Il paradosso della vera giustizia ne La leggenda del santo bevitore
di Andrea Pozzoli - 30/12/2020
Fonte: Arianna editrice
Quando nel 1939 fu pubblicato postumo Die Legende vom heiligen Trinker, non tutti ne apprezzarono la poesia semplice e profonda. Anzi, qualcuno biasimò l’autore di essersi concesso un’estrema narcisistica autoassoluzione nella forma di un racconto dagli evidenti tratti autobiografici: con il protagonista Andreas Kartak egli condivide, infatti, l’origine nell’impero austro-ungarico in disfacimento, gli ultimi anni vissuti a Parigi e naturalmente la smodata passione etilica. Ci si potrebbe, dunque, convincere che la lettura e l’interpretazione dell’opera non possano travalicare i limiti del biografismo; così facendo, tuttavia, ci si farebbe trovare impreparati dalla chiosa finale, che, al contrario, conferisce a quanto narrato una dimensione inequivocabilmente universale.
Quelle ultime parole – “Conceda Dio a tutti noi, a noi bevitori, una morte così lieta e bella!”[1] – esplicitano il segno sotto cui ogni parola precedente è stata scritta: la natura umana trova il proprio riflesso in quel miserabile che vive sotto i ponti di uno splendido fiume che attraversa una città meravigliosa; e ognuno di noi, in varie diversissime forme, beve per dimenticare o per sopportare le proprie fatiche. Infine, nessuno può dirsi escluso da quei piccoli quotidiani incontri con l’Assoluto, che appare agli angoli bui delle nostre giornate e ci pone di fronte a prese di coscienza talvolta assurde, almeno in apparenza. È quell’Assoluto che nella Leggenda raccontata da Joseph Roth prende le forme paradossali di un ricco mendicante, che non mendica denaro, ma che qualcuno accetti il suo: l’immagine surreale che ne deriva non è più solo autobiografica, giacché, andando al fondo della propria umanità, l’autore affresca una grande allegoria dell’uomo mendicante di Dio che incrocia sulla propria strada un Dio fattosi mendicante dell’uomo.
L’incontro notturno tra il vagabondo Andreas Kartak e il “signore di età matura”[2] – con questa semplicità ci viene presentato – ha, infatti, immediatamente un sapore evangelico, poiché ricorda la casualità apparente o l’evidente provvidenzialità degli incontri tra il Messia e i suoi futuri discepoli. Come Gesù apostrofa Filippo con un lapidario “Seguimi!” (Gv. 1,43), recluta Simone e Andrea in modo altrettanto diretto – “Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini” (Mc 1,17) – e chiama a sé Zaccheo con eguale immediatezza – “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5), allo stesso modo il signore maturo sbarrò addirittura il passo all’uomo malconcio. Entrambi si fermarono, l’uno di fronte all’altro. “Dove va, fratello?” chiese l’anziano signore ben vestito. L’altro lo guardò un momento, poi disse: “Non sapevo di avere un fratello, e non so dove la strada mi porta”. “Io cercherò di indicarle la strada” disse il signore. “Ma non deve inquietarsi con me se la prego di un favore insolito”[3].
Un ubriacone a cui viene chiesto un favore insolito è un’immagine forse meno nobile di quella di un fiorentino perso in una selva oscura e a cui il massimo poeta latino indichi la via; sarà anche meno suggestiva di un pastore che erri nelle steppe centro-asiatiche interrogando la luna sul senso delle cose; ma ciò che Joseph Roth ci propone è tra quanto di più rappresentativo e vicino a noi la crudezza della nostra modernità sia in grado di offrirci. Ed è a partire da quest’uomo in cui non vorremmo identificarci, ma nel quale possiamo facilmente trovare anche noi stessi, che l’autore dà avvio ad un racconto che fin dal titolo riporta alla memoria gli agiografici legenda del XIII secolo compilati da Jacopo da Varagine. I Legenda aurea riportano sì le vite di centocinquanta santi, ma ciò che spesso si dimentica è che in moltissimi casi, prima di essere riconosciuti tali dalla Chiesa e dai fedeli, quegli uomini conducessero esistenze dissolute, segnate dal vizio e dal peccato, ben lontane, pertanto, da quella via retta che avrebbero imboccato soltanto a seguito di un incontro decisivo.
Si ricordi, dunque, che san Matteo evangelista, per esempio, era stato un esattore delle tasse, san Paolo di Tarso un efferato persecutore, sant’Agostino aveva vissuto nel paganesimo e aveva avuto un figlio fuori dal matrimonio; infine, san Disma, il cosiddetto “buon ladrone”, prima di riconoscere il Messia nel Gesù crocifisso al suo fianco, era stato semplicemente un ladro. Se questi sono i santi su cui la cristianità si fonda e al cui modello un buon cristiano dovrebbe conformarsi, forse la storia di Andreas Kartak, alcolista autore di un omicidio per il quale ha già scontato la pena, non dovrebbe destare eccessivo scandalo e porre ostacoli di sorta all’immedesimazione da parte del lettore. Del resto, il peccato dei santi sta proprio a dimostrare che essi siano come noi, anzi anche peggio; ma sono stati capaci di essere uomini veri riconoscendo il destino quando ha bussato alla loro porta.
