Il rapporto fra identità digitale e nuove forme di attivismo, a partire da “La vita segreta” di Andrew O’Hagan
di Giovanni Bitetto - 09/12/2017
Fonte: Indiscreto
L’ossessione per l’auto-rappresentazione è uno dei tratti fondamentali della nostra epoca, complice la vetrina perenne di cui ci serviamo in quanto fruitori dei social network. A questa dinamica non sfuggono neanche le celebrità: per affermarsi all’interno della società occorre saper comunicare la versione di sé più appropriata. Il rischio è quello di perdere la propria natura, costringerla in una forma che non ci appartiene, e dimenticare ciò che siamo al di fuori della nostra rappresentazione. “Al giorno d’oggi bisogna giudicare la politica con il metro della politica, ma con quello dello spettacolo” ammoniva Paul Auster, e se la politica istituzionale è diventata spettacolo, cosa vieta alle forze che vi si oppongono di agire nel medesimo campo?
Il rapporto fra identità digitale e nuove forme di attivismo è il tema esplorato da Andrew O’Hagan ne “La vita segreta”, raccolta edita da Adelphi che riunisce tre pezzi di non-fiction dello scrittore scozzese.
Nel primo O’Hagan abbozza un ritratto di Julian Assange nel periodo in cui aveva avuto l’incarico – poi abortito – di redigerne l’autobiografia. Dai colloqui con Assange l’autore evince una personalità contraddittoria, estremamente narcisista, lunatica, molto attenta alla percezione del sé e alla propria fama di “martire digitale”, più che alle reali conseguenze del suo operato. Emblematici i commenti di Assange su Snowden: davanti a un incondizionato appoggio pubblico, in privato emergono frecciatine cariche di invidia, come se Assange sentisse minacciato il suo status di stella di prima grandezza del libertarismo digitale (“Snowden al massimo è l’hacker numero nove, io sono indubbiamente il numero tre”). L’autore pone l’accento sull’individualismo del fondatore di Wikileaks, ciò che l’ha spinto a inimicarsi i governi mondiali rientra nella megalomania di un uomo che è crollato sotto le proprie ambizioni, finendo schiavo di arrivismo e paranoia. Per O’Hagan, Assange “voleva insabbiare tutto ciò che lo riguardava, eccetto la fama”. La retorica del self-made man è la stessa del discorso capitalista, ma declinata nella forma dell’opposizione che vuole “guastare” il sistema attraverso azioni prive di un progetto politico a lungo raggio. Il personaggio di Assange tratteggiato dall’autore non è diverso da un moderno Stavrogin, il demone per eccellenza de I demoni di Fëdor Dostoevskij: ammantandosi di un’etica al di là del bene e del male l’hacker australiano ha costruito un polo di contropotere che non esce dalle logiche del sistema che cerca di combattere. Proprio come l’antieroe di Dostoevskij l’unico scopo delle sue azioni è apparire: se per Stavrogin l’occasione di autocelebrarsi è la confessione delle sue malefatte al vescovo Tichon, allo stesso modo convocare un giornalista per redigere la propria autobiografia è il modo in cui Assange crede di acquisire ulteriore fama. Dal racconto di O’Hagan si evincono tutti i dubbi di Assange, la fragilità dell’attivismo digitale, le preoccupazioni di un uomo ossessionato dall’immagine. Per questo l’autore è costretto a concludere: “Era venerdì e Julian non mi era mai sembrato così solo. Ridemmo un sacco poi lui sprofondò dentro se stesso. Si scolò la sua birra, poi prese la mia e si scolò pure quella. «Abbiamo in ballo cose di portata epocale» disse. Quindi aprì il suo laptop, e la luce blu dello schermo gli illuminò il volto. Si accorse a stento che io me ne andavo”.
