Il saggio e l’idiota
di Livio Cadè - 18/04/2022
Fonte: EreticaMente
Da tempo le nostra facoltà intellettuali vengono risucchiate nel gorgo di dibattiti sempre uguali. Ogni giorno si discute ad nauseam dei soliti argomenti: contagi, vaccini e salvacondotti sanitari, oppure guerra, missili e morti ammazzati. Sembra non si debba e non si possa parlar d’altro. Il pensiero cade in un baratro di opprimente monotonia, estenuato da un’informazione monocorde, stordito dal contrapporsi di dati, fatti, interpretazioni.
Questo rende difficile dedicarsi ad argomenti più essenziali. Dovremmo almeno, mentre guardiamo con un occhio alla cronaca, volgere l’altro a ciò che la supera, a ciò che resta quando la commedia è finita. Tale strabismo ci difenderebbe dalle pressioni inesorabili della realtà storica e scientifica, dell’economia, della politica ecc. Bisogna dividere lo sguardo tra questo mondo e quello più ampio dello spirito che lo contiene. Fissare, per così dire, la luna dei valori eterni e immutabili che si riflette nella palude delle polemiche e delle opinioni contingenti, lontana dai miasmi dell’attualità.
Si dirà che è nostro dovere occuparci di ciò che accade, analizzare questa impellente, dolorosa e ripugnante realtà che ci assedia da ogni lato. Sembra ai più una colpevole evasione sottrarsi alle discussioni sulla salute pubblica, la geopolitica o la finanza internazionale, come un disertare, un imboscarsi. Qui però si dimentica che v’è una radicale differenza tra la diserzione e l’evasione. Quando si è in guerra si deve combattere, e la vita è fatta di battaglie, ma se veniamo fatti prigionieri è nostro diritto tentare la fuga.
Tuttavia, nel nostro caso, evadere è quasi impossibile. L’orizzonte è occupato dalle nubi di questioni contingenti. Una fitta cortina mediatica inibisce ogni capacità di guardare le cose sub specie aeternitatis. Una mosca nella tela del ragno ha le stesse probabilità di liberarsi che ha la nostra coscienza impigliata nelle reti dell’informazione. La differenza è che noi veniamo presi col nostro consenso. Sfortunatamente, infatti, ci piace esser informati. Pensiamo sia importante sapere ed esprimere il nostro parere su ogni cosa.
È un triste carcere, in realtà, il sapere. Un po’ come il denaro. Pare siamo noi a possederlo, mentre ne siamo dominati. L’amore del sapere, come quello della ricchezza, è un male antico. Non serve conoscere Kant o Platone per soffrirne, basta osservare il mondo e giudicarlo. Lo facciamo continuamente. Etica, estetica, metafisica, ci scorrono nel sangue, come un peccato originale.
Rozzi o raffinati, siamo tutti filosofi. Questo purtroppo non vuol dire esser saggi. Filosofia e saggezza nascono da un’unica radice, e forse un tempo coincidevano, ma presto si sono divise. Da allora, la saggezza implica sempre l’esser filosofi, mentre il contrario è molto raro. Il saggio conserva in sé l’amore del sapere, ma ne fa un’arte per il perfezionamento dell’anima. In lui c’è in fondo un distacco anche dal sapere. Il filosofo soffre invece di un attaccamento morboso alle idee.
La saggezza è un sapere integro, coestensivo con la vita, che concilia in sé elementi diversi di sensibilità, esperienza, intuizione, istinto ecc. La possiamo trovare in persone illetterate, nelle conoscenze popolari, nei proverbi, nelle fiabe. La filosofia ha operato invece una progressiva frammentazione del pensiero. Ciò ha causato un restringimento di prospettive, l’incapacità di cogliere l’uomo nella sua interezza e nell’ampiezza delle sue relazioni col cosmo.
Il filosofo è ciò che resta del saggio quando questi si dimentica della vita e si chiude nel castello dei suoi pensieri, dove si dedica al progresso del sapere. Così, tipico della filosofia è avere una storia, un’evoluzione. Ogni filosofo tende a superare i suoi predecessori, a perfezionarli o a contraddirli, in una continua competizione. La sua attività speculativa diventa un narcisistico rispecchiarsi nelle proprie immagini.
