Il potere della paura. Dialogo sulla dittatura tecnocratica
di Lorenzo Castellani - 12/08/2022
Fonte: Pangea
Dobbiamo finirla una volta per tutte con la neutralità degli scacchi. È necessario condannare chiaramente l’idea che si “giochi a scacchi solo per giocare a scacchi”, così come si dice di fare “arte per il semplice piacere di fare arte”. Andranno organizzate brigate super produttive di giocatori di scacchi, per dare subito inizio a un piano quinquennale per gli scacchi.
N.V. Krylenko, commissario sovietico dell’epoca staliniana
Questa citazione, inquietante e semi-comica insieme, si trova a pagina 59 del denso saggio Sotto scacco (edito da Liberilibri, 2022) di Lorenzo Castellani, docente di Storia delle istituzioni politiche presso la LUISS Guido Carli di Roma. È il punto in cui l’autore spiega come, in questi anni di emergenza pandemica da Covid 19, le infiltrazioni tecnocratiche hanno preso piede nella sfera del dibattito pubblico, cercando di tenere le redini della discussione politica attraverso la serie di virologi, epidemiologi, farmacologi e affini che si esibivano in continue tenzoni mediatico-televisive: in questa scorribanda di polemiche lo spirito razionalistico, che mirava al ripristino della certezza e della stabilità sociale attraverso le scelte (anche drastiche) demandate alla scienza, ha finito per politicizzare la vita dei cittadini, portandoli gradualmente verso qualcosa che somiglia a un dispotismo illiberale mascherato.
“I vecchi dispotismi si limitavano a rinchiudere l’uomo nella vita privata mentre quelli contemporanei preferiscono che abbia soltanto una vita pubblica. Per addomesticare l’uomo è sufficiente politicizzare ogni suo gesto”.
Oggi sappiamo che la vita privata dei singoli viene erosa da ogni lato, quasi scarnificata, dal moltiplicarsi dei dispositivi di controllo: dall’imposizione del tracciamento dei pagamenti, che implica la costante registrazione degli spostamenti e del dinamismo crono-topografico delle persone (in quali luoghi si trovano in quel momento, a quali operazioni sono intente, quanti soldi spendono) fino al noto controllo degli utenti operato dai social network, che ne profilano quasi ogni aspetto psico-comportamentale per poterlo utilizzare in funzione del mercato.
“Il potere politico si fonda sulla paura”, questo è uno degli assunti di partenza di Sotto scacco. Ed è alla regolazione della paura che si dedica il sistema di potere, assumendo la funzione di antidoto: definendosi come riduttore della complessità, come semplificatore delle possibili soluzioni e promissore di sicurezza, però lasciando scoperte – si badi – le restanti alternative, in modo da farle percepire come fonti di incertezza e di pericolo, rendendole così veicolo di quelle paure che si è deciso di lasciar circolare. I fini politici, dunque, si gestiscono in questo modo, soprattutto nelle società contemporanee, dove la complessità e la difficile governabilità delle minacce ha reso necessaria una sorta di controllo poliziesco di stampo pedagogico, regolatore, sorvegliante e classificatore, che da noi si è realizzato in modo compiuto – inimmaginabile prima – nel fronteggiare la pandemia da coronavirus. Ora, abbiamo chiesto all’autore di spiegarci come hanno giocato, in relazione l’uno con l’altro, gli aspetti più evidenti dell’esercizio del potere nell’affrontare questa pandemia (il confinamento nel proprio domicilio, il divieto di circolare ecc.) e quelli insondabili, “esoterici”, derivanti dai comitati e istituzioni scientifiche a cui lo Stato ha affidato buona parte delle decisioni operative, delineate in base a calcoli e strumenti specialistici, inaccessibili ai non iniziati e dunque “non scrutinabili”.
