Il pasto
di Livio Cadè - 19/12/2021
Fonte: Ereticamente
La vita è un atto creativo il cui scopo è generare bellezza. Ma la creatività implica un disporre liberamente delle proprie facoltà. Perciò ogni sottrazione di libertà comporta una proporzionale sottrazione di vita e di bellezza. Credo sia questa la ragione per cui la nostra società assume forme sempre più laide e mortifere.
Di fatto, un coro di prefiche geme sul corpo esanime della civiltà occidentale e ne piange la morte. E mi unirei anch’io ai loro lamenti se un dubbio non mi trattenesse. Infatti, pur ammettendo con qualche riserva che una civiltà sia assimilabile a un corpo biologico – soggetta quindi a una nascita e a una morte – io temo che l’Occidente non sia affatto morto (e dirò presto perché questo debba spaventare e non consolare).
Questa civiltà non respira, non ha un cuore che pulsa, esala fetore di cadavere, è vero. La diagnosi di morte sembra inoltre giustificata dall’osservazione di numerosi processi degenerativi. Il nostro mondo ha l’aspetto di un organismo in dissoluzione, già invaso da larve, microrganismi e parassiti. Sembra evocare il caos allucinato e formicolante di certi pannelli di Bosch.
I nostri tradizionali valori – etici, estetici o religiosi – si stanno rapidamente decomponendo. La modernità ha eroso quella struttura di pensiero giudaico e greco-romano che cementandosi col cristianesimo è stata per secoli fondamento della cultura e dell’arte occidentale. I segni di questo disfacimento sono innegabili e si fanno di giorno in giorno più evidenti. Eppure la nostra società ancora si muove. Anzi, sembra incapace di fermarsi, ha in sé qualcosa di febbrile.
Ci troviamo quindi di fronte a un paradosso per cui vita e morte coesistono in uno stesso soggetto, a un’inversione di significati e di valori che fa sembrar vivo ciò che è morto. Del resto, questo non stupisce, perché da tempo siamo assuefatti a radicali falsificazioni e rovesciamenti di senso.
Vorrei citare, a titolo d’esempio, un fatto banale eppure significativo. È l’immagine di Capitan Vaccino, giovanile e accattivante super eroe in camice bianco che dovrebbe invogliare i bambini a farsi ‘vaccinare’. È un invito alla vita e alla libertà che nasconde in realtà asservimento e traffici di morte. Una bieca operazione di marketing che trasforma una ‘strage di innocenti’ in una farsa con fanfare, clown e palloncini.
Questa immonda pagliacciata mi ha riportato alla memoria IT, l’orripilante, gigantesco ragno alieno creato dalla fantasia di Stephen King. Anche lì il mostro si insinuava nelle menti dei bambini assumendo l’aspetto di un clown, per poterli adescare e divorare. Capitan Vaccino è in fondo il lupo travestito da nonna, il maniaco che offre caramelle ai bambini.
Ma l’orrore qui è ancora più subdolo, perché sono gli stessi genitori che consegnano i figli a questo Moloch politico-farmaceutico camuffato da amico. E tutti gli adulti – medici, poliziotti, insegnanti – che dovrebbero istintivamente proteggere quei piccoli, sono i primi a lasciarli indifesi e anzi a spingerli verso il mostro.
Com’è stato possibile cancellare così radicalmente il senso di responsabilità e le tendenze protettive del ‘branco’ nei confronti dei suoi ‘cuccioli’? Qui vengono pervertiti i sentimenti più atavici, abolita la più naturale sensibilità. Credo non vi sia indicatore più chiaro della nostra degenerazione di questo: sacrificare i bambini per placare le ansie puerili di adulti e vecchi.
Non v’è dubbio che si tratti di un fenomeno putrefattivo. Quindi sembrerebbe logico attribuirlo a un soggetto cadaverico. Tuttavia, si cadrebbe così in un pericoloso trompe-l’oeil. Un vero morto infatti non potrebbe né muoversi né nuocere. Ma nell’Occidente è in atto una metamorfosi che gli consente di conciliare la perdita delle funzioni vitali più nobili con forme di vita apparente, una pseudo-vita che procede per inerzia di automatismi e movimenti meccanici.
Per capire come si sia arrivati a tanto dobbiamo pensare che ogni civiltà, come ogni organismo, ha bisogno di nutrirsi. Il suo pasto consiste in sistemi etici e filosofici, ideali sociali, fede religiosa, arte, poesia etc. Il cibo di una civiltà è la bellezza, il genio, la libertà. Purtroppo, queste essenziali fonti di nutrimento sono pressoché esaurite.