La saggezza ha invece natura atemporale, è un patrimonio tradizionale che non evolve né progredisce e non ha natura individualistica. Si ricordano i nomi dei filosofi, non quelli dei saggi. La saggezza si nasconde, è umile. Il filosofo ama invece mostrarsi, identificarsi con l’eroe di antiche epopee, colui che si incammina verso territori ignoti, supera i confini, affronta difficoltà d’ogni tipo, per trovare un tesoro prezioso – la ‘verità’ – da offrire agli uomini.
Nel suo peregrinare alla ricerca dell’Oggetto, il filosofo si allontana da sé stesso, si perde in astrazioni, in avviluppi linguistici. Finisce col parlare di cose che non hanno un rapporto profondo con il vissuto. La saggezza implica invece l’aderenza costante del pensiero alla prassi e al sentimento. Inoltre, mentre la filosofia è una ricerca di sapere, il saggio non può cercare la saggezza. È qualcosa che trova involontariamente, o da cui viene trovato. Perciò si può fare un manuale o un corso di filosofia ma non di saggezza.
Per altro, anche il filosofo rischia oggi l’estinzione. Al suo posto troviamo il filosofologo, animale accademico che trova un senso alla propria vita nella transumanza tra cattedre universitarie, dibattiti televisivi e qualche lectio magistralis, convegni per turisti svagati cui mostra come fare l’autopsia delle filosofie passate, come prelevarne i tessuti, esaminarli, e capire di che sono morte. Animale prolifico e in espansione è anche il misticologo. La sua occupazione è ridurre le esperienze mistiche a conversazioni da salotto, con un’erudizione che ha qualcosa di assurdo e comico, come una storia della musica per sordi o un manuale di sessuologia scritto da bambini.
Ci crediamo sapienti ma siamo naufraghi nell’oceano del sapere, aggrappati ai relitti di una civiltà impoverita, popolata per lo più di cretini informati e acculturati per cui la scienza è un valido sostituto della saggezza e, insieme, ciò che la rende superflua. Cretini non perché non sanno e non capiscono, ma perché credono di sapere e capire. Pensano di conoscere la storia e la natura, si fidano del sapere altrui e dei titoli che lo certificano, vivono di credenze e supposizioni. A ben vedere, dunque, la nostra epoca è dominata più d’ogni altra dalla fede – anche se non è più fede in Dio ma in qualche suo surrogato. Così, la nostra cultura è sempre più un mare magnum di opinioni senza fondamento.
In apparenza, io posso sapere molte cose: a che ora parte un treno, cosa mi rende felice, che 2+2=4, che il fuoco scotta, che molti politici sono corrotti ecc. Ho dentro di me un immenso repertorio di saperi, astratti o concreti, dedotti razionalmente o tratti dall’esperienza. La mia vita ne è piena. Potrei anche teoricamente dubitare di tutto quello che so, ma in pratica, per non cadere nel vuoto, devo poggiare su qualche certezza. Se dunque voglio capire su cosa mi reggo, devo rassicurare la mia mente che le lascerò le sue convinzioni, cui è ansiosamente aggrappata, e continuare il dialogo con la mia anima, la quale non è spaventata dal distacco e dalla perdita di conoscenza, anzi ne è segretamente attratta. E le chiedo: cos’è questo sapere per cui tanto mi affanno?
Credo sia la sensazione di vedere chiaramente qualcosa. “Io so” indica il possesso di una verità cui pervengo più o meno così: data un’incognita x – un fatto, un oggetto ecc. – trovo un concetto y adeguato. Una volta stabilita questa adaequatio, mi sembra lecito dire che ‘so’, cioè che x ora mi è noto. In realtà, ho semplicemente sostituito l’oggetto x con un concetto y, e questo concetto è la nuova incognita. La fine del processo mi riporta all’inizio. Il sapere è quindi un circolo vizioso.
In questo senso vorrei ricordare uno tra i passi più oscuri del Tao Te Ching, relativo appunto al sapere. Aderendo al testo parola per parola se ne potrebbe tentare una trasposizione in latino: scire non scire summum / non scire scire morbum. Una versione italiana rigidamente letterale sarebbe: «sapere non sapere sommo / non sapere sapere malattia» (la parola che Laozi usa – zhi – è simile all’inglese to know).