Accertato come Andreas possa, dunque, essere a pieno titolo un santo dei nostri tempi, risulta parimenti moderno il male che egli deve vincere e da cui è posseduto: non uno spirito demoniaco come quelli scacciati dal Messia nei Vangeli, ma la debolezza di un alcolismo del tutto umano – non per questo, tuttavia, non bisognoso di un intervento provvidenziale. Umanissimo sarà, quindi, anche il cammino che il protagonista tenterà di intraprendere, in cui l’impegno preso in forma di debito non porta ad immediata ed irreversibile catarsi, ma ad una svilente reiterazione del fallimento.
Il favore insolito di cui si parla è molto semplice: accettare duecento franchi e restituirli dopo la messa presso la cappella di Santa Maria di Batignolles, dove si conserva una statua di Santa Teresa di Lisieux, a cui l’anziano signore è particolarmente devoto. Ciò che ha cominciato ad accadere è solo in apparenza un mero giro di denaro compiuto da un intermediario, poiché, in realtà, la restituzione di quei duecento franchi fornisce ad Andreas uno scopo che ridà significato alla sua possibilità di agire e di sottrarsi alla propria condizione di indigente materiale e spirituale.
Ricevendo la grazia di una mano tesa a rialzarlo, Andreas “aveva vissuto un miracolo, un vero miracolo”[4] e sarebbe ingiusto da parte nostra aspettarci che egli porti immediatamente a termine il proprio compito: che ne sarebbe di lui, se si recasse subito dalla piccola Teresa? Il miracolo risulterebbe vano, la storia che ci viene narrata non sarebbe più una leggenda e Andreas non potrebbe percorrere quel sentiero che lo porterà, come nel titolo, alla santità. È, dunque, necessario il medesimo paradossale capovolgimento dei termini e dei significati che si è verificato nell’incontro con l’anziano signore: come egli era ricco ma mendicante, così Andreas, per essere santo, deve ricadere più e più volte nell’errore, rimettendosi ogni volta in cammino da dove era partito.
Infatti, dopo essersi annotato “l’indirizzo della piccola santa Teresa e la somma di duecento franchi, che da quel momento le doveva”[5], per prima cosa si reca laddove, “lo sapeva, c’era un ristorante. Ed egli entrò, e mangiò e bevve in abbondanza, spendendo molti soldi, portandosi via anche un’intera bottiglia per la notte”[6]. Come se non bastasse, il giorno seguente, persuaso che “quel giovedì doveva essere il suo compleanno”[7], si accinge a consumare un’abbondante colazione, ma, scorgendo il proprio riflesso in uno specchio, desiste – “Non era bene vedere coi propri occhi la propria rovina”[8]; così, prima, si reca da un barbiere per poi constatare quanto sia “cambiato, ringiovanito e imbellito”[9].
Istintiva, ma perbenista, sarebbe la reazione di chi condannasse un tale sperpero e biasimasse l’ingrata incoerenza del protagonista; ma chi, invece, leggesse tale sviluppo narrativo con intelletto d’amore, vedrebbe come, proprio in queste pagine, la grazia ricevuta da Andreas stia mettendo in atto la propria opera: l’uomo umiliato dalla mendicanza e svilito dal vivere sotto i ponti ha potuto sfamarsi, dormire come non faceva da tempo, sentirsi “tutto pulito e addirittura trasformato” anche se si è accontentato “di immergere solo le mani nell’acqua”, ritrovare una dignità agli occhi degli altri tanto da vedersi offrire un lavoro e, infine, celebrare “con fanciullesca gioia”[10] il giorno in cui venne al mondo. Per lui “ora [...] la decisione era di iniziare una nuova vita”[11].
È con questa apertura di sguardo che ci è possibile accogliere tutti i futuri errori di Andreas, anche quelli che lo lasceranno completamente al verde e bisognoso di un ulteriore insperato intervento dall’alto, nel quale, peraltro, comincia a riporre un po’ troppa fiducia “perché a nulla si abituano gli uomini più facilmente che ai miracoli, se si sono ripetuti una, due, tre volte”[12]. In effetti, davvero non importa quante volte quei duecento franchi debbano essere rimessi nelle sue mani e non ha alcuna rilevanza nemmeno che li restituisca subito. Pertanto, quello scopo che gli è stato consegnato si rivela essere nient’altro che un pretesto, qualcosa che, nella trama della vita di Andreas Kartak, sia pre-textum, cioè intessuto davanti al reale obiettivo: il debito pecuniario con la piccola Teresa è solo una causa esteriore, una ragione apparente dietro alla quale è all’opera un provvidenziale disegno soteriologico.
