ADB : No, non credo. Ho fatto riferimento a Marco Aurelio perché il titolo del suo libro, Pensieri. A se stesso, corrispondeva esattamente a quello che volevo scrivere (un’opera che, all’inizio, non era necessariamente destinata alla pubblicazione), ma non si va oltre. Inoltre, il termine «stoicismo» ha due significati leggermente diversi. Dal punto di vista della storia della filosofia, lo stoicismo sviluppa un’etica della virtù che ha certamente i suoi meriti, ma che non condivido del tutto. C’è in particolare, nello stoicismo, una dimensione universalistica nel modo di concepire l’ordine naturale che mi è estranea. Lo stoicismo in senso comune ha assunto un significato più ampio: impersonalità attiva, indifferenza al dolore così come al piacere, l’idea che il primo dovere dell’uomo sia sradicare tutte le passioni dalla sua anima. Questa idea ha i suoi meriti, ma non mi si addice del tutto. Trovo ammirevole la storia di quel vecchio giapponese che ha appena saputo che suo figlio è morto in guerra e che, dopo qualche istante di silenzio impassibile, dice semplicemente: «Il fiore di ciliegio, quando cade a terra, non fa alcun rumore». La trovo ammirevole, ma sarei incapace di un simile comportamento. Credo che le passioni siano necessarie, anche e soprattutto quando possono essere dominate o sublimate. Per me l’importanza che attribuisco all’emozione è fondamentale. Probabilmente è il mio lato romantico! Detto questo, ammetto volentieri che anche la capacità di indifferenza può essere necessaria. Ma in tal senso si tratta di vedere le cose dall’alto, di analizzare e osservare sforzandosi di non farsi condizionare da ciò che si osserva. Se ti senti estraneo al mondo in cui vivi, devi saper acquisire tale indifferenza, altrimenti non puoi più vivere. Ma è indifferenza di metodo, niente di più. Forse dovremmo parlare qui di serenità, la famosa Gelegenheit di cui parla Heidegger, che è proprio uno dei segni della saggezza. Ma anche qui, non facciamoci illusioni. Uno degli uomini che ho conosciuto meglio nella mia vita, lo scrittore Louis Pauwels, ha scritto nel 1978 un bellissimo libro intitolato Guida alla serenità. Tuttavia, lui stesso era tutt’altro che sereno: era un uomo pieno di dubbi, abitato da ansia, lacerato da passioni contraddittorie. Il suo libro era un modo per esorcizzare la sua totale mancanza di serenità! Questo genere di cose non è raro. Pensiamo a Nietzsche, questo apologeta della «grande salute» che fu malato per gran parte della sua vita…
DL: «La volontà di potenza è la fantasia degli impotenti», scrivi (p. 128). Questo, invece, sa di stoicismo! Potresti spiegare brevemente cosa intendevi con questo?
ADB: E’ una reazione a un nietzscheismo ridotto a slogan. Quando Nietzsche parla della volontà di potenza – appunto della volontà per la potenza (Wille zum Macht) – parla di qualcosa di ben diverso da questa «potenza» di cui si riempie la bocca chi non attinge dalla sua lettura (e cerca solo) una somma di mantra per «mobilitarsi». Dire che la volontà di potenza è la fantasia degli impotenti è solo un altro modo per dire che essi rivendicano esattamente ciò che più gli manca. È un po’ come rendersi conto che gli omofobi sono quasi sempre omosessuali repressi.
Ma è anche un modo per ricordarci che la potenza, di cui non nego in molte circostanze la necessità, non è mai altro che un mezzo, e non un fine – ammesso naturalmente che sia distinta dall’energia o dalla semplice vitalità. La potenza può essere solo un mezzo perché non ha contenuto. Per questo diventa condannabile non appena viene ricercata per sé stessa. Sotto questo aspetto, è paragonabile al denaro. Come il capitale è tenuto, per meritare il nome di capitale, ad accumularsi sempre, a riprodursi e ad accrescersi, così la potenza è sempre sollecitata dal suo stesso eccesso, che spinge a farne un fine a sé stante. Questo è il principio stesso della hybris, della dismisura. Affermandosi come propria e unica norma, la volontà di potenza per definizione non ha altro limite che una volontà contraria. È la fine di ogni etica, di ogni giustizia. Questo è il regno dei Titani. Non rimane altro che la legge della giungla.
