Il prezzo della vittoria
di Fulvio Scaglione - 11/03/2023
Fonte: Lettera da Mosca
Mi pare incredibile che ci siano ancora così tante persone pronte a ribadire la retorica della vittoria, della “pace giusta” (che è, come ci spiegano, quella decisa dagli ucraini), in sostanza dell’umiliazione strategica della Russia attraverso la sconfitta sul campo, del naufragio della sua economia tramite le sanzioni, del crollo dei suoi assetti di potere a causa del costo della guerra e, per i più ottimisti, della disgregazione della sua unità federale. Senza che mai, nemmeno una volta, ci si interroghi su quale sia il prezzo che siamo disposti a pagare, e soprattutto a far pagare agli altri, per raggiungere questo obiettivo. Sempre ammesso che l’obiettivo sia raggiungibile.
Il fatto che muoiano tantissimi civili (anzi, sempre più civili: nei quattro anni della prima guerra mondiale la percentuale dei civili sul totale dei morti fu del 16%; nei primi quattro anni dopo l’occupazione dell’Iraq nel 2003 fu di quasi il 90%) è una delle ragioni, forse la più banale ed evidente, per cui, vittoria o no, non bisogna fare le guerre. Ed è dunque lecito chiedersi che cosa voglia dire, in una guerra che nei mesi si è fatta sempre più aspra e distruttiva, la parola vittoria. Se la vittoria sia da perseguire a prescindere dal prezzo pagato. E che cosa voglia dire “pace giusta”, soprattutto se la pace giusta presuppone la resa totale di un Paese come la Russia, senza che esista alcuna prova concreta e misurabile del fatto che si tratti di un presupposto realistico e realizzabile. Per me l’unica pace giusta è quella possibile. La pace impossibile (per essere espliciti, credo sia impossibile che la Russia si ritiri entro i confini del 1991, come chiede Zelensky, se non nel caso di quella famosa resa totale russa che non pare proprio alle viste) non è pace, non è niente.
Lettera da Mosca