La solvenza del debito non ha più, dunque, alcun valore finale, bensì strumentale alla santificazione del protagonista: l’anziano ricco signore non ha dato peso al denaro in sé, bensì ha inteso convertire Andreas per portarlo sulla propria strada, camminare insieme e non essere più soli. Perché, si badi bene, è proprio quando si è soli che si compiono gli sbagli più gravi. Il consumo alcolico di Andreas avviene, infatti, quasi sempre in una condizione di solitudine, non solo fisica ma anche esistenziale, poiché può essere proprio la compagnia di qualcuno non davvero interessato a noi a farci sentire soli:
E si stringevano la mano, la ragazza e il nostro amico Andreas. Ma, stringendo, la sua mano restava indifferente, e lui stesso ne soffriva: lui stesso. Così, nell’intervallo, decise di andare a bere qualcosa nell’atrio con la bella ragazza, e ci andarono e bevvero[13].
Allo stesso modo, l’incontro con Caroline, la donna per la quale aveva commesso un omicidio tempo addietro e che, in realtà, non prova alcun reale interesse per lui, lo porta a sperperare gran parte dei propri ritrovati duecento franchi, ma egli non valuta l’accaduto alla luce del debito che ora non può più saldare; piuttosto
a un tratto, nelle strade deserte dell’alba, sembrò a lui, senza soldi da mesi innumerevoli, di essere diventato improvvisamente povero; [...] Era in collera con lei; e a un tratto lui, che non aveva mai dato importanza al fatto di possedere del denaro, cominciò ad apprezzarne il valore. D’un tratto trovò che possedere cinquanta franchi era ridicolo per un uomo del suo valore, e soprattutto sentì impellente la necessità, anche solo per chiarire con se stesso il valore della propria persona, di riflettere su di sé in pace davanti a un bicchiere di pernod[14].
Non esiste forse solitudine più grande, non dettata dalla povertà in sé, che Andreas aveva già sperimentata per lungo tempo condividendola con gli altri membri di quella silenziosa comunità di mendicanti che viveva sotto il livello della strada; piuttosto, una solitudine determinata da quello sguardo alieno e disperato rivolto a se stessi con il quale ci si misura in base al denaro che si possiede. Chiunque berrebbe, se, concependosi alla stregua di una merce di scambio, avesse il dubbio di valere soltanto cinquanta franchi.
A dispetto di quanto possa pensare il lettore, la perseveranza di Andreas Kartak nei medesimi errori – e, dunque, la sua incapacità di saldare il proprio debito – è concepita fin dal principio come parte del disegno della “provvidenza – o, come direbbero le persone meno credenti, il caso”[15]. Infatti, sul finire della storia, il protagonista incontra nuovamente il distinto signore anziano che, non ricordandosi di lui, gli chiede la carità di accettare il proprio denaro; per giunta, si vedrà consegnare da un poliziotto un portafoglio non suo contenente proprio i duecento franchi che deve alla piccola Teresa: solo la provvidenza – e, dunque, qualcosa che trascenda il piano della mera ragione – può spiegare ciò che altrimenti sarebbe soltanto una fortuna tanto immeritata da risultare paradossale. Tale paradossalità, piuttosto, deriva dalla nostra incapacità di accettare la gratuità del bene dispensato ad Andreas Kartak, in quanto prevale in noi quell’umano senso di giustizia che fa sì che essa sia tale solo nella misura in cui sappia distribuire a ognuno il suo, in proporzione ai suoi meriti.
A pensarci meglio, però, è invece proprio tale concezione della giustizia ad essere paradossale, poiché, se applicata al caso di Kartak, determinerebbe come unico possibile esito giusto la negazione del bene di cui egli ha bisogno molto più di altri. Forse, allora, la chiusura del romanzo, quando in fin di vita verrà portato di peso alla cappella di Batignolles, qualifica Andreas come un autentico martire, nel senso etimologico di testimone, giacché in modo del tutto inaspettato ci mette di fronte al debito che noi stessi abbiamo contratto con la piccola Teresa: un debito di misericordia nei confronti di quei nostri fratelli che sono in difficoltà e che non siamo in grado di guardare con quella stessa giustizia non calcolatrice con cui è guardato il santo bevitore.
Come Andreas Kartak, anche noi manchiamo continuamente di saldare il nostro debito, ma fino alla fine ce ne verranno offerte gratuitamente e pazientemente infinite possibilità, così che – se come lui avremo la forza di non darci per vinti – anche noi potremo ricevere la grazia di “una morte così lieta e bella!”[16]
[1] J. Roth, La leggenda del santo bevitore, Adelphi, Milano, 2003, p. 69.
[2] Ibidem, p. 9.
[3] Ib., p. 10.
[4] Ib., p. 15.
[5] Ib., p. 13.
[6] Ib., p. 14.
[7] Ib., p. 16.
[8] Ib., p. 17.
[9] Ib., p. 18.
[10] Ib., p. 16.
[11] Ib., p. 17.
[12] Ib., p. 35.
[13] Ib., p. 55.
[14] Ib., pp. 32-33.
[15] Ib., p. 57.
[16] Ib., p. 69.