La civiltà ha dunque cercato di placare il suo appetito con la tecnica, i dispositivi elettronici sempre più efficienti e veloci, le statistiche, con gossip, quiz, serie televisive, telegiornali e cose simili. Ma questo pasto, anche se assume le dimensioni di un’orgia senza fine, non sazia. La nostra società, costretta a cibarsi del nulla, del vuoto che produce, si è così trasformata in uno spettro perennemente affamato.
Questo ha innescato la trasformazione. Non riuscendo più a trovare alimenti vitali, la civiltà contemporanea ha cominciato a divorare sé stessa. Ha addentato la carne viva del proprio passato, delle proprie tradizioni, facendone scempio. In un delirio di autofagia ha cominciato a cibarsi del suo stesso cuore. Il fatto spaventoso è che sembra poter prolungare questa sopravvivenza per un tempo indefinito, bloccata in una dimensione in cui non può né vivere né morire.
È in sostanza una situazione paragonabile a quella dello zombi, del non-morto o del non-vivo, secondo i punti di vista. Un motivo simile si trova anche nel mito del vampiro. Ma mentre quest’ultimo può intingere la propria disumanità in un’aura romantica e aristocratica, lo zombi è una figura derelitta e disgustosa.
Lo zombi moderno è dunque sia l’allegoria di una compulsione consumistica sia il ritratto di una società incosciente, che consuma sé stessa con una voracità malata e sempre inappagata. Vi sono tuttavia nello zombi due aspetti fondamentali da tenere in considerazione.
Secondo una primitiva accezione, zombi è la persona in cui, mediante sortilegi o pozioni, si provoca uno stato di morte apparente, un po’ come la Giulietta shakespeariana. Con la differenza che lo zombi si risveglia dotato di una coscienza piatta e rudimentale, senza alcuna libertà di scelta e d’azione, ridotto alla mercé di qualcuno di cui esegue passivamente gli ordini.
Questo zombi classico, essere letargico asservito a poteri oscuri, rappresenta metaforicamente solo una parte dell’Occidente attuale. Ne descrive la condizione sonnambolica e la supina, inconsapevole condiscendenza a farsi usare per scopi malvagi. Un’anticipazione di questo tema si trova ne “Il dottor Caligari”, film espressionista del 1920. Lì un ipnotizzatore si serve di un sonnambulo per compiere i suoi crimini. Anche oggi, come allora, si può cogliere in quel canovaccio onirico il presentimento dei totalitarismi incombenti.
Ma la semantica e la fenomenologia dello zombi hanno subito poi progressive espansioni, rendendolo più complesso. È diventato un cadavere che per qualche misteriosa ragione – di solito un virus – si rianima in preda a un’insaziabile libido antropofaga. In questo, l’invenzione e l’immaginazione non hanno fatto che adeguarsi all’evoluzione di una tragica patologia sociale, offrendole metafore sempre più fedeli in cui specchiarsi. Allo zombi originario, schiavo addormentato, quello ‘evoluto’ aggiunge un impulso che lo spinge alla ricerca di carne umana, di vittime di cui fa strazio in ammucchiate cannibalesche.
Lo zombi non conserva in sé tracce di civilizzazione, di sensibilità estetica o di riflessione filosofica. La sua mente appare decomposta, silenziosa tomba di ogni facoltà intellettuale o morale. Non pensa, agisce per riflesso nervoso. L’area corticale del cervello – riflessiva, ideativa – appare in lui atrofizzata o scollegata, sostituita da un rozzo sistema sensoriale e cinetico.
A volte sembra galleggiare in lui qualche torpido ricordo del passato, relitti di memoria che affondano nel nulla. La sua residua coscienza tende solo alla soddisfazione di un’allucinazione alimentare. Per gran parte del giorno tiene gli occhi fissi su un monitor, medium da cui gli giunge la voce del Padrone e da cui riceve i messaggi che attivano il suo apparato psico-motorio. Strumento che innesca in lui gli stimoli della fame e gli trasmette per via subliminale una serie di ordini.
