Il ritorno della physis
di Giovanni Sessa - 05/08/2022
Fonte: Heliopolis Edizioni
Il fallimento delle filosofie della storia, ha spinto, in particolare dagli anni Sessanta del secolo scorso, molti pensatori a guardare con maggiore interesse alla realtà della natura. Questo ritorno alla physis è stato, di certo, favorito dal pieno dispiegarsi del dissesto ambientale. Lynn White individuò, in quel frangente, nell’immagine di Adamo signore e dominatore, il prototipo dell’uomo che sfrutta la terra. Al contrario, James Barr ritenne che i presupposti dell’antropocentrismo prometeico, fossero impliciti nel razionalismo greco, fatto proprio dalle chiese cristiane e mostratosi, in tutta la sua distruttiva potenza, nella modernità. Tale fase storica è centrata sull’antropocentrismo e sul dualismo uomo-natura, sul mito della crescita infinita, sull’idea di temporalità progressiva, sulla riduzione della physis a mera quantità. In un volume interessante, che si deve a tre accademici, Marcello Ghilardi, Giangiorgio Pasqualotto e Paolo Vidali, L’idea di natura tra Oriente e Occidente, nelle librerie per Scholé (pp. 200, euro 16,00), la natura non viene letta alla luce delle nozioni di ente e di sostanza, ma di relazione. A dire dei tre autori, l’idea di natura: «...va discussa e ridisegnata nel dialogo con altri modi di significazione […] non per scadere in forme pigre di relativismo culturale, bensì per attivare le potenzialità proprie di culture e tradizioni differenti» (p. 8).
Il testo è articolato in tre capitoli. Nel primo, Vidali presenta lo sviluppo storico dell’idea di natura in Occidente, nel secondo Ghilardi la discute alla luce della tradizione sino-giapponese mentre, nel terzo, Pasqualotto si occupa di tale idea nel Buddhismo. Vidali ricorda che la physis greca: «non nasce, non si produce e soprattutto non si crea: essa persiste da sempre, come materia animata e vivente» (p. 12). L’arché è, a un tempo, origine, sostanza e fine. È, in una parola kosmos, ordine che subentra al Caos primigenio (Esiodo). In Platone, l’anima della physis, non è mero movimento, ma ragione attiva. Nel Medioevo la natura affianca i testi sacri: in essa Dio parla: «La verità si offre all’uomo “per seculum et in aenigmate”, come in uno specchio e confusamente» (p. 17). La realtà cui tendere è Dio, la natura è, pertanto, svalutata: «L’uomo è il vertice della creazione, ma non è il centro del mondo» (p. 18). La carne lo limita. L’analogia, nell’indagine della natura, lascia presto spazio alla ricerca delle cause. Con il “rasoio di Ockham”, fu aperta la strada alla ricerca empirica e alla conoscenza scientifica.
La natura, da allora, sarà interpretata come macchina, le cui leggi sono comprensibili (Galilei) solo in termini matematico-geometrici. Con Cartesio verrà introdotto il dualismo di res cogitans e res extensa: la natura è ormai ridotta a quantità, sfruttabile a vantaggio dall’uomo. Newton porterà alle estreme conseguenze tale visione mentre, durante il romanticismo, riemergeranno esegesi qualitative e olistiche della natura in Goethe e Schelling. Le certezze scientiste saranno messe in crisi dalla teoria dei quanti e della relatività, che chiarirono come la natura non si comporti affatto in modo deterministico: «producendo effetti uguali in presenza di cause uguali» (p. 49). Dopo Einstein non è stato più possibile parlare di una realtà data a prescindere dal sistema di riferimento entro la quale essa viene descritta. Inoltre, di fronte agli esiti esiziali dell’Antropocene, sta emergendo la riscoperta di una visione della natura fondata sulla relazione. Essa era già presente in Platone. Questi aveva sostenuto che: «solo l’essere in relazione spiega che “cos’è” che appare» (p. 60). La relazione viene prima della sostanza, definisce gli enti, li separa e li unisce. Tutto esiste nella trama di relazioni: «ne deriva la necessità di pensare il reale non sulla base di oggetti, ma di sistemi, intrecciati e solo epistemicamente distinguibili» (p. 65).
È necessario pensare per sistemi complessi, superare la contrapposizione di soggetto e di oggetto. Nella physis tutto pensa, anche il mondo vegetale, sia pure in modalità diversa dalla nostra. La natura, in questa prospettiva, è un ecosistema integrato nel quale l’uomo, assieme alle altre specie è ospite, non padrone. A dire di Ghilardi, una non dissimile visione della relazione, emerge dalla concezione cinese della natura. Nel Taoismo, Cielo e Terra: «vanno intesi come le due estreme polarità tra le quali si svolge il “processo” cosmico» (p. 95). Il Tao è l’accadere del mondo, il suo fluire. La natura è essenzialmente spontaneità. In essa non vige alcun dualismo: corpo e anima sono stadi diversi della medesima dinamica energetica indotta dal soffio vitale, di cui ebbe contezza anche il pensiero giapponese, che ha un sviluppo ritmico centrato su yang e yin. I “Cinque Agenti” (gli elementi) sono legati da un rapporto di nascita e generazione: «ogni elemento è un processo, e in quanto tale è condizionante e condizionato» (p. 101). Tutto è in tutto, pur con diversi gradi di separazione. In Giappone la natura stessa è considerata: «sede del divino, e a esso si può avere accesso mediante una soglia, un limen, un confine da attraversare» (p. 108). La natura è: «ciò che si offre allo sguardo in quanto fenomeno dinamico» (p. 109).
Di essa viene colto il tratto effimero, transeunte nella: «struggente malinconia provata contemplando la bellezza dei fiori […] di ciliegio» (p. 111). Nello Zen si pensa che ogni realtà naturale possa divenire Buddha, il risveglio è, in nuce, in ogni cosa. Pittore autentico è colui che, nelle proprie opere, fa emergere il soffio vitale alitante negli enti. Così, l’essere umano è un essere-tra, un momento della relazione naturale. Pasqualotto sostiene che: «L’idea di una interconnessione universale […] è presente in forma poetica nell’Avatamsaka sūtra, un fondamentale testo del Buddhismo Mahāyāna» (pp. 139-140). Ogni fenomeno, oltre che essere se stesso, è il riflesso di tutti gli altri. Nessuna realtà è: «entità autonoma, isolata, indipendente […] Ciò […] significa che ogni realtà esiste in quanto costituita di altre realtà» (p. 143). Il fiore sbocciato è solo il momento di un processo che ha in sé gli stadi precedenti e futuri. Ogni cosa: «è il risultato dell’intreccio dei fili che la costituiscono» (p. 147).
Tale concezione, nella contemporaneità, è stata ripresa dal monaco vietnamita Thìch Nhat Hanh. Se tutti gli esseri sono interconnessi e, oltre ciò, sofferenti, è necessario praticare benevolenza e compassione. Per questo: «L’ecosofia va vista in un orizzonte che eccede quello dell’ecologia […] richiede una saggezza ulteriore rispetto alle conoscenze scientifiche» (p. 173). L’incontro con la sofia orientale può forse, al di là di ogni relativismo, permetterci il recupero del sapere obliato dell’antica Europa.