Nel secondo reportage viene descritta in modo diaristico la messa in atto di un esperimento. Si tratta della costruzione dell’identità online di Ronald Pinn, un bambino defunto a cui O’Hagan decide di dare nuova vita immaginando un’esistenza parallela. La vita digitale di Pinn scorre senza particolari intoppi, tanto che le sue interazioni sembrano essere quelle di chiunque altro su social, siti o forum. L’intento è mettere in luce quali sono gli “algoritmi sociali” che sottendono alla costruzione e narrazione di un’identità nel cyberspazio. Indicare il ventaglio di interazioni, scelte, narrazioni che in realtà si riduce a un numero ristretto di possibilità all’interno dell’interfaccia, perché limitato dalle varie “linee narrative comportamentali” della piattaforma utilizzata (Facebook, Twitter, Instagram). Westworld non è ancora reale, ma la moltiplicazione di maschere all’interno dell’infocapitalismo è un dato da tenere in considerazione. Ronald Pinn si avventura nel dark-web con facilità impressionante, gli bastano pochi passaggi per impratichirsi con il commercio illegale. Si fa inviare partite di eroina all’indirizzo di una casa vuota: la transazione avviene regolarmente, la merce recapitata senza ritardi. Dominare l’algoritmo significa poter mistificare, controllare, occultare, il sapere strumentale risulta essere l’unico spendibile all’interno della presunta democrazia digitale. I confini del web si espandono nel reale, e così un falso Ronald Pinn può compiere azioni che hanno ricaduta nel mondo materiale.
Il cortocircuito fra reale e fittizio ha condizionato irrimediabilmente il nostro immaginario, nonché le nostre pratiche di approccio al reale. Gli strumenti per la costruzione della nostra identità immaginaria sono forniti da terzi, e noi non possiamo controllarli.
Nella terza parte si tirano le somme delle prime due: il tema dell’attivismo digitale si lega con la possibilità di vivere un’esistenza fittizia. A coniugare le due sfere un nuovo ritratto: la storia di Craig Steven Wright, colui che afferma di essere Satoshi Nakamoto, l’identità fittizia dietro cui si cela l’inventore dei bitcoin. Come nel caso di Assange si delinea una personalità narcisista, paranoide e soprattutto infantile. Così la passione per l’Oriente diviene il motore per la creazione di un avatar dal nome giapponese. Qui il cerchio tratteggiato dell’autore si chiude: l’identità fittizia di Wright è più vera dell’uomo in carne ossa, egli vive solo in quanto inventore di quell’avatar, a esso deve la sua notorietà mediatica. Benché – per il suo lavoro di hacker – sia congeniale a Wright l’anonimato, la minaccia di non essere più riconoscibile (Nakamoto era un nickname che di fatto veniva usato anche da altri hacker) lo spinge a uscire allo scoperto. Dichiarare pubblicamente di essere l’inventore dei bitcoin è un modo per celebrare il proprio operato, eppure è una mossa masochista che ha creato non pochi problemi a Wright. L’affermazione di sé vale un comportamento da Erostrato del mondo digitale.
Possiamo trarre alcune conclusioni dal discorso di O’Hagan. Innanzitutto si profila un problema cognitivo e metodologico insito nella contemporaneità: il cortocircuito fra reale e fittizio ha condizionato irrimediabilmente il nostro immaginario, nonché le nostre pratiche di approccio al reale. Gli strumenti per la costruzione della nostra identità immaginaria sono forniti da terzi, e noi non possiamo controllarli in maniera verticale. Sono aziende dall’influenza globale a governare le pratiche di interazione, gli “algoritmi” che in sostanza si pongono come nuove norme sociali all’interno del contesto dei social, dei forum, delle piattaforme attraverso cui vive, si alimenta e si espande l’infocapitalismo. Dunque se la piattaforma condiziona le categorie cognitive della vita digitale, occorre chiedersi che tipo di individui vengono generati da queste interazioni. Allo stesso tempo sono mutati i valori contaminati dalla dall’infosfera sempre più pervasiva. Attraverso i ritratti di Assange e Wright l’autore scozzese indica condotte morali scivolose: i valori del libertarismo digitale ricalcano – invertendone di segno – quelli del liberismo che gli attivisti tentano di combattere. Il narcisismo e l’approccio paranoide alla realtà sono risposte deviate – quasi patologiche – al discorso dominante. Il libertarismo professato da Assange e Wright ricalca l’approccio anarcocapitalista di molte multinazionali: agire per massimizzare i profitti nel breve periodo equivale – per tempistiche – a compiere azioni di disturbo e aspettare le conseguenze. In entrambi i casi si cerca un ritorno immediato, senza preoccuparsi della strategia a lungo termine. L’individualismo è l’asse portante delle dinamiche da “guastatori digitali”.