Nel mio libro, cito Raymond Abellio, il quale ha operato una distinzione radicale tra uomini di conoscenza e uomini di potenza. Entrambi sono necessari, ma almeno non bisogna sbagliarsi sulla propria vocazione. Sono un uomo di conoscenza, non un uomo di potenza – e come tale credo anche che la conoscenza sia più importante della potenza, perché si ricollega alla funzione della sovranità, mentre la potenza si ricollega solo alla funzione guerriera. Possiamo anche andare oltre considerando la conoscenza come una forma superiore di potenza. Heidegger ha scritto: «Signore è colui che regna sulla potenza» («Herr ist, wer über die Macht herrscht»). Questa è anche la mia convinzione.
DL: Man mano che ti avvicini al tuo ottantesimo compleanno, ti ritrovi più rivoluzionario che mai (o più «controrivoluzionario» a seconda della griglia di lettura storica scelta, ma in fondo è la stessa cosa). La tua rivolta è però venata da accenti conservatori, per ragioni essenzialmente dialettiche, come quando parli di ecologia – una posizione politica alla quale sei sensibile ma di cui rilevi la natura paradossale poiché «si impegna a conservare il mondo in risposta all’irruzione di un altro mondo» (p. 41). Inoltre rimproveri in massa ai cristiani, ai marxisti e persino ai discepoli di Cartesio di voler cambiare il mondo, che sarebbe, secondo te, il «pensiero distruttore per eccellenza» (p. 279). Ti sentiamo combattuto tra una certa rivolta politica (che hai saputo esprimere nel tuo appoggio ai Gilet Gialli o nella tua simpatia per certe avventure populiste) e il vecchio amor fati nietzscheano, che è peraltro solo quello del paganesimo greco e del suo assenso a ciò che è, del suo amore per il mondo immanente così come ci è dato. Si può, senza dubbio, essere sia un ribelle politico che un conservatore «metafisico». Ho sorriso leggendo questa riflessione che sottoscrivo volentieri: «Quando sento delle persone furibonde parlare della «rivoluzione» che sta arrivando, esco a fare una passeggiata. C’è più verità nel canto di un uccello o nella scollatura della schiena di una bella donna che negli spasmi verbali di agitatori impotenti con gesti a scatti e mascelle squadrate». (p. 87) Sembra quasi che sia stato scritto sui social network (che tu però non frequenti)! Scrivi ancora che occorre «saper distinguere, tra coloro che professano il loro detestare l’epoca attuale, coloro che hanno un’alternativa positiva da offrire e i disadattati, che sono semplicemente inadatti alla vita (e che sarebbero tali in qualsiasi altra epoca) o che cercano qualcuno da biasimare per i propri fallimenti, un capro espiatorio per i propri fallimenti» (p. 178). Come conciliare l’amor fati, che è una saggezza alla quale bisogna restare attaccati, con il desiderio di rovesciare un ordine ingiusto e – possibilmente – di rendere il mondo un po’ migliore?
ADB: Ovviamente, per me non c’è contraddizione tra una volontà rivoluzionaria, che non mi ha mai abbandonato, e un desiderio di conservazione che affonda le sue radici in un monismo filosofico per il quale non esiste un «mondo-indietro». Questo è il vecchio tema della Rivoluzione Conservatrice, il cui motore risiede nell’idea che, nelle circostanze attuali, dall’avvento della modernità, solo una rivoluzione può conservare ciò che vale la pena continui a esistere. Per questo ho preso l’esempio dell’ecologia: ha una dimensione innegabilmente conservatrice (la conservazione degli ecosistemi, la valorizzazione del radicamento, la lotta contro un’ideologia della redditività che sta portando alla devastazione della Terra), ma è chiaro, allo stesso tempo, che solo un radicale cambio di rotta (l’abbandono del paradigma del mercato generalizzato generato del capitalismo) può porre rimedio a ciò che i sinceri ecologisti deplorano.