Professor Castellani, nella parte iniziale del saggio lei rimarca il fatto che “a certe istituzioni si obbedisce proprio perché non si possono comprendere le basi sulle quali poggiano le loro scelte”. Si tratta di una realtà umana che risale all’antichità, come ha osservato, e alla gestione del “sacro” nel suo rapporto col potere. Questa inaccessibilità, che investe certi nodi cruciali della rete che ci governa – tipicamente gestiti dalle tecnocrazie –, si è resa da un lato necessaria alla politica per fronteggiare le minacce non gestibili, ma dall’altro lato si è rivelata fonte di indebolimento della stessa classe politica, che si è lasciata erodere il potere decisionale.
È così, la tecnica in alcuni casi ha rimpiazzato la religione. Se guardiamo ai processi di secolarizzazione del potere politico, a partire dal Seicento soprattutto, questo è evidentissimo. Declina il potere d’investitura religiosa e aumenta la legittimazione della tecnica. La statistica, la geografia, i censimenti, il catasto, la logistica, il sistema fiscale sono tutte tecniche con cui lo Stato conta, omogeneizza e disciplina la popolazione. Il governo degli uomini per volontà divina è sostituito dal governo delle leggi e delle cose. La stessa burocrazia, prima riservata agli aristocratici, agli ecclesiastici e alla corte, inizia dal diciottesimo secolo a divenire progressivamente meritocratica, fondata sulla valutazione delle competenze attraverso i concorsi. Alcune istituzioni, in questo processo, sono più lineari e meno affascinanti mentre altre si nascondono dietro la segretezza di tecnicismi raffinati, come oggi le banche centrali. L’autorità e il potere, quindi, cambiano fonte di legittimazione: non più Dio, ma la competenza, la scienza e l’economia. La rivoluzione industriale, la politica di masse e l’intervento statale hanno fatto il resto. L’organizzazione – della produzione, del consenso, della propaganda – è divenuta padrona delle nostre società. Si è aperta una crisi del politico nel Novecento, prima riassorbita in modo drammatico con le ideologie e i totalitarismi, poi in maniera più subdola e sofisticata con la tecnocrazia. La politica oggi non è scomparsa come sostengono alcuni, ma si esercita in forme diverse: dispersa tra molteplici istituzioni con fonti di legittimazione plurime e non sempre rappresentative, ibridata con il settore privato (oggi anche le aziende fanno politica), disintermediata rispetto a partiti e associazioni ma pur sempre organizzata attraverso algoritmi. I leader, spesso esaltati dai media, sono spesso prigionieri delle istituzioni e del sistema – il complesso delle organizzazioni – che ha assorbito la politicità. La politica sublimata nell’organizzazione si disperde in tanti rivoli: “chi comanda?” è una domanda sempre più difficile da rispondere per i cittadini.
Marina Cvetaeva
Georgij Efron
Grida dai tetti il suo amore per me
La scienza, in questo psicodramma collettivo che ci ha tormentati negli ultimi anni, sembra essersi arrogata un ruolo eminentemente prescrittivo, pre-vidente in senso unidirezionale, quando invece la natura della scienza è fatta di prove ed errori, di esperimenti e contro-esperimenti e di continua messa in discussione dei risultati. Ma gli specialisti, come ha scritto, “frullati dalla macchina mediatica, non riescono a comunicare al pubblico le particolarità che veramente sanno, e per le quali si richiede tempo, osservazione e coordinamento, ma soltanto le generalità che erroneamente credono di sapere”. Il virus che ha causato questa pandemia era una terra incognita, che forse avrebbe richiesto ben altro atteggiamento rispetto alle messe in scena dei dibattiti catodici e virtuali, esibizioni mediatiche che si sono espanse quasi rizomaticamente, alimentando le incertezze e invadendo lo spazio pubblico in competizione con la politica.