Ne “L’innominabile attuale” Roberto Calasso tenta una mappatura della contemporaneità. Per Calasso il vettore della Storia – che ha portato l’uomo a emanciparsi dalla condizione di natura – ha come effetto collaterale la distruzione della distanza fra uomo e mondo. La “disintermediazione” (questo il termine utilizzato) dei rapporti fra uomo e mondo porta l’essere umano ad abiurare la sfera del rituale, e con essa vanifica il senso del sacro, la presenza della divinità. La sfera del sacro in origine era legata alla pratica rituale: un contesto in cui l’uomo celebrava il mistero del proprio rapporto con il mondo. Ciò che l’uomo non conosceva o dominava era spiegato con la presenza della divinità, fra l’uomo e la divinità c’era una distanza, così come fra l’uomo e il mondo, perché egli non poteva dominare né l’una né l’altra. La stessa pratica del rituale si ripercuoteva sull’assetto sociale, perché il rapporto uomo-dio era ricalcato nel rapporto suddito-regnante. Con l’avvento della modernità, la possibilità dell’uomo di agire sul mondo – di dominarlo attraverso la tecnica – ha fatto sì che venisse meno il rituale. La religione ha perso la sua forza conoscitiva, il razionalismo ha soppiantato la pratica rituale, la dinamica sociale del rapporto suddito-regnante si è rovesciata nella democrazia. Fra l’uomo e il mondo così non c’è più distanza, perchè il primo può agire sul secondo. Il sacro però non è scomparso, perché il bisogno di trascendere – di trovare una “distanza” fra sé e l’altro – è proprio della natura dell’uomo. È per questo che la società ha divinizzato se stessa. Il bisogno di identificazione dell’uomo ricompare così nell’estremo materialismo della modernità:
“Si compie così una sorta di ritorno all’origine; ogni società svincolata dalle osservanze devozionali è inizialmente un’entità anonima. Poi si identifica con certe forme di Stato radicate, in certi luoghi. Poi con sette interne a quegli Stati. Infine con immani imprese che raccolgono e governano dati.”
Calasso parla chiaramente delle multinazionali che amministrano il dominio del digitale, i cosiddetti GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple); se il nemico è la piattaforma, l’unica arma utilizzabile è rivolgere contro il potere le pratiche del potere stesso. Calasso poco più avanti continua:
“Che un certo potere sui dati venga usato per pilotare o scardinare l’evoluzione di un ordine è comunque indifferente in rapporto al controllo, che si misura soltanto sull’efficacia dell’azione. Se l’ordine stesso viene giudicato malvagio, il virus che lo neutralizza diventa l’arma dei buoni. E potrà ugualmente fare capo a un nome o un’entità anonima.”
Il contropotere diventa l’altra faccia del potere, la negazione del dominio si trasforma in dominio di qualcun altro. L’orizzontalità delle operazioni di attivismo digitale rischia di trasformarsi in pratiche coercitive dall’effetto altrettanto dannoso. Calasso ne dà una definizione stringente:
“Ogni software richiede operazioni di codifica. E il mondo si sta assoggettando a una procedura di codifica universale e onnilaterale. Ogni codifica è una sostituzione. Ma anche la codifica può essere sostituita. E magari da un “codice maligno”, come si usa dire nel gergo informatico. È questo il “karman” della digitalità. Chi di sostituzione ferisce di sostituzione può facilmente perire.”
Se la società divinizza se stessa, cosa succede se lo spirito del tempo contemporaneo coincide con l’aforisma tatcheriano “la società non esiste: esistono individui, uomini, donne e famiglie”? A essere divinizzato è l’uomo, il singolo individuo; forse è questo il senso dell’Antropocene.
Eppure l’uomo da solo è impotente, non può opporsi a un potere che ha creato ma in cui non si identifica. Sembra che O’Hagan indichi nell’attivismo digitale di Assange e Wright una forma degenerata di volontà di potenza. L’attivismo di tutti i tipi – digitale, politico, sociale – dovrebbe configurarsi come una pratica quotidiana che ci liberi dall’alienazione. Ma occorre riflettere sui paradigmi che adottiamo per leggere il mondo, sui rischi che alcune letture comportano, e cercare – ponendosi le domande giuste – di arrivare, se non a risposte soddisfacenti, almeno a imboccare strade non ancora battute.