Come ho appena detto, sono attaccato al mondo, più precisamente a ciò che rende il mondo tale che l’uomo possa abitarlo. Di fronte al mondo naturale provo solo stupore, uno stupore che parla all’anima e che allo stesso tempo ne rivela l’esistenza. Penso che chi inizialmente voleva «cambiare il mondo» – non dico migliorarlo, perché migliorare non è cambiare – abbia messo in moto un processo di distruzione che ci sta portando al caos. Da qui questo paradosso che mi ha sempre colpito: per restituire al mondo le sue prerogative, dobbiamo a nostra volta cambiare il mondo che chi ha voluto cambiare il mondo è riuscito a realizzare. Svolta dialettica e doppio capovolgimento, poiché si tratta di opporre una negazione a un’altra negazione. Non è certo semplice. Tanto più che, se oggi ci sono molti estremisti, i veri rivoluzionari sono pochissimi.
L’amor fati è un’altra cosa. È l’amore del destino, quindi una problematica che deve essere studiata in connessione con la nozione di destino. In un ordine di idee correlate, ma tuttavia diverse, c’è questa sorprendente frase di Léon Bloy, che Carl Schmitt amava citare: «Tutto ciò che accade è adorabile». Certo, voglio che le cose «accadano», ma non mi spingerò più in là!
DL: Un amico con cui parlavo de L’Esilio interiore scherzava dicendo che ogni tre pagine c’era un «coming out socialista». Possiamo infatti immaginare, leggendoti, che i più «destrorsi» dei tuoi lettori abbiano spesso rabbrividito. Chi ha conosciuto il tuo lavoro fin dall’inizio è a volte combattuto tra il riconoscimento di una certa coerenza intellettuale e una certa fedeltà a te stesso nel corso dei decenni e un giudizio leggermente diverso secondo il quale ti saresti «spostato a sinistra» con il tempo. Questo termine è ovviamente scelto male ed è ovvio che tu non sei e non sarai mai un uomo di sinistra per ragioni di coerenza filosofica più volte dimostrate (rimandiamo i nostri lettori ai libri di Jean-Claude Michéa). Ma ciò che significa questo termine imbarazzante è che c’è stata in te una lenta, progressiva e costante inflessione verso certe forme di pensiero socialista. «Più passa il tempo», scrivi, «più mi rendo conto che politicamente parlando, la mia vera famiglia spirituale non è composta da Maurras e Joseph de Maistre, né fondamentalmente da Bardèche o Brasillach, e ancor meno da Gustave Thibon e Pétain, ma da Sorel e Proudhon, Eugène Varlin e i comunardi, Christopher Lasch e George Orwell, Pasolini e Walter Benjamin, il sindacalismo rivoluzionario e il movimento operaio» (p. 38). Come spieghi questa evoluzione (se ce n’è una) e come ti posizioni oggi rispetto al socialismo?
ADB: Trovo la reazione del tuo amico comprensiva ma un po’ curiosa. Il termine «socialismo» non mi ha mai spaventato. I primissimi articoli che ho pubblicato, quando avevo diciotto anni, parlavano già di «tradimento capitalista» e della necessità di creare un «partito di popolo»! Da allora, la mia critica al capitalismo ha continuato ad approfondirsi. È successo così che ho capito subito che non c’era nulla da aspettarsi dalla «destra» sotto questo aspetto, vuoi perché ha aderito interamente alla società liberale, vuoi perché i critici di questa area si limitavano a denunciare in modo infantile la «ricchezza anonima e apolide» (i cattivi banchieri!). Così sono andato a cercare altrove gli elementi di una critica radicale dell’assiomatica dell’interesse, del valore di scambio, del feticismo delle merci, ecc. Questo è ciò che mi ha portato a leggere le opere del Movimento antiutilitaristico nelle scienze sociali (MAUSS), di Karl Marx, dei teorici della critica del valore (Robert Kurz), ecc. Non parlerei quindi tanto di una «sinistrizzazione», e nemmeno di un’evoluzione, ma di un’accentuazione che è scaturita tanto dalle letture che ho potuto fare quanto dalla presa di consapevolezza delle nuove circostanze specifiche del momento storico che attraversiamo. Aggiungo che negli anni ho imparato a misurare tutto ciò che separa il socialismo in senso stretto, cioè l’aspirazione a una maggiore giustizia sociale, e una «sinistra» imbevuta di un progressismo illuminista che, nella sua fondamentale ispirazione, non ha nulla a che fare con la difesa dei lavoratori. Questa divisione tra la sinistra e il socialismo divenne un abisso quando la sinistra si allontanò dal popolo per abbracciare la causa delle minoranze sessuali o etniche. Allo stesso tempo, ho anche approfondito la mia critica al liberismo, che resta oggi il perno dell’ideologia dominante che combatto.