Egli vaga dunque in cerca di cibo, come chiamato da oscuri richiami. Ma, dato che della sua natura organica conserva solo un simulacro necrotico, il suo pasto diventa un rituale tanto cruento quanto illusorio. Il suo desiderio è una sorta di cortocircuito, un meccanismo che simula i gesti della vita, un’iterazione di processi privi di ogni metabolismo vitale. È lo specchio di una società guidata da grossolane sollecitazioni mediatiche, che mentre promettono allo zombi soddisfazioni impossibili lo legano all’adempimento di scopi e funzioni utili solo a chi lo comanda.
Lo zombi non è libero, quindi non crea nulla. Deve solo consumare, evacuare, ubbidire. È figura priva d’ogni bellezza o dignità, in cui la banalità e lo squallore del male trovano espressione compiuta e definitiva. Il suo sordido masticare non ha l’ebbrezza esaltata delle Menadi. Invano cercheremmo in lui la torva solitudine di un Nosferatu o il fascino selvaggio del licantropo. Lo zombi per altro non possiede alcun potere insolito e sovrumano. È anzi rigorosamente subumano.
Si muove lentamente, come un magma appiccicoso, barcolla confuso e in precario equilibrio. Si fonde in una moltitudine caotica e totalmente impersonale. La sua unica forza sta nella quantità, nei numeri di una maggioranza prevaricante. Si intruppa nell’uomo medio, è il conformista per eccellenza.
Aggregato ai suoi simili, si sposta a ondate collettive, in gruppi claudicanti e scoordinati. Ma non esiste fra zombi solidarietà o una coscienza di classe. Anche se si accalcano tutti insieme nella stessa direzione, mossi da un identico scopo, non comunicano tra loro e non si capiscono. Stretti uno all’altro, si ignorano. Li accomuna solo il passo goffo e legnoso, l’ottusità, l’ingordigia. La loro identità si perde in un pensiero unico e senza volto.
Questa massa di esseri in dissoluzione, provenienti da ogni categoria sociale, laica e religiosa, senza distinzione di ceto e d’età, ci circonda e ci insidia. Forma una schiacciante marea che preme contro le porte chiuse dietro cui la vita si rifugia. I pochi scampati devono fuggire o nascondersi. Ma ogni luogo – ospedale, chiesa, banca, scuola, supermercato, la nostra stessa casa – può diventare un nido di zombi pronti a fagocitarci.
Per quanto incredibile, vi sono alcuni che vorrebbero includere lo zombi tra “il nostro prossimo” e di conseguenza concedergli un doveroso rispetto, trattarlo con “senso di responsabilità”. Considerano immorale la violenza contro gli zombi. A sentir loro dovremmo preoccuparci delle necessità di questi mostri e non far loro del male, perché “sono nostri simili”.
Ma grazie a Dio questo non è vero. E comunque, non è perché son mostruosi e dissimili da me che non ho rispetto per loro, ma perché sarebbe stupido aver rispetto di un’infezione. Pensare di ‘salvare’ o rieducare uno zombi è assurdo quanto voler insegnare il galateo a una colonia di batteri. Cercare di stringere con lui dei vincoli morali è un’etica putrefatta, cioè un’etica da zombi.
L’unica opzione razionale è azzerare quel che resta del suo cervello, fermarlo prima che lui uccida noi o ci contagi, interrompere il collegamento tra il suo sistema nervoso centrale e il resto del corpo. Ciò si ottiene, concretamente, decapitandolo o distruggendo in qualche modo il suo encefalo. In senso figurato, dovremmo bloccare la sua connessione con chi ne governa i movimenti – i media, il mercato, il mainstream. Colpirlo al cuore è inutile. È come se non l’avesse. Questa civiltà non ha più un cuore, solo uno stomaco, e inservibile anch’esso.
Lo zombi è infatti figlio di una società ipernutrita ma incapace di digerire e assimilare ciò che mangia. Per questo il suo coma è incrinato dai morsi di un vuoto tormentoso che lo spinge a ingoiare, suggere, sbranare qualsiasi cosa – materiale o immateriale, reale o virtuale – gli offra un’effimera sensazione di riempimento. Ma lo zombi non trattiene nulla, gli oggetti attraversano il suo apparato digestivo e ne vengono evacuati senza dargli alcun nutrimento.
