Il suicidio di Jürgen Habermas
di Paolo Becchi - 18/01/2024
Fonte: Paolo Becchi
La recente dichiarazione firmata, tra gli altri, da Jürgen Habermas, l’ultimo esponente della “Scuola di Francoforte”, rivendica, dopo le “atrocità” compiute da Hamas e la risposta israeliana, l’esistenza di alcuni “princìpi che non dovrebbero essere messi in discussione”, e che sarebbero “alla base di una solidarietà giustamente intesa con Israele e gli ebrei in Germania”. L’argomento è, in buona sostanza, il seguente: poiché scopo dell’azione di Hamas sarebbe quello di “eliminare la vita ebraica in generale”, criticare la reazione israeliana sarebbe di fatto impossibile senza ricadere, intenzionalmente o meno, in una posizione antisemita. Per questo la solidarietà a Israele e agli ebrei in Germania: perché – si finisce per suggerire – attaccare Israele è anche attaccare gli ebrei tedeschi, è attaccare gli ebrei in quanto tali. Un ragionamento che potrebbe fare, e ha pure fatto, un Robert Habeck, ma da un filosofo, e del calibro di Habermas, ci saremmo aspettati qualcosa di più. Ci permettiamo pertanto di fare alcune considerazioni critiche.
Accusare chiunque critichi Israele, chiunque sostenga le ragioni palestinesi, di antisemitismo, è un espediente che si è rivelato spesso retoricamente efficace, ma non per questo cessa di essere moralmente vergognoso. Lo aveva già osservato, molto meglio di quanto possa fare io, il filosofo, ebreo, Jacques Derrida, che aveva parlato in Quale domani? di una “trappola mortale”: “Non mi sembra giusto negare a qualcuno – me compreso – il diritto di criticare Israele o una determinata comunità ebraica con la scusa che ciò potrebbe assomigliare o risultare funzionale a una forma di antisemitismo”. E aggiungeva: “La cosa peggiore ai miei occhi, dal punto di vista in cui mi trovo, è l’appropriazione e soprattutto la strumentalizzazione della memoria storica. È perfettamente possibile e necessario, senza che ciò comporti la minima forma di antisemitismo, denunciare questa strumentalizzazione, così come il calcolo puramente strategico – politico o di altro genere – che consiste nel servirsi dell’olocausto, utilizzandolo per questo o quel fine”. Una lezione, direi, che Habermas dovrebbe conoscere, tanto più che egli era in dialogo filosofico con Derrida.
Non si tratta, allora, di negare che l’antisemitismo non possa essere ancora un problema, una piaga, attuale, né tantomeno ovviamente che esso vada tollerato. Ma bisogna essere abbastanza onesti e lucidi per assumersi la responsabilità che comporta accusare qualcuno di antisemitismo, e così privarlo della sua libertà di espressione e di critica. Non si può aver paura di criticare ogni posizione che Israele prende, e non si possono privare le persone del diritto di stare, se lo vogliono e lo ritengono giusto, dalla parte dei palestinesi. La persecuzione contro gli ebrei durante il nazionalsocialismo non era solo contro gli ebrei, ma contro quell’idea di umanità, di dignità umana, che era negata agli ebrei e che oggi come ieri andrebbe kantianamente difesa universalmente.
Habermas invece cade nella “trappola mortale”. Con il suo “principio di solidarietà”, che di fatto ha preso il posto del “principio dignità umana”, in questi ultimi anni Habermas ha finito per giustificare qualsiasi cosa: dalla guerra in Ucraina, e il necessario sostegno a Zelensky con il continuo invio di armi, alla lotta contro coloro che ritenevano illegittimi lockdown e vaccinazioni forzate. Putin è un criminale e chi protesta contro la politica del governo sulla pandemia è un negazionista e un complottista di estrema destra da mettere (quasi) fuori legge. A volte se la “solidarietà” non viene accettata dalla popolazione lo Stato, questa la conclusione di Habermas, la deve imporre. Arridateci Horkheimer e Adorno e la Dialettica dell’illuminismo!
Così muore, anzi è morta, la “Scuola di Francoforte”: dalla critica dell’esistente si passa alla sua incondizionata giustificazione. Ma come può Habermas ignorare che la reazione di Israele è al di là di ogni possibile “proporzionalità”? Al di là del possibile “intento genocidiario”, come può Habermas non vedere che Israele ha colto al balzo l’occasione per portare a compimento. La pulizia etnica della Palestina, per riprendere il titolo del libro dello storico israeliano Ilan Pappé, iniziata con la formazione dello Stato di Israele? Come può dimenticare che Noam Chomsky, un altro illustre ebreo, la vede allo stesso modo? Secondo i dati più recenti la guerra in corso è costata la vita a oltre 20 mila palestinesi, di cui circa il 70% erano donne e bambini. I morti per Israele sono circa 1200 di cui 31 bambini. Vogliamo negare la sproporzionalità di questi dati?
Non era Habermas sempre attento a distinguere il se dal come della guerra, insistendo per l’operatività di un principio di proporzionalità necessario a evitare sacrifici di civili? Non aveva scritto, nel caso della Guerra del Golfo, che non è mai possibile appoggiare un intervento militare che intraprenda bombardamenti indiscriminati e a tappeto? Non era Habermas il filosofo che pensava ad una “pace perpetua”, sul modello kantiano della libera unione tra gli Stati? Forse quella pace richiede prima, quale sua condizione, la giustificazione della violazione dei diritti umani nella Striscia di Gaza?