Nel corso dei miei scritti mi è talvolta capitato di definirmi un «socialista conservatore», nella linea di George Orwell e Jean-Claude Michéa, o di situarmi nella filiazione di Proudhon o di Sorel, per limitarmi a due grandi figure del socialismo francese. Il libro che ho dedicato a Edouard Berth, il più fedele dei discepoli di Sorel, si colloca naturalmente in questa direzione. In «socialismo» c’è la parola «sociale», alla quale attribuisco estrema importanza. Lo stesso vale, e forse ancor di più, per la parola «comune». Se il termine non fosse inquinato dalla storia, non avrei difficoltà a definirmi «comunista» da questo punto di vista, ma ciò aprirebbe la porta ai processi alle intenzioni. In mancanza di meglio, parlo di «comunalismo» o anche di spirito «comunitario», difendo i «comunardi», insisto sulla necessità di difendere il «bene comune». Allo stesso modo, quando parlo di «bene comune», sottolineo che la seconda parola dell’espressione è importante almeno quanto la prima. Che questo possa far rabbrividire i «più destrorsi» dei miei lettori mi è del tutto indifferente.
DL: Nonostante questa evoluzione, continui a menzionare l’umanesimo tra i tuoi crucci ideologici. Il termine compare molte volte nel tuo libro, sempre con connotazioni negative. Trovo un po’ difficile seguirti su questo terreno perché è un’idea alla quale sono da parte mia molto legato e ho sempre trovato nei tuoi libri e nel tuo pensiero elementi che si potrebbero qualificare come umanistici. L’opposizione al meccanicismo, alla disumanizzazione generata dal capitale e dalle mutazioni tecno-industriali del mondo moderno, il primato assegnato all’essere umano sul mondo delle merci e su tutti i processi che lo alienano e le reificano, non è di per sé questo già un approccio umanista? Ma forse è un fraintendimento sui termini e forse non stiamo parlando della stessa cosa. Cosa rimproveri esattamente all’umanesimo?
ABD: È in effetti un fraintendimento dei termini. Il problema è che anche la parola «umanesimo» è stata troppo utilizzata. Quando la uso, non è in riferimento all’umanesimo di Montaigne o agli umanisti del Rinascimento. È piuttosto, prima di tutto, come sinonimo di antropocentrismo: l’idea che l’essere umano non sia solo la «misura di tutte le cose», ma che sia radicalmente tagliato fuori dal resto dei viventi, anche dal cosmo. Senza cadere nell’antispecismo, che ne è il riflesso simmetrico inverso, sono un critico dell’antropocentrismo. Ma soprattutto, il mio rifiuto dell’umanesimo è una conseguenza del tutto logica della mia critica alla nozione di «umanità». Coloro che parlano in nome dell’umanità (e che, per questo, si definiscono «umanisti») parlano in nome di un uomo astratto, un uomo teorico senza terra, di ogni luogo e di nessuna parte. Credono che prima di tutto siamo uomini di questo tipo e solo dopo apparteniamo a un popolo o a una cultura specifici. Per me è il contrario: apparteniamo all’umanità solo attraverso la mediazione di una cultura particolare. Loro vanno dall’universale al particolare, mentre io procedo nella direzione opposta. L’umanesimo, per me, è soprattutto l’ideologia dei diritti umani, che ha dato vita anche alle «guerre umanitarie». Tuttavia, in una prospettiva anti-universalista, «l’uomo» non esiste («non l’ho mai incontrato», diceva Joseph de Maistre), esistono solo gli uomini, che si definiscono soprattutto per le loro appartenenze sociali e culturali. La mia critica fa riferimento a Nietzsche e al suo superumanesimo («l’uomo è qualcosa che va superato»), e soprattutto al pensiero di Heidegger. Sartre aveva voluto portare Heidegger alla causa dell’esistenzialismo facendo di lui un «umanista». Heidegger gli rispose nella sua celebre Lettera sull’umanesimo indirizzata nel 1946 a Jean Beaufret. Per Heidegger, dare senso alla condizione umana implica interrogarsi sull’essenza dell’uomo, il che pone immediatamente la questione dell’Essere, perché «l’essenza dell’uomo non è nulla di umano». In questa prospettiva, tutto l’umanesimo deriva dalla metafisica che, da più di duemila anni, si oppone all’ontologia in quanto vela e oscura la verità (aléthèia) dell’Essere. L’umanesimo occidentale non fa altro che consacrare la dittatura dell’Ente sull’Essere.
