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Il ruggito dei topi

di Enrico Tomaselli - 19/03/2025

Il ruggito dei topi

Fonte: Giubbe rosse

Frustrazione e debolezza, essenzialmente c'è questo dietro la ripresa della guerra in Medio Oriente. L'attacco statunitense contro lo Yemen, totalmente a freddo (anche se era stato preannunciato il blocco delle navi collegate ad Israele, non c'era stato ancora nulla di fatto), è chiaramente un messaggio diretto all'Iran, che nella sua logica semplicistica Trump considera il mandante di Ansarullah.
Tutto nasce da un doppio errore di valutazione da parte statunitense. Quello di poter imporre a Teheran un accordo non solo sul nucleare ma anche sugli armamenti strategici (missili ipersonici), e quello di poter ottenere questo risultato attraverso una diplomazia discreta ed una serie di minacce nerborute. A tal fine, Washington ha chiesto a Mosca di fare da mediatrice con la Repubblica Islamica, ed ha inviato una lettera attraverso canali displomatici terzi. Ma ha anche accompagnato questi passi con la solita minaccia (pubblica) di inasprimento delle sanzioni e quant'altro. Il risultato è stato che l'Iran non solo ha respinto la lettera al mittente, ma lo ha fatto con un aperto tono di sfida, sostanzialmente dichiarandosi pronto ad affrontare le minacciate conseguenze, quali che fossero, ed a rispondere adeguatamente.
Ovviamente questo è suonato come uno schiaffo, agli occhi di Trump, che insiste nel portare avanti la sua politica internazionale facendo continuamente ricorso alle minacce, cosa che può andar bene forse con Panama, ma di certo non con una media potenza regionale, che tiene testa da 40 anni agli Stati Uniti. Da qui la decisione di colpire lo Yemen, indicandolo esplicitamente come un proxy iraniano, e addirittura aggiungendo l'ulteriore minaccia che qualsiasi reazione yemenita sarà considerata come messa in atto dall'Iran stesso. In parole povere, per la frustrazione di non essere riuscito a piegare Teheran ai suoi voleri, ha fatto la mossa più stupida che si potesse fare. Perché non solo la reazione yemenita era largamente prevedibile (quattro attacchi missilistici contro la squadra navale americana del Mar Rosso in 72h, ed un attacco missilistico contro Israele), ma questa escalation non porterà da nessuna parte, né tantomeno l'Iran al tavolo di trattativa. Come diceva Einstein, “follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati differenti”. La coalizione a guida USA ha infatti cercato di fermare le forze armate yemenite per molti mesi, senza minimamente riuscirvi, e riportando vari danni alle navi impiegate nel mar Rosso. E Sana'a ha vinto una guerra, durata anni, contro l'Arabia Saudita ed altri paesi del Golfo, largamente supportati proprio dagli stati Uniti. Quindi minacciare adesso "l'inferno" comincia a somigliare al fruscio di un disco rotto.
Ugualmente, la decisione di Netanyahu - col placet di Trump, di ricominciare i bombardamenti su Gaza (siamo già a quasi 500 morti) nasce da un'identica frustrazione. Tel Aviv, infatti, aveva accettato un accordo di cessate il fuoco, perché gli USA avevano insistito, e perché l'esercito e la società israeliana ne avevano bisogno. L'idea era comunque quella di fare come usa nei paesi occidentali: firmare un accordo già sapendo che non lo si rispetterà, e cominciare dal giorno dopo a cercare di striracchiarlo a proprio comodo. Ma, in particolare, la gestione spettacolare che la Resistenza ha fatto delle operazioni di scambio dei prigionieri, ha minato fortemente la narrazione ufficiale del governo, secondo cui i 15 mesi di guerra avevano quasi annientato le formazioni combattenti palestinesi. E questo ha ovviamente innervosito molto i vertici israeliani. Che hanno quindi iniziato a violare gli accordi, nella convinzione di poter forzare la mano alla Resistenza, ritenendo che questa fosse in una condizione tale da accettare comunque nuove regole. Avendo invece incontrato l'indisponibilità a cedere - ed in presenza di condizioni di crescente precarietà per il governo - ecco che Netanyahu si rigioca la carta della guerra. Ma ovviamente anche qui vale quanto detto prima, riguardo al fare sempre la stessa cosa… Israele, infatti, ha bombardato Gaza per oltre 450 giorni, l'ha invasa da nord a sud, per ritrovarsi alla fine esausta e senza aver rimosso il potere politico-militare di Hamas e delle altre organizzazioni palestinesi. Ed ora ripropone lo stesso schema. E infatti ripartono i missili dallo Yemen, qualsiasi ipotesi di appeasement con i paesi arabi - Sauditi in testa - si allontana nuovamente, e tutto il disegno geopolitico statunitense (l'alleato indispensabile) ne riceve uno stop, che rischia di essere niente affatto breve. Oltretutto, come sempre accade in ogni escalation che non nasce da un calibrato calcolo politico e militare, gli eventi rischiano di avvitarsi in una spirale incalcolata. Ad esempio, dopo che Trump ha dichiarato che qualsiasi missile sparato dagli yemeniti sarebbe stato considerato come se l'avesse lanciato l'Iran, Ansarullah ha attaccato ben due volte la USS Harry Truman; e questo mette gli USA nella posizione o di smentire quanto dichiarato dal presidente, o di essere costretti ad attaccare l'Iran, innescando un conflitto che forse farà felici i fanatici israeliani ma di sicuro va contro i piani degli Stati Uniti.
Il ruggito del topo non spaventa il leone, ma rischia di alimentare il caos.