Espressa in questa forma appare una formula magica più che un’affermazione sensata. La traduzione più comune è la seguente: “Sapere di non sapere è bene; non sapere e pensare di sapere è male”. Questo ricorda una sentenza di Confucio: “considerare il sapere come sapere, e considerare il non sapere come non sapere, ecco che cos’è il sapere”.
L’analogia è però sospetta, essendo la filosofia taoista di solito antitetica al pensiero confuciano. Lo stile paradossale di Laozi ne esce un po’ banalizzato. È probabile che i traduttori occidentali si siano fatti influenzare dal socratico “so di non sapere”, familiare alle nostre orecchie occidentali. Ma anche molti studiosi cinesi di area confuciana optano per questa interpretazione.
Per Confucio il nome è l’appropriazione dell’oggetto o del fatto reale, attraverso l’attività razionale e l’articolazione di parole specifiche. Questi ‘nomi’ rappresentano il nostro sapere convenzionale. Non sapere significa dunque non trovare un termine adeguato per x. Il risultato è che spesso, nelle nostre discussioni, dimentichiamo che stiamo solo parlando di parole. Siamo anestetizzati dai nostri concetti. Scambiamo il sapere con i ‘nomi’, la realtà con ombre di altre ombre. Per Laozi, all’opposto, ogni nome è inadeguato. L’essenza della Via si rivela non al sapiente ma al neonato che ancora non sa sorridere, nella “semplicità del senza nome”.
Se ci fermiamo all’interpretazione razionalistica di quel passo, possiamo vedervi la critica di una società che pensa di sapere e non sa, e in questo potremmo rispecchiarci. Infatti, l’uomo moderno considera sapere quello che non è sapere ma solo un pletorico flusso di informazioni. Questa è la sua malattia: non scire scire morbum. La nostra società è arrivata a un patologico punto d’astrazione, riducendo il sapere al possesso di una nozione.
Prevale in noi una ‘conoscenza nozionale’, antitesi o fantasma di un conoscere reale. E vivendo in un mondo dominato dalla comunicazione di massa, il nostro sapere si esaurisce in una struttura di ‘nozioni consensuali’ che è puro conformismo intellettuale. O in una dittatura del sapere, monopolio della verità di tipo politico e sociale, dove l’illusione del sapere diviene strumento di governo e di controllo sottile della gente.
Ma l’aforisma di Laozi ha portata molto più ampia e metafisica. Non è una semplice denuncia del nostro limite intellettuale o di pressioni culturali, ma indica in un sapere negativo l’unico sapere reale. Perciò, io tradurrei così: “il sapere che è non sapere è sublime / il non sapere che è sapere è una malattia”. Certo può sembrare assurdo dire: A=B è un bene / B=A è un male. Bisogna accettare qui quel lessico mistico che si esprime con ossimori e cenni, e non si cura della logica.
Questo paradossale ‘sapere che è non sapere’ ha forse qualche analogia con la dotta ignoranza di Cusano, o la teologia negativa di Dionigi, il suo calarsi nella Tenebra di “Colui che trascende ogni conoscenza”. Sarebbe fuorviante però cercarvi la consapevolezza di un’impotenza relativa – ossia dell’impossibilita di conoscere Dio o dell’avere una comprensione totale della realtà – concedendo comunque all’uomo una conoscenza limitata.
Su questa concessione, apparentemente umile, si sostiene in realtà la nostra presunzione di sapere. Infatti, se Dio, come confine inattingibile al sapere umano, è posto a distanza infinita, il sapere dell’uomo può estendersi senza limiti, senza mai colmare la misura. In una società legata all’idea baconiana che sapere è potere, cioè dominio sulla natura, si afferma così l’idea di un progresso che, attraverso un aumento interminabile di conoscenza, consegna all’uomo un potere illimitato.
Laozi rifiuta questa idea. Per lui, solo nell’assoluta incomprensione l’uomo comprende e sa. Il sapere è infatti un tentativo di descrivere coerentemente le relazioni tra le cose. Questo lo rende applicabile a un’illusoria molteplicità, ma non alla Realtà, al Tao, che è Uno. Il sapere non può coesistere con la natura abissale e semplice dell’essere. Ogni comprensione finita è quindi una negazione della realtà, un’affermazione del nulla.
