Il salario non è una "variabile indipendente"
di Mario Bozzi Sentieri - 28/12/2020
Fonte: Mario Bozzi Sentieri
Secondo il recente report "La questione salariale in Italia Un confronto con le maggiori economie dell'Eurozona", diffuso dalla Fondazione Di Vittorio, il divario delle retribuzioni dei lavoratori italiani rispetto a quelle dei lavoratori degli altri Paesi europei tra il 2007 e il 2019 si è allargato. Nel periodo considerato i salari tedeschi sono cresciuti di 5.430 euro (pari a un +14,7%) mentre quelli italiani sono diminuiti di 596 euro ( -1,9%). Negli ultimi anni Paesi Bassi e Belgio, con i salari medi più alti, hanno registrato comunque una crescita; Germania e Francia, con salari medi a un livello intermedio tra i sei Paesi, hanno registrato l’incremento salariale più alto; infine Italia e Spagna, con i salari medi più bassi, si caratterizzano entrambe per una stagnazione di lungo periodo. La leva fiscale non migliora le cose. I dati mostrano come l’Italia nel 2019 abbia registrato il maggiore cuneo fiscale (39,2%) nel caso delle coppie monoreddito con due figli e un salario equivalente a quello medio stimato dall’Ocse. Il salario familiare netto italiano vale una quota che oscilla tra il 60 e il 70% di quello tedesco, anche a causa di un sistema di tassazione che in Italia penalizza i salari familiari lordi più bassi. E non è che in Italia si guadagni meno perché si lavori meno, al contrario. L'Italia - si legge nel report - ha un alto numero medio di ore lavorate all'anno per dipendente e allo stesso tempo la minor quota salari in percentuale del Pil. La causa è che nel nostro Paese si lavora di più, a causa della scarsa capacità tecnologica e ai bassi investimenti in innovazione del nostro sistema economico, ma si viene retribuiti molto meno.
La questione del salario a questo punto assume un carattere “strutturale”: tocca i livelli contrattuali, riguarda il sistema fiscale, richiama i ritardi tecnologici delle nostre aziende e della loro capacità innovativa.
Il divario con gli altri Paesi europei non è peraltro giustificato dalla generale tenuta del nostro sistema produttivo. Ancora a marzo 2020 il Centro Studi di ItalyPost delineava un quadro positivo delle prime mille aziende italiane, cresciute negli ultimi sei anni del 9,84%, passando complessivamente da un fatturato di 44,7 mld nel 2012 a 78,6 mld nel 2018.
L’impressione, di fronte a queste cifre, è che l’idea del salario come “variabile indipendente”, tipica della fine degli Anni Sessanta e del cosiddetto “autunno caldo”, sia oggi cavalcata dal mondo imprenditoriale, ben poco attento a riconoscere ai lavoratori i giusti aumenti salariali, come evidentemente risulta in altri Paesi.
In questo quadro, peraltro segnato da una significativa trasformazione tecnologica in divenire, non è velleitario ripensare il tema del salario alla radice, legandolo finalmente – in un’ ottica organicamente partecipativa – ai risultati d’impresa. La questione è formale e sostanziale.
Collegare la retribuzione ai risultati d’impresa significa instaurare un sistema collaborativo fra i dipendenti ed il management, avviando, nel contempo, usiamo le parole di Martin L. Weitzman (L’economia della partecipazione, Laterza 1986), “un vigoroso programma nazionale, che (…) punti sull’educazione e sull’informazione per infondere nel processo di contrattazione collettiva un senso di responsabilità sociale”.
Realizzare un sistema retributivo legato ai profitti, in un mix tra salario fisso e quota variabile, vuole però anche dire rendere i lavoratori partecipi dei risultati conseguiti (con evidenti ricadute sul salario) e nel contempo avviare, su base aziendale, quelle politiche “ridistributive” più volte annunciate, ma mai concretamente realizzate.
Dal mero livello salariale può partire un più organico processo partecipativo, collegato, nelle aziende, alla trasparenza informativa, alla codeterminazione e alla programmazione: un salto di qualità essenziale per rendere realmente efficienti le scelte aziendali, soggette alle nuove trasformazioni tecnologiche.