La vicenda della pandemia è paradigmatica. Una parte importante dell’élite occidentale considera la scienza come una sorta di divinità sovrannaturale, statica, immune da errori e fallimenti. Come abbiamo visto la realtà è diversa: i disaccordi tra scienziati sono continui e si progredisce per errori. Il tentativo della politica di costruire una ideologia scientifica – incontestabile e destinata al comando – è una pia illusione. Proprio perché la conoscenza è dispersa, soggetta a continui rovesci e casualità, e dunque persino il super-esperto non ha mai tutte le risposte. Ad inizio pandemia pensavamo che i medici avrebbero “scientizzato” la politica e, invece, si è politicizzata la scienza. Oggi un virologo da talk show ha tutti i vizi del politico di professione. Ciò non significa ovviamente negare l’importanza o lo straordinario contributo della scienza – si pensi ai vaccini – ma diffondere la consapevolezza che la scienza è esperimento, prova ed errore, e che non esistono verità fisse e precostituite. Altrimenti si cade nello scientismo, una visione ideologica che genera corporazioni e conformismo tra gli scienziati e confusione nel pubblico. Non si risolve una crisi sanitaria dando tutto il potere ai tecnici, semplicemente perché la tecnica non basta mai a risolvere problemi in cui sono in gioco interessi generali e valori esistenziali. Questi saperi specialistici servono, ma senza saggezza e prudenza, che la stessa scienza insegna, si alimentano soltanto paura e sfiducia, si creano nuove burocrazie e rendite di posizione.
Lei parla di “un sacrificio ancora modesto della libertà e dell’originalità”, fatto dalle persone per avere in cambio la comodità e l’illusione di una maggiore sicurezza e leggibilità del reale – che invece, per il suo strutturarsi in modo sempre più “algoritmico”, diventa inconoscibile e invasivo. Quindi ci avverte che questo sacrificio è ancora in fase preliminare, ma è inquadrato in una situazione irreversibile, da cui non si torna. Già noi utenti dei social non ci rendiamo conto del nostro grado di permeabilità al “governo algoritmico del capitalismo digitale”, e oggi abbiamo di fronte quella mostruosità in formazione che è il tecno-autoritarismo cinese, che va perfezionandosi in modo esemplare. Dovremmo riflettere su questo, invece di restare distratti.
È il grande tema del futuro perché potenzialmente la tecnologia è in grado oramai di controllare ogni aspetto della nostra vita. Tutto può essere tracciato e tutto può diventare strumento di repressione. Si pensi alla possibilità di privare gli oppositori politici dell’accesso ai propri conti correnti oppure al sistema sanitario. Oggi con pochi codici è possibile farlo, si può incarcerare un individuo senza metterlo fisicamente in galera. Semplicemente lo si cancella dalla vita sociale. Se a questo uniamo una domanda di sicurezza sempre più forte – dettata dalla paura della pandemia, dalla precarietà economica e dalla guerra – è facile intuire in cosa potrebbero trasformarsi i nostri sistemi. Tutto questo senza considerare gli attacchi esterni: attentati per via informatica, attacchi batteriologici, sabotaggi telecomandati. L’invisibile arma tecnologica può generare un timore molto superiore al terrorismo classico perché ci presenta minacce irrintracciabili, almeno nel breve periodo. La paura, però, determina ulteriore richiesta di protezione e quindi un sistema disciplinare-tecnologico ancora più stretto. È una trappola di silicio in cui la paura alimenta la riduzione delle libertà, distrugge i nessi di fiducia della comunità, alimenta una società del sospetto. In Cina questo esperimento esiste già, ma l’Occidente non sarà immune da ripercussioni. Non a caso gran parte di questi sistemi tecnologici ha origine in California. La capacità di tenere insieme il trilemma libertà-fiducia-autonomia nei prossimi decenni sarà essenziale per scongiurare una società securitaria, repressiva, omologata. La tecnologia senza tradizione è potenza senza controllo.