Sapere positivamente ‘qualcosa’ ci condanna a quel patologico “non sapere che è sapere” su cui si basano tutti i nostri sistemi di informazione e di conoscenza. Solo nel momento in cui il sapere ci lascia si accede al vero sapere. A quel punto l’uomo non può avocare a sé alcun potere. La natura non è né dominata né capita, ma accettata e rispettata. “Respingi il sapere” e “il modo della Via è la debolezza” sono dunque in Laozi affermazioni complementari.
Ogni idea è ostacolo alla vera conoscenza. I fatti percepiti sono un velo steso sulla realtà, i pensieri sono un velo sui fatti, le parole a loro volta velano i pensieri, e l’ipocrisia vela le parole. E questo stratificato velame vien chiamato ‘sapere’. Dobbiamo dunque compiere il percorso inverso: liberarci della nostra ipocrisia, superare il formalismo delle parole, degli schemi concettuali e anche della nostra percezione dei fatti. Stabilirci in una non-conoscenza dove l’anima riposi all’ombra del silenzio.
Questo vuoto inconoscibile è l’origine nella quale tutte le cose hanno nascita e morte – i fiori, gli animali, le stelle ecc. Cosa dobbiamo sapere per essere? Siamo, e questa è l’unica certezza. Essere e sapere coincidono. È la vita che sa per noi. Ma il destino, la natura, non hanno alcun sapere nel senso che noi diamo comunemente alla parola. La stessa onniscienza di Dio non è un sapere, come da un raggio infinito non si ricava alcun cerchio. Così, la perfetta conoscenza è inconscia.
Il vero saggio coincide così con l’idiota, che nulla sa. Non è il puro folle, alla Parsifal, “sapiente per pietà”, chiamato a redimerci. Né un principe Myškin, che opponga alla sapienza cinica del mondo l’idiozia dell’amare il prossimo o della bellezza. A differenza di Socrate o dell’idiota di Cusano, che sanno di non sapere, non sa neppure questo. Non si fa un’idea dell’uomo, di Dio, del bene o del male, del sapere o dell’ignorare ecc. Non ricopre la propria nudità interiore con concetti e parole. E neppure è consapevole della propria nudità.
Può sembrare che un tale discorso si auto-contraddica, ovvero che proponga a sua volta una teoria. Questa obiezione è però un sofisma. Come se a un tale che dice: “vi prego, stiamo in silenzio” si rimproverasse d’aver parlato. Se le parole possono indurre l’assenza di parole, una teoria può portarci ad abbandonare tutte le teorie.
L’idiozia svuota il sapere della sua natura conflittuale, auto-affermativa. È una contemplazione delle cose, abbandono a ciò che è, senza volerlo capire o correggere. Pone fine alle nostre ricerche, non perché implichi un’appropriazione definitiva dell’oggetto cercato ma perché ce ne libera. È un deporre i nostri fardelli, come tornando a casa dopo un viaggio. La chiave con cui evadere dalla prigione del sapere, eludendo la sorveglianza degli insonni custodi del ‘vero’.
Essere idioti significa essere liberi, sfuggire all’arroganza dei presunti sapienti, di chi ci vuole imporre verità ‘autorevoli’. «Credere nell’autorità ti fa simile a un cavallo, libero per natura, ma trattenuto con arte per la cavezza alla mangiatoia, dove si ciba solo di ciò che gli vien dato», dice Cusano. L’idiota è il cavallo che torna a girovagare liberamente. Non si fa “guidare e ingannare dall’autorità”. Al contrario del cretino informato, che crede di sapere, e non osa uscire dai recinti in cui l’ha legato chi oggi pensa e decide al posto suo.
Purtroppo, si può cercare d’essere più sapienti, ma non più saggi o più idioti. Dimorare stabilmente nell’idiozia è un dono raro. Ma talvolta ci è concesso dimenticare ciò che sappiamo, anche se per poco. In questo senso, l’idiozia ci è necessaria come il sonno. È un antinfiammatorio dello spirito, sgonfia gli edemi dell’intelligenza, cura l’intossicazione da sapere.
Così, quando la mia coscienza è minacciata da un potere che vuole convincermi, informarmi, rinchiudermi tra i muri dei suoi dogmi, tra certezze false e meschine, io anelo ai verdi pascoli dell’idiozia, dove scorre l’acqua pura del non sapere. Un luogo dove possa stendere la mia anima, senza domande, senza perché, e rimirare il cielo, scoprendo che “è beato chi ha raggiunto l’infinita ignoranza”.