessi estimatori della produzione letteraria jüngeriana. C’è, in questo testo, l’idea che il linguaggio nasconde un mistero che la razionalità non può cogliere, tantomeno se essa si presenta sotto la forma moderna del culto della ragione, le cui orge, come le avrebbe chiamate Thomas Mann, hanno molto a che fare con le grandi tragedie – a nessuno sono ignoti gli stretti legami che intercorrono tra la fraternité e il patibolo, avrebbe detto lo Jünger de L’operaio.

linguaggio Ernst Jünger

Innanzitutto, per comprendere grandezza e limiti del linguaggio, esso va illustrato nei suoi compiti. L’uomo non usa il linguaggio per mutare la realtà, ma per de-nominarla, e la denominazione è il primo atto linguistico. Non abbiamo in potere, cambiando nome e tassonomia, di mutare la colorazione zaffirina della Cicindela campestris saphyrina. Il linguaggio non plasma il mondo, ma l’immagine del mondo, sicché si manifesta l’inadeguatezza dei nomi, ma non ciò che con essi si intende. Attraverso la facoltà del linguaggio è concesso piuttosto un potere verso quel “mondo” che ci si dà, es gibt; un dominio che non è fattuale, che non ha a che fare con l’essere stesso delle cose, ma con l’essere per noi delle cose. Come già aveva fatto Walter Benjamin, Jünger si richiama al mito della creazione contenuto in Genesi. Soltanto Dio ha potere sulla realtà delle cose, poiché le crea, e – notate bene – le crea attraverso la parola. Dio disse (Gen, 1), ovvero Dio creò. Disse luce, e la luce fu, ed è compreso qui un aspetto del catenaccio magico-religioso per cui i pochi (secondo la tradizione magica) o l’Unico (secondo quella religiosa) che conoscono il vero nome delle cose hanno potere sulle cose stesse. Laddove il Creatore crea, l’uomo denomina. Ciò vale anche per Benjamin, per il quale l’essenza linguistica dell’uomo è, quindi, di nominare le cose (Sul linguaggio in generale e sul linguaggio dell’uomo). In Genesi l’uomo è chiamato ad assegnare un nome alle cose, che non significa: a porle in essere, a crearle; bensì a farle essere per se stesso.

 In qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome (Gen, 2, 19).

Jünger individua qui un doppio binario per cui il parlante, creando il nome, compie un’opera di di de-limitazione e de-nominazione della realtà, la quale è appunto in origine das Ungesonderte (l’indistinto) e das Namenlose (il senza nome). Come insegna la fenomenologia, ciò che è mondo per noi è ciò di cui noi comprendiamo appieno le relazioni e i significati, che sono posti dall’uomo stesso, e non esiste personasenza auto-mondanizzazione dell’io, ossia senza quella soggettività che afferra se stessa come agente di comportamenti concreti, membro di relazioni sociali, parte attiva del proprio mondo (Husserl). Nominare è porre un tipo (Typus), un modello che allo stesso tempo dona significato, assegna coordinate alla realtà, sottrae spazi all’indistinto aprendo alla comprensione.

linguaggio Ernst Jünger

The Ancient of Days – William Blake (1794)

La stratificazione di denominazioni, che va sempre più verso il particolare, è esemplificata da Jünger in un esperimento ludico di domanda e risposta:

Se chiediamo a uno scolaro: “Che cos’è un giglio?” egli risponderà “è un fiore” oppure “è una pianta”. Se, ancora, gli chiedessimo che cosa sia una pianta, egli risponderà “un essere”, “un essere vivente” o anche “una creatura”. Se volessimo sapere da lui il significato di questo, il bambino ammutolirebbe, o si metterebbe a ridere.

Ciò che non è più possibile nominare, è ciò che semplicemente si dà. Eppure, l’atto del comunicare attraverso il linguaggio ci appare come meramente strumentale. Considerato linguisticamente, cioè secondo le scienze positive, è certamente così; considerato filosoficamente, questo è insufficiente. Il linguaggio non è (o non è soltanto) un mezzo a un fine. Forgiando le parole, costruendo i nomi, l’uomo pensa un mondo,cioè pensa un significato. Ebbene, cosa vuol dire? Ci dice che il linguaggio, ciò che enuncia la conoscenza, è esso stesso anzitutto, e già prima dell’enunciazione, una conoscenza. Per dirla con Emanuele Severino, il linguaggio, prima di enunciare le sapienze, è una sapienza. Un insieme di relazioni, un ordine e un sistema posti dalla denominazione potranno essere ribaltati attraverso nuove denominazioni.

Chi usa il linguaggio non lo usa perciò con la strumentalità che vediamo, ad esempio, nella scimmia che nel noto esperimento usa un bastone per far cadere la banana appesa sul soffitto della gabbia. Chi parla non soltanto enuncia e comunica un contenuto. Il linguaggio non si fa usare dal parlante, bensì usa il parlante. Esso porta in sé i significati, domina chi ne fa uso. Il parlante non opera semplici enunciazioni, mere comunicazioni di contenuti, ma assume su di sé, attraverso la parola, il carico del già-parlato(Cacciari). Ogni Linneo è un Adamo. Chi stabilisce una duratura denominazione, trasmette con il linguaggio stesso un mondo e un significato che potranno essere continuamente ridisegnati. E, insegnamento fondamentale per Jünger, nominare le cose, farle essere per se stessi, comunicarle, fare uso del linguaggio non significa avere della realtà pieno dominio (Herrschaft), bensì essere dominati dalla forma (Gestalt). La presa di possesso cominciata dall’uomo attraverso l’intuizione di tipi – Heidegger, interpretando Jünger, la chiama “la tipica” –, non vale per le forme. Dove il possesso dell’uomo si ferma, comincia il possesso della forma sull’uomo – buona parte della saggistica jüngeriana è l’analisi del possesso della forma del “lavoratore”. Ciò che più ci preme sottolineare, a costo di ripeterci, è come per una simile filosofia del linguaggio non vi sia nel parlare una mera strumentalità, un dominio del parlante, ma anche e soprattutto un dominio della parola stessa. C’è un limite oltre il quale das Ungesonderte e das Namenlose permangono nel mistero, in quello spazio che per Wittgenstein è unaussprechlich, innominabile, indefinibile, ineffabile, inesprimibile: il Mistico. Secondo la tradizione mistica islamica, il Dio, Allah, possiede novantanove nomi con il quale il fedele può chiamarlo. All’uomo non è dato conoscere il centesimo nome.