Inoltre, Heidegger dice anche che «l’umanesimo non pone abbastanza in rilievo l’humanitas dell’uomo», il che è molto significativo. Se torniamo al significato originario della parola humanitas, che si riferisce a ciò che è più specifico dell’uomo, alla sua essenza generica (Gattungswesen nei Manoscritti del 1844 di Karl Marx), allora possiamo anche usare positivamente la parola «umanità». È in questo modo che concordo pienamente con te quando denunci la «disumanizzazione generata dal capitale e dalle mutazioni tecno-industriali del mondo moderno», e quando evochi il primato dell’«essere umano sul mondo delle merci e su tutti i processi che lo alienano e lo reificano». Siamo anche d’accordo, ne sono convinto, sulle terrificanti prospettive (intelligenza artificiale, algoritmi, ecc.) che sembrano annunciare la grande sostituzione dell’uomo con la macchina. Ma qui non è in questione «l’umanità degli umanisti», è l’essenza della specificità umana, che è tutt’altra cosa.
DL: Il vano desiderio di parlare in nome di un «noi» immaginario mi ha fatto sprecare vent’anni di lavoro intellettuale» scrivi (p. 202). Non hai mai rinnegato i tuoi anni di militante e hai sempre espresso una certa stima per chi, anche oggi e qualunque sia il suo campo, dimostra questa disciplina e questo impegno. Questa riflessione, tuttavia, suggerisce che sei più a tuo agio come elettrone libero che come soldato di una causa. Del resto, se quella che viene pomposamente chiamata la «Nuova Destra» fosse stata una fazione politica in senso stretto, piuttosto che una nebulosa intellettuale aperta a tutti i venti del pensiero, probabilmente non mi ci sarei approcciato io stesso! Lungi dall’essere un religioso solitario, sei stato comunque coinvolto a lungo in progetti collettivi, a partire dalla rivista Éléments. Il minimo che possiamo dire è esiste un vero eclettismo nella redazione. Pensi che, nonostante le nostre differenze e l’assoluta libertà di pensiero che ci concediamo, esista ancora un «noi» che sarebbe quello di Éléments?
ADB: Ovviamente c’è un «noi» corrispondente al gruppo di Éléments. Tutti coloro che scrivono in questa rivista sono più o meno d’accordo sull’essenziale, il che non impedisce loro di concedersi reciprocamente, come dici tu, una «assoluta libertà di pensiero». Una redazione non è una setta, e un progetto collettivo non implica un pensiero unico! Ma quando sembri opporre l’«elettrone libero» al «soldato di una causa», penso che ti sbagli. Non si tratta di essere un elettrone libero, ma di saper avere un pensiero personale nello stesso tempo in cui si è al servizio di una causa collettiva. Nel brano del mio libro che citi, non è la «nostrità» che attacco, ma questa mancanza che consiste nel censurarsi, nel voler esprimere solo ciò che ogni membro del gruppo a cui si appartiene potrebbe sottoscrivere. In passato molti intellettuali, quando servivano un partito, si castravano. Risultato: scritti mediocri perché non si poteva «dare scandalo a Billancourt». C’è una grande differenza tra ciò che devi dire per non sembrare che ti stia allontanando dai binari e ciò che devi dire semplicemente perché lo pensi davvero. In altre parole, l’appartenenza a un gruppo non dovrebbe ostacolare il pensiero personale. Al contrario, deve stimolarlo, perché alla fine è il gruppo che ne beneficerà. In un’aiuola ogni fiore cresce da solo, ma ciò non impedisce all’aiuola di esistere.