Quello a cui siamo stati sottoposti è quindi uno “stato di eccezione leggero”, dove l’infiltrazione tecnocratica si è sviluppata fino a incorporarsi ai tessuti socio-politici e la scienza si è ideologizzata creando fazioni e schieramenti, con il potere che nel frattempo ha consolidato la sua vocazione paternalista. Questa aberrazione del ridursi a fazioni che si affrontano in modo irriducibile, spesso rinunciando al dialogo razionale, si ritrova oggi nelle aspre discussioni sulla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, scoppiata poco dopo l’uscita del suo libro. Di nuovo vediamo lo scontro delle posizioni ideologiche che non vogliono vedere oltre le proprie idiosincrasie e revanscismi, che restringono le prospettive per mettersi (o tornare) alla ribalta. Quanti vecchi arnesi – maoisti, terzomondisti, pacifisti e affini – hanno rialzato la testa per montare sulle barricate: sembra il risorgere di correnti di fosso che si stavano esaurendo e che hanno approfittato per riagganciarsi alla pugna. Anche qui c’è la gestione della paura, che sembra stringere ancor più il laccio e proseguire il suo corso, allargandosi alla geopolitica di cui ci si stava dimenticando.
Il caso della guerra in Ucraina mostra bene due cose. Da un lato, la tendenza delle élite di cristallizzare subito le posizioni politiche attraverso un richiamo atavico: con noi o contro di noi. Le sfumature non sono ammesse, o sei amico o sei nemico. Questa semplificazione, purtroppo, nasconde la realtà anche allo stesso establishment politico-economico-amministrativo. La smania dell’idealismo offusca la realtà, interna ed esterna. Per esempio, si è sottovalutata la gravità della crisi energetica, sbagliati i calcoli sulla capacità di resistenza dell’economia russa, travisato gli scenari militari, equivocato la politica interna russa, preso un enorme abbaglio sulla transizione ecologica. Ciò perché una élite debole e impaurita tende a rifugiarsi nella propaganda, nella creazione di scene da “cittadella assediata” e ad usare l’arma della delegittimazione in modo troppo disinvolto, moralistico, polarizzando il dibattito con violenza. Questa operazione, pur comprensibile, ha un rischio: e se poi ciò che si dice si rivela sbagliato? Chi paga il conto? Insomma, la delegittimazione dell’avversario è sempre un’arma a doppio taglio. Senza contare quanto questa “utopizzazione” faccia perdere di vista il lavoro di mediazione, compromesso, prudenza necessaria per ricostruire un ordine politico, in Europa come nel resto del mondo. La seconda questione è che nonostante questi sforzi di omogeneità e di conformismo, la guerra è un motore troppo potente per poter essere fermato. Le divisioni sono incontenibili perché la politica è chiamata a misurarsi con elementi fondamentali come vita, morte, difesa, attacco. Da qui discendono le posizioni pacifiste, terzomondiste, filo-russe per esempio che stanno dilaniando la sinistra e, in minor scala, la destra europea. Non solo, ma dentro queste posizioni si nasconde la malattia dell’anti-occidentalismo, che per molti è divenuta una sorta di professione. A forza di denigrare la propria cultura si finisce per avallare tutte le mosse messe in pratica contro il proprio universo politico e identitario, valeva per i terroristi islamici e vale per l’invasione russa. Queste due tendenze sono due facce della stessa medaglia: quella di un modo di pensare e fare politica che, almeno esteriormente, ha perso il proprio equilibrio perché si è tutto ripiegato sulla morale e sul sentimentalismo. L’emotività in politica è un grave handicap e il nostro dibattito pubblico è oramai quasi tutto fatto di emotività. Per questo ogni tema, anche il più ridicolo, diventa oggetto di una sorta di guerra civile. Di conseguenza, questo conduce a perdere la capacità di governo del sistema e spinge le classi politiche a costruirsi delle storie su misura (quelle che gli “esperti” di comunicazione denominano con l’orrendo termine di “narrazione”) che non hanno riscontro nella realtà, che generano delusione e poi rabbia, che produce demagogia inconsistente e così via il ciclo ricomincia. In conclusione, soltanto un concreto spirito di conservazione della comunità nonché la vecchia ragion di Stato potranno ricondurci ad un futuro ordinato, prospero e pacifico.