La sua ricerca di cibo è ancor più frustrante e vana perché la maggioranza degli umani è simile a lui, carne morta che non eccita alcuna brama. Osservate alcuni zombi che discutono tra loro di vaccini, contagi, misure politico-sanitarie. La loro aggressività resta dormiente, intorpidita, mentre si baloccano coi loro dati e i loro commenti, forme cadaveriche e senza sapore. Ma mettete in mezzo a loro una persona che li contraddica e subito il loro sguardo vitreo si contrae. Attratti dal battito del suo cuore, dall’odore della vita, li vedrete avventarsi su di lei per smembrarla e farne il loro macabro pasto.
Ma quest’atto, lo squartamento, contiene un altro importante valore simbolico, una sorta di compiacimento necrofilo. L’esibizione della morte e del nulla è infatti un elemento precipuo della nostra società. Mentre si auto-divora, si ‘apre’ e si mette a nudo. Sembra godere così di un piacere pornografico nell’ostentare le proprie viscere e nel mostrare l’assenza di un’anima dentro di sé. Tutto in lei diviene organo, osso, frattaglia, materia destinata a uso commestibile. L’interiorità dell’uomo è assimilata alle sue interiora.
Nonostante il suo fluttuare caotico, non dobbiamo pensare alla folla degli zombi come a un fenomeno anarchico e irrazionale. Non dimentichiamo che lo zombi, nella sua definizione classica, è sempre governato dalla volontà di un padrone. E anche lo zombi moderno, per quanto isolato in sé stesso, nel suo desiderio, partecipa di una volontà comune e di un disegno generale. Senza rendersene conto esegue un ordine, aderisce a un progetto per cancellare lo spirito.
È il Potere stesso che crea lo zombi e ne favorisce la diffusione, ostacolando ogni tentativo di terapia o profilassi. Lo zombi classico, catalettico, è infatti il sogno di ogni tiranno. È il cittadino-servo ideale, ignaro, passivo, docile ai comandi come una marionetta. E lo zombi affamato, consumista, alimenta un capitalismo altrettanto ingordo, che ne sfrutta l’ossessione famelica, l’illusoria ricerca di sazietà e la frustrazione sempre rinascente.
Lo vediamo in queste torme allupate e inebetite che, ingozzandosi di vaccini, non fanno che alimentare la propria insicurezza. Convergono avidi verso il grande banchetto vaccinale, solo per tornare brancolando nella loro vacuità. E trascinano in questa crapula i loro stessi figli, convertiti già in piccoli zombi. Trangugiano senza cognizione e senza sentirsi mai satolli ma, in compenso, dando piena soddisfazione alle concupiscenze del Potere. Realizzano così in un solo atto un doppio paradosso: quello di schiavi che si sentono tanto più liberi quanto più son dominati e di morti che han paura di morire.
Lo zombi è lo scarico fognario dove confluiscono, dopo un lungo viaggio, i nostri sogni prometeici e faustiani, le nostre velleità di potere e conoscenza. È l’esito finale di un’utopia ‘evolutiva’ che non si sa porre limiti, digiuni o astinenze. Esplicita i contenuti regressivi della nostra idea di progresso e mostra gli esiti disumani, autodistruttivi, cui inevitabilmente conduce.
È un essere che provoca ripugnanza e paura non solo perché è putrido o perché risveglia in noi l’ancestrale terrore di essere mangiati dalla Bestia, ma perché è la proiezione di un incubo in cui temiamo di doverci rispecchiare. È immagine di un futuro in cui siamo ridotti ad automi, esseri senza valori e sentimenti umani, inutili tubi digerenti. È il futuro dei Capitan Vaccino, di una società dominata da zombi cui dare in pasto anche i bambini.
Quadro forse troppo fosco e pessimista, in cui mancano, lo riconosco, le luminose eccezioni. Ma le rare oasi di umanità e di resistenza che ancora rimangono ognuno le deve cercare da sé. Chi ancora non è infetto cerchi dunque un posto dove dar rifugio ai suoi cari. Eviti le situazioni di contagio. Il medico zombi, il giornalista zombi, il politico zombi, anche il vicino di casa zombi, sono pericoli mortali. Lo zombi-virus ci priverebbe di ogni naturale riposo. Ci costringerebbe a sopravvivere sotto forma di semi-cadaveri incoscienti, che smaniano per un orribile nulla.
E io credo sia meglio morire che vivere in un mondo senza libertà e senza bellezza. Dobbiamo quindi difenderci con ogni mezzo, isolarci, fuggire, o trovare un antidoto, un vaccino. Questo sì obbligatorio. Perché si può accettare un’anima senza corpo, ma non un corpo senz’anima.