Inoltre, a partire da un certo livello di riflessione, non si può avere altro che un pensiero personale. Chi rifiuta ciò, il più delle volte perché incapace di averne uno, si condanna a recitare slogan. Diventano dischi incantati. In una scuola di pensiero, ognuno deve agire al proprio livello. La Chiesa cattolica, nella sua grande saggezza, ha ben compreso che i catechisti, i missionari e coloro che si dedicano all’esegesi o alla riflessione teologica di alto livello non possono usare lo stesso linguaggio, e nemmeno talvolta usare gli stessi termini, il che non impedisce loro di comunicare all’interno della stessa fede e difendere la stessa causa.
DL: I pensieri in cui mi sono trovato di più, quelli che mi hanno dato di più per capire che c’era come una parentela di spirito (o sensibilità) tra di noi, indipendentemente dalla nostra età e dalle nostre rispettive esperienze, sono quelli sull’amore e sulle donne. Alcune tue confidenze tendono a mostrare che il libertinaggio si sposa molto bene con un rapporto molto sentimentale con le donne – lo fa, ma complica la cosa, la rende più intensa, a volte più dolorosa. Non è sempre facile essere libertini quando si ha un cuore di carciofo (modo di dire francese che indica una persona che si innamora molto rapidamente e facilmente, NdT), ne sappiamo qualcosa! Scrivi che le donne amano qualcuno mentre gli uomini amano l’amore (p. 155) e che le donne amano fare l’amore mentre gli uomini sono generalmente contenti di volerlo fare (p. 196). Queste irriducibili distinzioni formano il sale dei rapporti tra uomini e donne, ma ne costituiscono anche la loro parte tragica, con la loro parte di irrimediabile incomunicabilità. E poi c’è questo eterno tiro alla fune tra durata e intensità, su cui torni più volte… Non esiste quindi l’amore felice?
ADB: Tranquillo, esiste l’amore felice, anche per i libertini che hanno il «cuore di carciofo»! Il problema è che questa felicità è raramente duratura. Una canzone di Rita Mitsouko dice che «le storie d’amore finiscono male, di solito» (è diventata anche il titolo di un film – Les histoires d’amour finissent mal, en général). Per non cadere nel pleonastico, basterebbe dire che semplicemente finiscono. Nella sua forma più sublime, l’amore fa vivere sulle sommità. Il problema è che non viviamo sempre sulle vette. I poeti principianti non mancano di rimare «amore» (amour) e «per sempre» (toujours), ma questa è una rima contestabile. Credo che la durata sia inversamente proporzionale all’intensità. Detto questo, ci sono eccezioni, ma sono rare. Durante la mia vita, devo aver conosciuto sette o otto coppie ammirevoli, sulle quali il tempo sembrava non aver avuto effetti. Non sono molte. Gli amori che durano, molto spesso, si trasformano in qualcosa di diverso dall’amore: si trasformano in intimità abituale o convivenza sentimentale. È apprezzabile, ma non è amore come lo intendo io. La natura asimmetrica delle relazioni tra uomini e donne complica ulteriormente le cose. Per ogni sorta di ragioni, uomini e donne non vogliono le stesse cose, e quando vogliono le stesse cose, non le vogliono allo stesso modo. È un inesauribile argomento di riflessione, di cui ho fornito alcuni esempi nel mio libro. Questo spiega, come potete ben immaginare, la mia irriducibile contrarietà alle manovre che oggi vediamo dispiegate per eliminare la differenza tra il maschile e il femminile: l’ideale della neutralità sessuale, l’ideale «trans», androgino, gender fluid e «non binario». L’abolizione della differenza tra i sessi sarebbe una rivoluzione antropologica in cui vedo un vero crimine contro l’umanità.
Un’ultima parola sull’amore (di cui esistono ovviamente forme diverse, così come esistono tipi di uomini e donne anche molto diversi): l’amore, con la sua base sessuale, che possiamo, a seconda del momento, trovare come centrale o irrisoria, è una gioia immensa. Ma è anche, molto spesso, una sofferenza immensa. Tuttavia, rimango convinto che la gioia che precede sia infinitamente più importante della sofferenza che spesso segue. Guai a chi non ha mai veramente amato e non è mai stato veramente amato!
DL: Quello che apprezzo particolarmente nella tua critica al femminismo è che non si tratta di una critica misogina (come troppo spesso accade a un certo scontroso antifemminismo, quello del risentimento weinigeriano-schopenhaueriano) ma al contrario, una critica che potrebbe chiamarsi «filogina». «La misoginia», scrivi, «non è radicata in un sentimento di superiorità, ma in un senso di colpa. Gli uomini che svalutano le donne non le perdonano, prima per il desiderio che suscitano in loro, poi per aver rivelato loro che essi stessi non hanno valore. (p. 97-98) E aggiungi più avanti che «un segno infallibile per identificare i veri misogini è vedere il disagio che li coglie quando si trovano di fronte a una donna superiore a loro» (p. 281). Considerando l’esacerbarsi della «guerra dei sessi» voluta dalle neo-femministe animate dal wokismo, con tutto ciò che esso porta con sé di misandria e di puritanesimo, non temi che una parte degli uomini, cadendo per reazione nel senso opposto, possa passare da un legittimo antifemminismo a una deriva misogina e nichilista? Gli Stati Uniti ci hanno portato il wokismo ma ci hanno portato anche il mascolinismo…
ADB: Questo è effettivamente un rischio, ed è per questo che vorrei che dai nostri ambienti uscisse una critica ben argomentata al mascolinismo [NdR: ci stiamo lavorando caro Alain!]. Sono davvero un «filogino», se non altro perché la compagnia delle donne in genere mi procura più benefici di quella degli uomini, ma anche come reazione alla misoginia, le cui cause più comuni sono il risentimento e la frustrazione. In passato ho sostenuto quasi tutte le rivendicazioni femministe, o almeno la maggior parte di esse. Ma devo ammettere che la misandria, la critica isterica dell’«eteropatriarcato» e dei valori strettamente virili, la dittatura del «discorso femminile», il neo-puritanesimo d’oltre Atlantico, a volte mettono a dura prova la mia filoginia. Vediamo qui infatti una delle maggiori contraddizioni di un certo neofemminismo, poiché spesso sono le stesse persone che, da un lato, proclamano virulentemente la superiorità delle doti femminili su quelle maschili, e dall’altro sostengono, nella scia della teoria di genere, che il sesso fisiologico non conta nulla. Non credo, da parte mia, che eleviamo le donne abbassando gli uomini, né che il modo migliore per combattere il patriarcato sia sostituirlo con il matriarcato.
DL: Confessi che tre film almeno ti hanno fatto piangere: L’angelo blu (Josef von Sternberg, 1930), Innocenza e malizia (Jean-Loup Hubert, 1987) e Million Dollar Baby (Clint Eastwood, 2004). Sono tentato di farti la stessa domanda, questa volta non sul cinema ma sulla musica. Ci sono opere musicali, qualunque sia il loro genere, che ti emozionano particolarmente?
ABD: Sì, molte opere musicali mi commuovono, ma non al punto da farmi piangere. Forse è perché non ho l’orecchio assoluto. Ma più fondamentalmente, penso che sia perché sono un uomo d’occhio, un uomo di vista, non un uomo di ascolto. La mia emozione è più innescata da qualcosa che vedo, non da qualcosa che sento. Mi piace l’eidôlon, cioè, in senso letterale, ciò che si dà alla vista, ciò che si rivela alla vista. Da questa opposizione ho tratto anche alcune considerazioni filosofiche che la traspongono su un altro piano: opposizione tra immagine e concetto, concreto e astratto, forse anche spazio e tempo. Ovviamente ci vorrebbe un intero libro per approfondire questo discorso.